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mercoledì 26 febbraio 2020

Fase IV: distruzione della terra [di Saul Bass, 1974]




Peste suina a Platì
Platì, 18 aprile
(M. F.) - Negli ultimi giorni è scoppiata in alcune zone del nostro centro la peste suina. La notizia è stata data dal sanitario competente.
La malattia non ha ancora mietuto che poche vittime.
Igiene a Platì
(M.F.) -- Il nostro centro è abbandonato in balia delle mosche e di tutti gli altri insetti più scoccianti (ortotteri, afanitteri, ditteri atteri, lepidotteri ecc.), perché le autorità non intervengono?
Epidemia a Platì
di colera aviare 
Sì è sviluppata rapidamente nel nostro centro una epidemia di colera, aviare, che ha colpito indistintamente, galline, oche, tacchini, ecc.


In questi giorni epidemici infettanti infetti ecco gli eventi pestiferi accaduti nel secolo scorso a Platì, allora i nemici erano ortotteri, afanitteri, ditteri atteri, lepidotteri ecc e i media sociali inesistenti.
Gli articoli, di Michele Fera, sono apparsi su:
GAZZETTA DEL SUD, anno 1957

lunedì 24 febbraio 2020

Mentre il pubblico ride [di Mario Bonnard, 1920]



CI SCRIVONO DA PLATI’
 I documenta
e la realtà
Platì, 7 maggio
Mercoledì sera un folto pubblico ha assistito alla proiezione in piazza Gramsci, di alcuni interessanti documentari inviati dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri.
I documentari erano senza dubbio interessanti: illustravano la rinascita italiana degli ultimi anni. Ma siamo sicuri che essi non abbiano prodotto sulla folla platiese proprio l’effetto voluto dagli autori.
Platì è infatti uno dei paesi della Calabria praticamente abbandonati dallo Stato, dopo le alluvioni del '51 e del '53. E' naturale, quindi, che gli «interessanti documentari» di cui abbiamo detto non abbiano fatto altro che mettere in evidenza la incresciosa disparità di trattamento riservata dalla Stato ai Calabresi nei confronti degli altri cittadini italiani.
Lasciamo parlare i fatti.
Nel 1951 Platì fu tra i paesi maggiormente colpiti dall’alluvione: morti e centinaia di senzatetto furono il suo tragico bilancio; senza contare la distruzione di massima parte dell'agricoltura. Nello stesso anno avvenne l'alluvione del Polesine: Pero, mentre nel Polesine, dell'alluvione non restò neanche la traccia, a Platì la situazione restò pressoché immutata; tanto che la violenta alluvione del '53 non poté levarsi il gusto di cambiare anch’essa i connotati al nostro paesaggio: lo aveva fatto fin troppo bene l’alluvione del ’51 e nessuno vi aveva ancora rimediato.
Troppe cose abbiamo sopportato e ci sentiamo in diritto di chiedere allo Stato che, anziché «interessanti documentari» ci fornisca i mezzi per ripristinare la nostra agricoltura. E, cioè, disponga una razionale bonifica dei torrenti che attraversano la nostra zona; bonifica che oltretutto renderà all'economia nazionale centinaia di ettari di fertilissimo terreno.
GAZZETTA DEL SUD, 8 MAGGIO 1954

L’articolo non porta firma ma dal tono e dal contrasto tra dramma e brio lo si può attribuire alla penna di Michele Fera. Resta l’attualità di un dramma per niente dimenticato, che si ripete ogni qualvolta Giove Pluvio decreta di concedere la pioggia. Ma c’è anche l’abbandono e il degrado permanente che si riflette nei comportamenti e nel morale degli abitanti che ancora, incalliti, restano in paese.

domenica 23 febbraio 2020

Poesia senza fine [di Alejandro Jodorowsky, 2016]





