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martedì 18 gennaio 2022

Prima del calcio di rigore [di Wim Wenders - 1971]

 

Ricordi di gioventù
Una partita di calcio

Il trillo del telefono rompe la routine noiosa di una certa parte della giornata lavorativa.
La voce dall’altro capo del filo ha l’inflessione a me cara, e questo basta per farmi rasserenare, poi il motivo della telefonata mi ha catapultato all’indietro di quarant’anni.
Quante emozioni mi ha procurato quel trillo, richiamandomi ricordi buoni e cattivi, volti e nomi, giochi e sofferenze, amici, tanti amici.
La scuola, i compagni, i professori, le marachelle e le conseguenti sospensioni, gli amori primi e indimenticati. Ovviamente solo platonici. Spesso note solo a me e non alle destinatarie dei miei innamoramenti, tipici di quell’età.
Infine, un amore, questa volta praticato: il calcio, letto, parlato, e praticato appunto.
Giocavamo al campo del “Vignale” dietro la villa “Galatti” che di primavera si riempiva di glicini profumatissimi (ora è disabitata e diroccata e mi fa sanguinare il cuore quando, arrivando, la cerco per trovare i miei ricordi giovanili).
Il calcio, dicevo. Quante battaglie a parole e a calci, quando giocavamo.
Quelli di “Susu” contro quelli di “Jusu” oppure scontri tra classi diverse dell’avviamento ad indirizzo agrario che ebbi la fortuna di frequentare. Da lì è partita la mia laurea in Economia. Vedete come fruiscono i pensieri; questo “brainstorming” e proprio una tempesta del cervello, un torrente in piena come il Bonamico il 18 ottobre ’51!
Memorabile e rimasto il sonoro 11 a 0 che beccammo a Natile Nuovo, una calda domenica di giugno, a ridosso della festa di San Pietro che, se ricordo bene, è il patrono di Natile.
Partimmo a piedi da Platì alle otto di mattina, arrivammo a Natile verso le 10.
Cominciammo la partita con la stanchezza nelle gambe, oramai diventati di legno e la testa che era bloccata al pensiero che, a piedi, avremmo dovuto tomare al paese!
Ebbene le prendemmo di brutto, senza alcuna scusante. Lascio a voi immaginare con quanto entusiasmo ci siamo rimessi sulla via del ritorno con il peso schiacciante dello “scorno" delle undici “papagne" incassate.
Io facevo l’ala destra e, tifando per la Juve, mi chiamavano Charles, per la mia irruenza. Lui era il “gigante buono”, io invece...
Ecco ho voluto fissare alcune sensazioni tra le moltissime che velocemente mi sono passate davanti, al solo sentire che avrei dovuto scrivere per ricordare qualcosa della mia vita al paese.
Ecco ho fissato questi fatti insieme alle emozioni sicuramente insignificanti per chi legge. Non per me che mi hanno dato modo di rivivere attimi di cui ho rimpianto, a quest’ora, in questo mio studio, sicuramente bello e comodo, ma senza la spensieratezza e la gioia dei momenti appena rievocati.
Ho scritto di getto, senza neanche rileggere, probabilmente la dattilografa penserà che sono “uscito pazzo". Non sono pazzo, ho solo “vomitato” parte dell’immenso affetto che ho per la mia terra per la quale vorrei fare tanto e ho fatto niente.
Ecco ora ricordo l’odore che emana di questi tempi la “crizza” (come si chiama in italiano?) al sole, mentre asciuga dalla brina notturna di settembre.
Certo, un messaggio vorrei che arrivasse a qualche giovane che dovesse leggere questo scritto: non pensi al solito retorico vecchio che gronda nostalgia ed autocontemplazione dei bei tempi passati. No, sbaglierebbe. Si tratta sicuramente di una persona che ha passato i cinquanta, ma che nella vita ha lottato con “fede
ed ardimento" per affermare sé stesso e i valori positivi seminati e coltivati in una terra aspra e portati in giro per l’Italia.
Valori che ancora oggi danno forza ed entusiasmo per lottare e vincere le battaglie che quotidianamente la vita riserva. Questi momenti rievocativi servono a dare una rinfrescata ai valori suddetti e servono a rilanciarmi.
Guai a non avere momenti o angoli privatissimi che conservano la giocosità della fanciullezza, non ci sarebbe entusiasmo senza queste piacevolezze, dove rifugiarsi nei momenti di crisi della propria identità.
Servono per ritrovarsi e ripartire alla grande per nuove mete positive e di valore alto.
Attilio Caruso

Il testo originale è in

PLATI’ PERIODICO DI CULTURA E INCONTRO ANNO 0 - NUMERO 0 - NOVEMBRE 1996

rivista fondata e diretta da Mimmo Marando 

mercoledì 10 marzo 2021

YOUNG AMERICANS [di Danny Cannon - 1994]




Platì, giugno 1960, i giovani Tripepi di Mishawaka IN in vacanza.