È una lunga poesia il territorio della locride, troppo bello da descrivere.
Le persone hanno archetipi di Santi Italo-Greci e di briganti.
Tanti non si sono arresi ai piemontesi, sono arroccati negli interni, portando ancora l'ingiuria dei tempi passati.
Non ci sono poeti in questi luoghi!
I poeti non hanno cognome, si chiamano: Cicciu e mastru Micheli, cumpara 'Ntoni, Petru u poeta o solo u pojeta, però tutti ricordano i versi delle dispute poetiche che risolvevano in modo pacifico le controversie (o a botta e risposta).
La poesia li ha resi giusti ed onesti, anzi, li ha allontanati dalla galera e spesso gli ha salvato la vita.
Hanno sempre accettato di non far parte della storia perché sanno di essere al margine di tutti e di tutto, per noi invece sono il margine fiorito di questa regione.
Questo censimento ci ha dato l'opportunità di aprire un prezioso forziere ripieno di tante poesie che meritano di essere pubblicate.
l poeti sono la memoria collettiva di questa terra, i loro versi sono la storia, quella vera, perché sempre, vanno incontro all'evento i poeti.
Abbiamo incontrato tanti bravi sconosciuti, mura a pietra miliare dei paesi.
Sono timidi i poeti... e troppi versi sono andati perduti.
Gianni Verdiglione

PLATI'

CICCIU E MASTRU MICHELI, vissuto tra '800 e gli inizi del 900, considerato dagli abitanti di Platì il poeta per eccellenza.
PASQUALE DE MARCO, contadino, inediti in vernacolo.
ERNESTO GLIOZZI, sacerdote e poeta.
VINCENZO PAPALIA, medico.
ROCCO SCHIMIZZI, Platì (1913 - 1984), sarto. Poesie in lingua, forse andate perse.
GIACOMINO TASSONE, latifondista.
NINO TRIMBOLI, poesie inedite.
ELISABETTA VILARDI, vive a Milano. Scrive poesie.
BRUNO GELONESI, nato a Platì nel 1956 residente in Locri, Musicista cantautore

CENSIMENTO I POETI DELLA LOCRIDE
ASSOCIAZIONE CULTURALE “I MENDICANTI”, 2005, Focà di Caulonia (RC)

lunedì 17 febbraio 2020

Bambini di Dio [di Shinomiya Hiroshi, 2001]



Al Signor
D. Luigi Gliozzi
Platì
(Prov. Reggio Cal.)

Sto bene. Saluti e baci
vostro aff.mo figlio
Ernesto
Gerace Sup., 5 marzo 1927

giovedì 13 febbraio 2020

I cancelli del cielo - ECCO I FATTI



ROCCO CORSO, FRATRICIDA ED EVASO TORNA IN ASSISE CON ALTRI COMPAGNI
Rapinarono l’esattore comunale di Platì
e si procurarono il denaro per l’espatrio
Davanti ai giudici di Locri un clamoroso processo per oscuri delitti contro il patrimonio