 

lunedì 21 settembre 2020

London calling - The Clash

 London calling to the faraway towns
Forget it, brother, you can go it alone
The Clash





London, summer 1970

Saro (alias Paolo) è stato dapprima un beat, successivamente passò attraverso i Mod, i Rocker e gli Hippies. Il punk non l'ha sfiorato. Quello di Londra fu il suo viaggio iniziatico-lisergico. Partì da Messina ma Platì ancora non l'aveva rimosso.

venerdì 21 agosto 2020

The Entertainer [di Tony Richardson - 1960]

Days of speed and slow-time Mondays
A hot summer’s day and sticky black tarmac.
I say that’s entertainment
That’s entertainment
Paul Weller


Ettore Castagna è senza ombra di dubbio un One Man Show: legge, suona, canta, affabula. L’incontro con i platiesi è stato per lui proficuo dal punto di vista del calore umano come da quello delle vendite della sua ultima opera, la cui presentazione l’ha portato ancora una volta in Platì. Il suo reading è anche stato supportato da rumori, suoni e musiche che contribuiscono al coinvolgimento dello spettatore, da quello avvezzo alla lettura come dall’occasionale passante. Chitarra, zampogna, marranzano, flauto i suoi compagni di viaggio senza tralasciare la ridotta illuminazione, la sminuita amplificazione unplugged e lo striminzito supporto digitale.  Compagni occasionali per la riuscita della giornata sono stati, oltre il solito ronzio catalitico, una fresca venticata discesa dall’aria du ventu e un’estemporanea performance di Cicciu Musitano, alias fascista in origine, bonificato in u ccinciu. Last but no least il teatro dove l’evento si è realizzato: l’Asilo creato nei primi anni 50 del secolo della bomba atomica per interesse dell’A.N.I.M.I. nella sua figura principale, Umberto Zanotti Bianco. Entrare in quell’incubatrice infantile dove monache vestite di nero luttuoso allevavano bambini di tutto il ceto sociale platiese è stato un mancamento dell’anima e della memoria: il refettorio/dormitorio, la fila di rubinetti del bagno per i piccoli, le aule, il corridoio percorso dalla zia Annina per andare sposa allo zio Pepè, la cappella dove avevano officiato lo zio Ciccillo e lo zio Ernesto. Per tutto questo: GRAZIE ETTORE!

A causa della ciurramica sosta forzata ho dovuto optare per un'immagine d'altri tempi. Le foto della serata verranno in seguito, confidando nella vostra pazienza.

domenica 19 luglio 2020

Così freddo così dolce [di Roberto Bianchi Montero 1972]



U Gelataiu
Don Danti Demaiu u gelataiu,
nu mezzu i trasportu s’inventau.

Na bricicchetta cu tri roti fici
e nu puzzettu po gelatu misi.

Mu teni duru e non mu prestu si squagghjia
cumbogghjiatu stava di ghjacciu e pagghjia.

Era friscu e duci ju gelatu
si sanava u cori du malatu.

Quandu si fermava accossì gridava:
“Ciangiti figghjioli ca i mammi vu ccattunu
deci liri ammia mi bastanu”.

Girava nto paisi tanti voti
u si rifrisca a vucca di pratioti.

Testo e voce: SILVANA TRIMBOLI


Music: Apollo 100, JoyJesus bleibet meine Freude BWV 147, J. S. Bach, arr. Tom Parker

venerdì 17 luglio 2020

LA MESSA E' FINITA - 2020 reup


Per Te, carissimo zio Ciccillo, fin dall'infanzia, ho provato passione per la musica: quando chiamavi i pratioti a messa con le note della Marcia alla Turca di Mozart o con La Gazza Ladra di Rossini.
In quei 78 giri della Voce del Padrone, neri come la tua veste, pesanti e duri come lastre di lavagne, i baratri nei solchi del disco ormai facevano parte aggiunta della composizione originale, e chissà quante malanovak hanno ricevuto da parte delle puntine del giradischi Geloso, che poi erano chiodini dorati come quelli che usava lo zio Peppino quando inchiodava le scarpe.
Le tue messe, anche quelle solenni o cantate, alla chiesa del Rosario erano per niente noiose e per niente infinite, tant'è che il fedele adulto ne usciva in pace con il Padreterno per aver adempiuto ad un comando che poteva essere aggiunto agli altri peccati in confessionale o i piccoli scappare a giocare nei casalini aspettando che la mamma preparasse il ragù di carne, e noi nipoti di nonna Lisa o nonna Maria correvamo in cucina per avere i jancareii i pani ammorbiditi e impregnati nel soffritto prima che la mamma versasse il pomodoro.
Quei pomeriggi nella sacrestia, quando impastavi e cuocevi le ostie, come passerotti noi pargoletti eravamo là ad attendere i ritagli per mangiarli golosamente. Oppure i primi lunedì o venerdì di ogni mese quando il ricavato delle offerte della messa lo davi tutto ai chierichetti.
Tutti hanno dimenticato le "Rogazioni", processioni mattutine per la buona riuscita delle seminagioni. Io ti vedevo passare dal balcone di casa con i fedeli e non capivo cosa accadeva, pensavo impaurito ad un accompagnamento, ma non vedevo la bara. Quando ho capito sono saltato anch'io, come Lord Jim, dalla barca, la messa era definitivamente finita.
Zio Ciccillo, da molto non ci sei più e tutto questo è ritornato in queste pagine.