Locri, 23 febbraio
Si è iniziato davanti la Corte di Assise di Locri il processo a carico del quarantanovenne Rocco Corso di Francesco; di Varapodio; Nazzareno Innocenti di Enrico, di 45 anni, anch’esso di Varapodio, di Ernesto Morabito di Domenico, di 50 anni, di Molochio; e di Rosario Ursida di Carmelo, di 30 anni da Molochio.
I primi due sono detenuti e vennero rinviati a giudizio per essersi, mediante minaccia con armi ed allo scopo di procurarsi ingiusto profitto, impossessati della somma di lire trecentotremila sottratta a G. Gliozzi nella contrada Due Petti di Platì il 15 febbraio 1949 alle ore nove, di espatrio clandestino e di concorso in falsificazione di documenti di identità.
Gli altri, tutti contumaci sono imputati: il terzo per avere aiutato dopo una rapina, gli altri due sottrarsi alle ricerche dell’autorità giudiziaria, il terzo e il quarto di avere aiutato i due primi ad espatriare in espatriare in Francia senza passaporto.
Ecco i fatti: Nel dicembre del 1948 al prof. Giuseppe Attisani in Cirella perveniva una lettera con cui gli si intimava di depositare in una località della di lui proprietà denominata S. Girolamo la somma di L. 100 mila, attenendosi a certe modalità dallo autore della lettera medesima indicate, fissando la data della notte sull'8 dicembre. Il destinatario lasciò sul luogo indicatogli un giornale ed, al posto del denaro richiesto, una lettera, con cui invitava gli sconosciuti a presentarsi personalmente da lui, nel qual caso avrebbe esaminato la possibilità di esaudire il desiderio espressogli. Nelle vicinanze del posto indicato dagli sconosciuti autori della misteriosa lettera vegliarono, per tutta la notte dal 7 all'8 dicembre, persone di fiducia dell'Attisani, senza notare alcun individuo, che si portasse per ritirare l’involto; ma in seguito, si potè constatare che questo era scomparso. La notte seguente, l’Attisani udì bussare al portone della sua abitazione e poté, affacciandosi, scorgere un'ombra che si dileguava.
Soltanto nell’aprile dell’anno dopo i Carabinieri seppero di questo delittuoso episodio. Intanto il 15 febbraio 1949 alle ore 9, in contrada Petti di Cirella, lo esattore comunale Giuseppe Gliozzi, che si portava in compagnia del vetturale Francesco Perri con un mulo carico di documenti e della somma di 303 mila lire dalla frazione di Cirella a Platì avvertiva il fruscio caratteristico del frascone scosso proveniente da un cespuglio da dove, subito dopo, sbucarono alcuni individui forniti di armi militari, i quali, dopo aver intimato ai due di fermarsi e di mettere le mani in alto, riuscirono ad impossessarsi del denaro, dandosi quindi alla fuga.
I Carabinieri, però, continuarono le loro ricerche, fin quando da qualche confidenza riuscirono a sapere che proprio in quei giorni si aggiravano per le gole montane di Platì, Cirella, Ciminà i due attuali imputati e che, nel pomeriggio del 15 febbraio, tal Domenico Mammone, che pascolava le mucche in contrada Micalandrà, fu richiesto da due individui a lui sconosciuti, di cui uno aveva il viso butterato dal vaiolo, se il cascinale che sorgeva in quei pressi fosse o meno abitato, dandone risposta negativa; Era quanto bastava, perché i sospetti convergessero verso Rocco Corso di Francesco, il quale si nascondeva, sapendosi ricercato dai carabinieri, avendo egli ucciso il proprio fratello Giuseppe, reato consumato nell’inverno del 1948 ed ancora perché evaso dal penitenziario di Portolongone ove scontava la pena dell'ergastolo inflittagli nel marzo 1938 dalla Corte d’Assise di Palmi.
Sia l'Innocenti che il Corso il 28 febbraio 1949 partirono dallo scalo ferroviario di S. Ilario per Ventimiglia e di qui con l'aiuto del Morabito e dell'Ursida espatriarono a Tolone da dove furono poi rimpatriati dalla polizia francese. Nel maggio 1949 l'Innocenti venne fermato e, poi, associato alle carceri, sotto la grave accusa di rapina aggravata pur essendosi egli mantenuto sulla negativa. Intanto i carabinieri disponevano un confronto tra il Mammone e l'indiziato e il primo non aveva difficoltà d’identificarlo, specie attraverso il viso butterato, per l’individuo che lo aveva interpellato il 15 febbraio 1949. Oltre a ciò altri elementi vennero a concretizzare l’accusa contro lo Innocenti e il Corso Rocco, che intanto, assicurato alla giustizia. era stato relegato a Procida.
I Carabinieri e poi il Magistrato requirente hanno potuto ricostruire così i fatti: i due pressati a provvedere nel più breve tempo al versamento delle somme per l’espatrio clandestino, si decisero prima ad operare l'estorsione ai danni dello Attisani e, poiché, il tentativo fallì, decisero di passare all'aggressione diretta ed avendo sentito che lo Gliozzi aveva proceduto agli incassi in Cirella (ove l'Innocenti si recava spesso, essendo questo il paese della propria moglie) ed che ne avrebbe trasportato il ricavato a Platì, nella mattinata del 15 febbraio, si appiattarono in un punto, ove la vegetazione è fittissima e con facilità potettero seguire il loro piano delittuoso.
Questi i fatti sui quali la Corte d'Assise di Locri è chiamata a pronunziarsi. Intanto l’udienza odierna è stata, interamente occupata dall’interrogatorio di Rocco Corso, il quale si è proclamato del tutto estraneo alla rapina in danno del Gliozzi, aggiungendo di non essersi mai macchiato di delitti contro il patrimonio.
Dopo le dichiarazioni del maggiore imputato l’udienza è stata tolta. Il processo sarà ripreso domani e durerà parecchi giorni.
GAZZETTA DEL SUD, 24 febbraio 1954   , 

Le precedenti puntate:

https://iloveplati.blogspot.com/2011/04/i-cancelli-del-cielo-reg-michael-cimino.html



 Rocco Corso è un personaggio crudele e allo stesso tempo romantico che potrebbe stare tra le pagine di Victor Hugo come in quelle di Jim Thompson o in un film di Budd Boetticher con il volto di Lee Marvin e quei fatti oggi sono  un'epopea d'altri tempi.