giovedì 9 luglio 2020

Mai morire [di Enrique Rivero, 2012]

Long afloat on shipless oceans
I did all my best to smile
'Til your singing eyes and fingers
Drew me loving to your isle
And you sang
Tim Buckley



(...) Io vengo dalla Locride, dalla Magna Grecia, da un paese in cui il “pianto greco” non è un fatto folkloristico: abbiamo imparato già a scuola che tutti gli eroi dell’antichità piangono, gridano e si disperano, ma non c’è memoria di prefiche, nel mio paese. Il dolore con cui si piangevano i morti era autentico, partecipato, vissuto da tutta la comunità, soprattutto quando a morire erano persone giovani, oppure, come capitava di frequente, quando ero bambina, quando si trattava di morti ammazzati. Io però ero tenuta lontana da certi eventi e dai riti collegati alla morte, anche se vedevo spesso donne ammantate di nero che non toglievano il velo dalla testa per anni. La mia relazione con la morte era limitata al 2 novembre, il giorno preposto all’esposizione pubblica del dolore, quando il cimitero si riempiva di donne che urlavano e si strappavano i capelli anche, ricurve sulle tombe dei loro cari, oppure alla processione del venerdì santo, con la statua del cristo morto portata a spalla su un lettino bianco che, durante tutto il resto dell’anno, mi faceva paura dall’angolo della sacrestia della chiesa dove lo zio diceva messa. Il mio primo contatto con la morte l’ho vissuto senza rendermene conto a sette anni: la nonna era molto anziana e costretta a letto da tempo e quando andavo a trovarla, a volte anche malvolentieri, mi sedevo accanto al letto con la zia, con la mamma, con le vicine di casa che aiutavano la zia nell’accudire la nonna come gesto spontaneo, ma non ricordo che lei mi parlasse. Non mi sorpresi, perciò il giorno in cui la zia, sulla porta della stanza, mi disse di entrare a salutarla. “Dai un bacio alla nonna” mi disse, ed io la baciai, senza rendermi conto che era morta, né in quel momento, né per molti anni a venire. Quando morì lo zio, anni dopo, ero un po’ più grande e non volli nemmeno vederlo e per anni continuai a conservare gelosamente la sensazione di vederlo spuntare da dietro l’angolo… 
BETTINA GLIOZZI
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Qui il non presentito addio al MAESTRO che ha segnato, e segnerà, le mie tappe:
mentre mi autografa una copia di NCP.
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Le foto: in apertura il piccolo Ciccillo Gliozzi con la mamma Bettina Mittiga (20 luglio 1893 - 10 luglio 1970) e la zia Iolanda Mittiga. A seguire, tutti Gliozzi: da sinistra: Fina (al cielo Maria Gemma) l'infante Bettina, per il mondo Marilisa, Bettina Mittiga e Amalia.
La cover di Song To The Siren di Tim Buckley, cantata da Bettina Frazer, fece epoca nei primi anni ottanta del passato secolo e il doppio lp è ancora oggi fresco come l'acqua di cromatì.

lunedì 18 maggio 2020

Angeli senza paradiso [di Willi Forst,1933]

    

Ancora nel cuore, ancora nella mente


di PAOLA VIOLI

L’alluvione del 1951 aveva lasciato al suo passaggio un paese devastato: detriti e fango dappertutto e case abbandonate senza corrente. Da bere era rimasta solo l’acqua piovana che si raccoglieva dentro le pentole e i recipienti. I bambini correvano per le strade del paese senza controllo e i genitori dovevano pensare a ripristinare quel poco rimasto. Era in questa atmosfera pesante che un mattino venne a svegliarci la mamma. Io e mia sorella più piccola dormivano nello stesso letto, abbracciate per scaldarci. Quando aprii gli occhi era tutto buio, solo la fiammella del lume a petrolio illuminava la stanza. Non sapevamo il motivo di quella sveglia a quell’ora. Mia sorella più grande ci lavò e ci vestì. Mia mamma, impassibile, ci prese per mano e uscimmo nella notte umida e buia. Ci portò davanti alla “Cresiola” da dove partivano i pullman e lì ce n’era uno più grande e di colore diverso dalla corriera che faceva regolare servizio. Sul quel grande pullman c’erano delle signore vestite di bianco. Ci unimmo ad altre bambine del paese, eravamo circa una trentina e ci fecero salire sul grande pullman. Mia sorella tenendosi per mano alla sua amichetta Serafina cominciò a salire sul pullman mentre io mi attaccai alla saia di mia mamma. E quando cercò di farmi salire mi nascosi dietro di lei piangendo e gridando perché non volevo salire. Quando le porte del pullman si chiusero una delle signore in bianco abbassò il finestrino, mia mamma con forza mi prese in braccio e mi passò tra le braccia che sporgevano dal finestrino. Mi fecero sedere accanto ad un’altra bambina e dopo poco mi addormentai. Quando mi svegliai entrava la luce dai finestrini, ci fecero scendere, ci diedero qualcosa da mangiare ed entrammo in quella che mi sembrò una stazione, non so se di Bovalino o di Reggio Calabria. Arrivò un vecchio treno e ci fecero salire. Era tutto in legno, sporco e brutto. I sedili duri facevano male alle nostre fragili ossa. Un viaggio da incubo per una destinazione ignota, non si arrivava mai. Eravamo stanchi e sporchi. Finalmente il treno si fermò e ci fecero scendere. Un altro pullman ci portò in una piazza grandissima. Lì, secondo la mia amica Antonietta Romeo, ci fecero entrare in un locale dove c’erano tante scarpe, ognuna di noi poteva sceglierne un paio e calzarle. Non ricordo se fossimo scalze o se quelle che indossavamo non fossero idonee per entrare in un grande locale pieno di angeli e santi nelle pareti e sul tetto. Eravamo in Vaticano. Rimasi incantata di tale e tanta bellezza, non avevo mai visto nulla del genere. Lì c’erano uomini con i mantelli rossi e strani cappelli e monache vestite di nero con colletti bianchi. All’improvviso tutti tacquero e si girarono con la testa in su verso una balconata. Anche noi bambini alzammo la testa e vedemmo un signore con un cappello a punta e un bastone che con una mano ci salutava. Non so cosa ci disse, presumo che ci desse il benvenuto e la santa benedizione. In seguito, attraverso le fotografie, riconobbi in lui Papa Pio XII. Dopo di che delle suore ci distribuirono un sacchetto di carta marrone con dentro caramelle, biscotti e cioccolatini. Uscendo sul piazzale ci aspettavano altri pullman. Ci divisero in due gruppi, metà fummo mandati a Roma, gli altri a Ostia Lido. Quando mi trovai sopra il pullman non vidi più mia sorella, era stata mandata a Ostia. Mi misi a piangere e una suora mi venne vicino, le dissi: “Aund’è me soru?” (dov’è mia sorella?). La suora non mi comprese: lei non conosceva il dialetto e io non conoscevo l’italiano. Mi disperai tanto che mi prese in braccio e cercò di tranquillizzarmi dicendo che presto l’avrei rivista. Invece non fu così, la rividi dopo 24 mesi, io ero già a casa quando lei ritornò da Ostia.
Ci portarono in un collegio, ci diedero da mangiare e ci misero a letto. Nella stanza dove dormivamo erano disposti in fila solo degli enormi letti, ognuno occupato da due bambine, una che dormiva dalla parte della testa e una dalla parte dei piedi. Il letto più vicino all’ingresso era quello della monaca che dormiva con noi. A differenza dei nostri il suo era a baldacchino, circondato da ampie tende bianche per evitare che qualcuna potesse vedere la monaca quando si cambiava. Fu così che una notte vidi un qualcosa che dopo 70 anni è ancora vivo nella mia memoria e non so se fosse sogno o realtà. Era buio e io stavo con gli occhi sbarrati a fissare il letto a baldacchino. All’improvviso da dietro le tende bianche vidi una luce come se fosse una candela accesa. La luce si spostò verso di noi bambine che dormivamo. Mi sembrò che la luce avesse una forma femminile, senza braccia e senza gambe, fatta di luce come un raggio di sole. Fluttuando si fermò nel letto accanto al mio, abbassò la testa come un inchino verso la bambina che dormiva e poi si rivolse verso di me. Io, terrorizzata, mi rannicchiai sotto le coperte coprendomi completamente e da lì non ricordai più nulla.  
Il primo giorno di scuola ci portarono in un altro edificio che era vicino al nostro ma separato da un grande e bellissimo giardino. Lì ci aspettavano tante signorine che parlottavano allegramente. Entrando c’era un corridoio lungo, le aule erano disposte da una parte sola. La prima volta che entrammo c’era un grande e giocoso parlottare, delle belle signorine ci accolsero con allegria. Ognuna si avvicinò a noi coccolandoci, chiedendoci informazioni. Noi le guardavamo stupite, non capivamo cosa dicessero. La vidi venire verso di me: bella, alta e mora, i capelli ondulati cadevano sulle spalle, indossava una gonna stretta fino al polpaccio ed un corpetto stretto in vita. Oggi potrei paragonarla a una diva del cinema Mi abbracciò, mi prese in braccio ed io m'innamorai di lei. Nei giorni che seguirono non vedevo l'ora di incontrarla. Ricordo solo il nome: Margherita. Non so se fossero studentesse esterne o le nostre maestre. L'inverno passò, venne maggio. Il giardino era fiorito.  Della nostra famiglia non sapevano nulla.  Quando mi prendeva la nostalgia della mamma mi rifugiavo in un angolo e piangevo. Ci prepararono per la S. Comunione e per la Cresima. La chiesa quel mattino era piena di fiori bianchi, noi eravamo in fila col nostro vestitino bianco. Sembravamo tanti angioletti ad aspettarci c’erano le nostre madrine. La mia, naturalmente Margherita, mise la sua mano sulla mia spalla. Dopo la cerimonia ci portarono nel cortile accompagnate dalle nostre madrine, Margherita mi diede un pacchetto. Dentro c'era una borsetta di rafia rossa. Mi disse di aprirla. Oltre a caramelle e cioccolatini, c’erano 6 fazzolettini bianchi con ricamo rosso e una scatoletta contenente una catenina d'argento con 3 ciondoli in filigrana: fede, speranza e carità. Margherita me la mise al collo e lì rimase per tanti anni. Ero già a Milano quando la persi. Dopo 12 mesi, ritornammo a casa. Margherita mi aveva preparato un pacco con un corredino di alta qualità. Così si concluse l'avventura cominciata male ma finita bene. Un po’ di anni fa, tornando a Roma, mi venne in mente quella bellissima ragazza che mi fece felice in quei giorni bui. Cercai il collegio una mattina andai non era più come lo ricordavo. Bussai e mi venne ad aprire una suora piuttosto anziana, le spiegai il motivo della mia visita, ma lei non ricordava quel periodo. Mi disse che si erano ridotte a vivere in poco spazio non avendo i mezzi per sostenere le spese. Quando mi fece entrare nella cappella mi commossi perché era uguale a come la ricordavo. Rividi le bimbe tutte vestite di bianco, tanta gente attorno a noi e quella stupenda ragazza. Lasciai un pensierino per le suore quando le salutai. Un frammento della mia fanciullezza se ne era andato, ma nella mente e nel cuore vive ancora.

Nelle foto di apertura Paola Violi – di Giuseppe e Domenica Virgara - a sette anni, il giorno della prima comunione. Di seguito Antonietta Romeo – di Bruno e Maria Rinaldo – di sei anni.
Rosa, la sorella di Paola, quando partì aveva 5 anni
Le suore che avevano ospitato le bambine erano le Bettlemite di Roma. Quel collegio dove soggiornarono oggi non esiste più.


mercoledì 8 aprile 2020

Golgota [di Julien Duvivier, 1935]

Pasqua lontana

La settimana Santa era vissuta con grande partecipazione in paese e la lettura del Passio durante le funzioni religiose non mi annoiava, anzi mi introduceva in un mondo dove Gesù era una persona conosciuta.
"... prima che il gallo canti mi rinnegherai tre volte..." rivolto a Pietro, oppure il tradimento di Giuda non erano solo parole, ma vivide immagini che mi commuovevano fino al pianto.
Venerdì Santo scrutavo il cielo sin dal mattino: la metereologia lo governava che se il tempo si fosse messo al brutto il pomeriggio non ci sarebbe stata la commemorazione e la processione per me la più bella, significativa e coinvolgente dell'anno liturgico.
Il monte Calvario delimita l'orizzonte di Platì; sulla sua cima si stagliano tre croci; cosa potevo pensare, me bambina, di più vero che quello era proprio il Golgota raccontato dalle Scritture?
Niente.
E il Venerdì Santo, quando il tempo lo permetteva, si faceva la salita verso il Monte, la folla variopinta seguiva il prete in silenzio.
Il Rito era lungo perché ci si fermava a tutte le stazioni della via Crucis fino all'arrivo in cima dove il sacrificio del Cristo si compiva sotto gli occhi della Statua dell'Addolorata e di tutti i paesani commossi.
Per me era il massimo del misticismo a cui potevo partecipare e poi...rotte le fila ci si lanciava festanti nella discesa che proprio come per incanto rivelava una natura colorata di verde e giallo i fiori della ginestra che raccoglievo con le amiche perché con quelli avremmo fatto l'inchiostro.
Non ricordo se l'esperimento sia mai riuscito, di sicuro ricordo che a casa portavo un grande mazzo che serravo su un braccio, l'altro mi serviva per dare la mano a mia madre che protettiva e silenziosa asciugava le mie lacrime per la morte di Gesù e mi rassicurava: domenica sarebbe Risorto.
MARIA MITTIGA

La foto risalente agli anni '20 del XXI° secolo è dello zio Giuseppino, u mericu Mittiga figlio di Rocco e Caterina Fera di cui conservo il negativo.

giovedì 30 gennaio 2020

Il fidanzamento [di Gianni Grimaldi, 1975]

Shall I say Would it be a sin?
If I can’t help falling in love with you
Weiss, Peretti, Creatore




IL FIDANZAMENTO. Da quella volta la cassata siciliana mi è indigesta

Pina euforica per l'arrivo del futuro fidanzato correva da una parte all'altra della casa non sapendo decidere cosa indossare; la nonna Mariuzza sovrintendeva in cucina, tutto doveva essere pronto per la sera (una cena leggera) e per l'indomani il sontuoso pranzo di fidanzamento di sua figlia Pina con Giovannino antiquario di Messina nonchè già cognato di sua figlia Rosa che aveva sposato Placido il di lui fratello.Tutto era pronto ,era l'estate del 1957, noi bambini facevamo capolino continuamente per vedere se arrivavano... intanto si era fatto buio e niente.La mamma decise che per noi era arrivata l'ora di cenare e andare a letto.Era stato difficile prendere sonno si avvertiva un'aria nervosa in casa e anche il timore che tutto andasse in fumo.Io presi sonno con difficoltà ma...ad un certo punto voci ,risate, abbracci grida: erano arrivati gli ospiti e il fidanzato. Dopo la cena ,  venne servita un'enorme cassata siciliana che doveva essere repentinamente consumata, il caldo e il viaggio non le davano più margini di attesa.
Il ricordo di quella sera/notte è per me indelebile, sarà che avrò mangiato con avidità sarà che la ricotta non si era forse mantenuta freschissima sarà  ... fatto stà che il mal di pancia mi ha fatto vedere quell'alba con due occhiaie a virgola, nere.
Il fidanzamento è stato bellissimo, Pina era raggiante ma riservata come voleva l'educazione delle signorine di allora.
Dopo il grande pranzo dell'enorme tavolata, sotto lo sguardo austero di nonno Rosario e col suo permesso, Giovannino prese un' Ortensia rosa offrendola a Pina, lei fece scattare la molla di questo astuccio che si aprì sotto i nostri occhi incantati, specie i miei e quelli di Angelina, dentro un anello di  luccicanti brillanti era il simbolo di una richiesta d'amore che Pina accettava con la benedizione dei suoi genitori e la felicità dell'intera famiglia.
MARIA

Nella foto il matrimonio a Paola,
dietro gli sposi da sinistra: lo zio Pepè, lo zio Ciccillo, la zia Rachelina, Pino Fedele, lo zio Peppino, le sorelle Lucia e Maria Sciarrone, la mamma e Saro.
Tra tutte le cover del brano di Elvis Presley quella di Beck va avanti a tutti.


giovedì 16 gennaio 2020

Quando volano le cicogne [di Michail Kalatozov, 1957]


LA NASCITA 24 giugno 1956

Nel tempo rimangono nella mente ricordi o lampi che sono lì e non li puoi datare perché fanno parte della tua coscienza.
Ricordo la ruvidezza di un costume da bagno di lana di colore verde bottiglia che mi pizzicava da asciutto e mi pesava come un macigno da bagnato; ricordo a Platì, seduta tra l’armadio e la cascia, la mamma che mi infila un pagliaccetto rosa di una stoffa così fresca che non ne ho più trovate uguali (avrò avuto 2 anni??!!)
E ricordo ancora l’odore di nafta della corriera al ritorno dal mare da Bovalino e quando questa si fermava davanti al panificio e la mamma scendeva e ci comperava i panini al burro e noi li mangiavamo piano perché non finissero mai... e altre cose che affiorano d’estate col caldo, non so perché.
Ed era l'estate dei miei quattroanniemezzo ed era caldo quel pomeriggio e la mamma, con una pancia enorme per me che la guardavo dal basso, forse si lamentava: tu volevi uscire.
Eravamo a Platì sulle scale di casa: ricordo la penombra e le correnti d’aria poi la mamma che scompare e la nonna Mariuzza che invita zia Pina a preparare me e Saro, ci vestono e nel sole cocente del pomeriggio veniamo portati a casa dello zio Giuseppino (il medico) perché a casa nostra doveva arrivare la cicogna.
Papà diceva ”sbrigatevi” ma nel tragitto Saro ed io scrutavamo il cielo per veder arrivare questa cicogna.
Papà ci lascia in quella enorme casa; i cugini erano già più grandi e noi ci sentivamo spaesati, ma la raccomandazione era che dovevamo fare i bravi: siamo stati seduti e zitti nell’atrio fresco e ventilato nell’attesa che ci riportassero a casa.
Anche se ci avevano detto che non era quella la rotta del volatile verso casa noi scrutavamo il cielo dalle tende svolazzanti leccando senza voglia un gelato.
Ogni tanto Saro mi guardava e io chiedevo "quando torniamo a casa?".
Era quasi l’imbrunire e l’aria si era fatta più fresca quando papà è venuto a riprenderci, felice ci raccontava che era arrivato un maschietto.
Forse correvamo per l’impazienza.
Ora le immagini mi diventano più nitide: facciamo di corsa le scale, mamma è a letto, tra lenzuola bianche pulite, sorride, Saro ed io saliamo sul letto e lei ci bacia, in quella entra la nonna: in braccio un fagottino avvolto in una copertina celeste, si avvicina a noi seduti al bordo del letto e ci porge il bambino.
”Guardate, ecco Gianni”.
Abbiamo gli occhi e il cuore pieni di gioia, guardo la pancia della mamma, ma non mi faccio domande, ti faccio una piccola carezza, ti ho subito voluto bene. Gianni.
Maria

mercoledì 18 settembre 2019

Una vita spezzata - il bianco e il nero



Ritorno ancora per una volta su Antonio Loreto per farvi evidenziare le qualità artistiche delle foto che vedete. Se le guardo attentamente questi scatti agiscono come un macchina del tempo, e rivedo a ritroso  i volti dei miei anni infantili, come quando li rivedo nei sogni. Molto probabilmente l’autore è quello più presente a Platì in quegli anni: Cav. Rocco Brancatisano di Bovalino Mare. Confrontando queste con altre ne viene fuori una considerevole sensibilità verso la macchina fotografica e il contesto da riprendere. Gli scatti in bianco e nero risalgono al giorno del trigesimo della morte di Antonio Loreto. Notate le angolazioni di ripresa delle due foto a media altezza, e il punto che agisce come attrazione: nella prima, già pubblicata, lo sterrato che porta alla sepoltura, nella seconda l’automobile in primo piano che butta una luce chiara sul nero degli abiti dei parenti ritratti sulla scalinata d’ingresso del cimitero, lo stesso chiarore dello sterrato della prima che contrasta col nero delle identiche persone ritratte questa volta non in gruppo ma lateralmente. Il resto lo fanno i visi affranti che guardando verso l’obiettivo sembrano porre l’accento sul punto di non ritorno di Antonio Loreto Trimboli.

P. S. - Sono lieto farvi notare nella seconda foto - il quinto in alto, alla vostra sinistra -  la presenza di Pasqualino Perri, cugino di Antonio Loreto, nell’anno in cui fu presente in paese in qualità di maestro e di cui ricorre in questi giorni il 19° anno che ci ha lasciati.

martedì 17 settembre 2019

Una vita spezzata [Neil Coombs, 2008]

Oggi con la collaborazione di Francesco di Raimondo



L’agosto platiese edizione 2019 non ha offerto niente di particolare che possa essere messo nell’album dei ricordi: solo ronzio di mezzi a due ruote, gas di scarico, qualche ventola di condizionatore d’aria, amalgamati per bene dalla calura particolarmente fastidiosa. Una lodevole iniziativa a carattere familiare però conviene non farla tacere: il ricordare con una messa in suffragio il tragico evento che scosse il paese una mattina di sessanta anni orsono. Una disgrazia sulla montagna, le grida di allarme, la corsa verso il ponte, una vita spezzata, la morte di Trimboli Antonio di Rosario e Miceli Francesca, alias parlinu, a trentasei anni dalla nascita. Il dolore della vedova e dei figli riunì per quel giorno e i successivi il paese ed il tema musicale proposto di seguito mi pare renda bene quel luttuoso momento. Peppina Violi divenne la vedova per eccellenza e ai suoi figli il dolore per la perdita del genitore. Su quest’ultimi i giochi infantili prevalsero e davanti l’uscio di casa accorrevano Raimondo, Sarineiu, Tino, Gianni e Gino. Saro, Pasqualino e Toto non rimasero soli.
Forse se tutti i ceppi familiari platioti di tanto in tanto portassero fuori dal sarcofago un loro familiare venuto a mancare nei tempi che furono, attorno, perché no!, ad una messa in suffragio e a un bicchiere di vino, il passato di un’intera comunità non sarebbe (stato) vano.


Trimboli Antonio Loreto, mulattiere, nasce il 10 dicembre 1923, figlio di Rosario (u parlinu), 1866-1954, e di Francesca Miceli (1883-1953). Il 30 gennaio 1947 sposa Violi Giuseppa nata l’11 aprile 1925, figlia di Pasquale (u cociularu), 1887-1962 e di Ciampa Maria (1895-1984). Violi e Trimboli si sono uniti diverse volte in matrimonio: Maria, sorella di Antonio, aveva sposato Francesco Violi (sempre cocciulari). Un altro fratello di Antonio, Francesco, aveva sposato Anna Violi (stessa famiglia) e poi emigrati in Australia. Sempre in Australia, Marianna Trimboli, figlia di Giuseppe u parlinu, il più grande dei fratelli, ha sposato Pasquale Violi u cocciularu, fratello dei Violi sopra citati.
Come spesso accadeva, era il mestiere a unire le famiglie, proprio come le corporazioni medievali. Infatti Violi e Trimboli hanno condiviso le strade mulattiere a dorso di mulo per diverse generazioni.
Antonio Trimboli era una persona molto attiva a Platì. Conosciuto per la sua vivacità e gioiosità. Quando una ditta di Reggio Calabria prende l’appalto per la costruzione della strada in montagna che doveva congiungere Platì con la Piana, lui decide di proporsi come operaio insieme ad altri di Platì. A quanto pare un po’ a fatica poiché molti ritenevano non avesse bisogno di lavorare visto l’attività di mulattiere piuttosto prolifica. Ma attraverso delle referenze riesce a farsi assumere.
Antonio Trimboli muore il 27 luglio 1959. Durante il lavoro, un masso si stacca dal terreno e rotola giù a valle fino a schiacciare il giovane Antonio che lascia la moglie con 5 figli e un sesto in grembo.

P.S.  Il 30 gennaio del 1947 Antonio Loreto e Giuseppa Violi si sposano davanti all'arciprete Minniti. Il successivo matrimonio è quello di Mittiga Francesco di Rosario e Gliozzi Caterina, papà e mamma, davanti allo zio Ciccillo, il 16 febbraio 1947.



lunedì 8 luglio 2019

Jack Nitzsche - Remembering The Summer of 1959

Nella foto - cortesia degli eredi Mimì Col. Fera - Michele, Maria Concetta e Peppe, pulinaroti doc, nell'estate 1959.

 

giovedì 11 aprile 2019

Journey Through the Past - Neil Young



UN VIAGGIO NEL PASSATO                                                                            

La mente mia mi porta
indietro agli anni verdi
il cuore si commuove
con tutti quei ricordi.
Un piccolo paese
la chiesa il cimitero
I monti le colline
coperti di mistero.
Il sarto il falegname
l'osteria col vino
la piazza la fontana
la posta il tabacchino.
Le favole e le fiabe
intorno al focolare
al lume di lumiera
ci facevan trasognare
Che gioia i di di festa
coi gridi dei bambini
il suon delle campane
zampogne e tamburini.
lo era ancor piccina
da scuola ritornavo
coi libri sotto il braccio
mentre in cuor sognavo
Tanti anni son passati
ancora io sto a sognare
la cara mia casetta
col vecchio focolare.

A journey in the past.

My mind goes back
to the green years
stirred is my heart
by the memories.
A small town
a church, a graveyard
mountains and hills
wrapped in mystery.
A tailor, a carpenter,
a tavern and its wine
a square and a fountain
a post office and a tobacco shop.
Stories and fairy-tales
that around a fireplace
mesmerized us.
How joyful the festivities
with the kids shouting
the bells ringing
bagpipers and drummers.
Oh, little me
coming back from school
books under my arm
day-dreaming in my heart.
Many years have gone by
and still I am yearning for
the old hearth in
my dearest little home.

Caterina Portolesi
1996

Nota di Rosalba che ha provveduto anche alla traduzione in inglese: "Caterina Portolesi è nata a Platì nel '42 da Rosario Mittiga alias "forgiaru", e Maria De Marco sorella del prof. De Marco. Arrivò in Australia insieme alla madre, alla sorella ed al fratello nel 1957 con la nave Australia (Fonte: National Archives of Australia) mentre il padre li aveva preceduti nel 1949. Caterina si è poi sposata con Francesco Portolesi e, come in uso nei paesi anglosassoni, ha adottato il cognome del marito.  Dopo aver lavorato per molti anni in una grande sartoria di Adelaide (Colin Smith) Caterina ha anche assistito per 17 anni il marito vittima di un invalidante ictus. Molto religiosa, amante dei cani, Caterina trova il modo di esprimere nostalgie e affetti profondi con la poesia. Nella foto Caterina è la quarta da destra nell'ultima fila. Il primo da destra con il pullover a V è Benito Caruso, fratello di Attilio. La seconda da sinistra sempre nell'ultima fila, è Elisabetta Perri (Scarpareja) mentre sua sorella Cata è la seconda da sin della fila in mezzo (si tocca un occhio). Sono figlie del mio prozio Francesco (Cicciu u muzzuni)".


giovedì 28 marzo 2019

LE RAGAZZE [di Mai Zetterling, 1968]

da sinistra: 
con la treccia Rina Mittiga,Pina Miceli, Caterina Caminiti (figlia di Ernestina),
 Rosella Caminiti sorella di Caterina e Tota Oliva

Tra la foto ed il film (Mai Zetterling è stata attrice e regista di talento naturale) citato ci sono circa dieci anni, con il brano musicale in seguito, trenta, con i nostri giorni il calcolo fatelo da voi per evitarmi un incidente diplomatico.

la foto appartiene a Pina Miceli che ne ha fatto anche il riconoscimento dei volti, la sua riproduzione è soggetta alla citazione della fonte.

martedì 19 marzo 2019

Il silenzio degli innocenti [di Jonathan Demme, 1991]



Come in una panoramica in technicolor e techniscope alla sua sinistra c'era attaccata la casa di zia Annina, con a piano terra l'ufficio del dazio, successivamente la casa Zappia-Galatti e oltrepassando corso Umberto il bar di papà. Di fronte ad esso, sulla via XXIV maggio,  c'era l'ufficio postale e risuperando il corso la casa della signora Fera, quindi un casalino, luogo di invenzioni ludiche; dopo la scalinata che portava al municipio c'era la casa di Raimondo con affiancata quella di don Umberto Romeo e più avanti quella di mastru Cicciu u cruciatu, al secolo Schimizzi; di fronte, oltrepassando la via XXIV maggio, la casa du bumbiu e tornado verso casa mia la falegnameria di lignuduru, più oltre una discesa con il panificio carrarmatu, il bar di Dante De Maio, quindi la Casa. Questo che vi ho circoscritto era il perimetro dei giochi che non bisognava oltrepassare e incorrere nelle sanzioni paterne. (https://iloveplati.blogspot.com/2012/02/la-casa-senza-tempo-reg-andrea-forzano.html). In quel testo avevo dimenticato la casa di Serafina Mittiga che era dirimpetto la casa di don Umberto. Era in questa scenografia, oggi, nella memoria, un fondale di cartapesta, delle mattine estive dei miei anni infantili che Tota, la figlia don Umberto, usciva di casa e salendo a bordo del maggiolino Volkswagen color acqua marina si avviava al mare di Bovalino. Nel suo silenzio, rotto dai suoni cupi del fraseggiare appreso in collegio, Tota era una delle più belle signorine di Platì e la sua educazione da collegio le è rimasta per tutta la sua vita. Quel tempo ormai è un ricordo e Tota è partita per stare accanto ai genitori. Questo è il solo piccolo omaggio che le si offre.

Nella foto Tota, nata Maria Antonia il 24 febbraio 1942, è con Paola Violi.