 
Francesco Perri/e
il contabile
non lo scrittore

mercoledì 12 febbraio 2020

Fatti corsari - optimis praedita moribus



-Floccari Saverio (Mo.12.2.1883/8) di Dom. e di Furore Maria, mutus a nativitate (muto dalla nascita).
-Ciampa mf Giuseppa (Mo.16.2.1883/9) di Giosof. e Gregoria Mittiga, ux. Violi Pasquale.
-Marando mf Maria (Mo.6.3.1883/17) di Rosario e Ciampa Caterina, ux. Violi Rocco.
-Buccafurni mf Rosa (Mo.25.5.1883/37) di Carmelo e Noto Elisabetta.
-Mittiga Domenico (Mo.16.7.1883/45) di Agostino e Catanziti Elisabetta, vir mf Angela  Morabito.
-Mittiga Rosario (Mo.31.8.1883/47) di Dom. e mf Angela Morabito, vir mf Filomena Marrapodi, sutor (calzolaio).
-Oliva d. Francesco Anselmo (Mo.23.9.1883/63) di d. Michele e di d. Gaetana Empoli.
-Oliva d. Mariantonia (Mo.15.3.1883/68) di d. Michele e d. Gaetana Empoli.
-Gliozzi Rocco Diego (Mo.2.11.1883/73) di d. Ferdinando e mf Elisabetta Pangallo, morì all' età di 20 giorni.                                                                                                        
-Carbone Anna (Mo.5.12.1883/80) di d. Domenico, ved. di Giuseppe Puzzo.
-Furore d. Giosofatto (Mo.5.7.1884/29) di d. Fortunato e d. Paola Portulesi, dottore.
-Oliva d. Giuseppa (Mo.5.8.1884/36) di d. Stefano e d. Elisabetta Speziali, nubilis et optimis praedita moribus (nubile e dotata di buoni costumi).
-Violi Rocco (Mo.8.10.1884/44) di Antonio e Teresa Floccari, loco dicto S.Nicola, fulgure correptus, statim clausit diem supremum (colpito da un fulmine in località detta San Nicola, all’istante andò incontro al giorno supremo).
-Strangio Antonio (Mo.8.10.1884/45) di Giuseppe e Trimboli Francesca, vir  di Sergi Caterina, loco dicto S.Nicola, fulgure correptus eodem quo Violi Rocco, statim obiit (colpito da fulmine come Violi Rocco in località San Nicola è morto).
-Forgione Rosario (Mo.27.11.1884/51) di Giuseppe e Francesca Mosca, vir di Romeo Anna.
-Mittiga d. Teresa (Mo.28.12.1884/56) di Rocco e mf Giuseppa Perre, ved.di d. Domenico Zappia. Morì a 93 anni.
-Bellè Maria (Mo.10.2.1885/11) di Pasq. e Musolino Elisabetta, ved. di Bartone Giuseppe.
-Oliva d. Pasquale (Mo.13.4.1885/18) di d. Giuseppe e d. Teresa Barletta.
-Oliva d. Maria Francesca (Mo.11.9.1885/36) di d. Giuseppe e d. Teresa Barletta.
-Gliozzi Maria Francesca (Mo.5.11.1886/45) di d. Luigi e d. Assunta Lopez; morì ad 1 mese di età.
-Zappia mf Francesco (Mo.22.11.1886/51) di Pasquale e Rosa Sergi, vir d. Domenica Zampogna.
-Papalia d. Rosario (Mo.11.12.1886/54) del dott. fisico d. Vincenzo e d. Filomena Cufari; morì all'età di 3 mesi.

Libro dei morti, Vol. V°

lunedì 10 febbraio 2020

Cielo senza stelle [di Helmut Käutner, 1955]

CHE FINE HANNO FATTO I MERIDIONALISTI MERIDIONALI?
Ho l'impressione che la Calabria viva la situazione peggiore in Europa per quanto riguarda la povertà educativa: abbandono scolastico in costante aumento e analfabetismo strumentale sempre più diffuso (dati Istat, OCSE, Invalsi).
Le opportunità che ha un giovane calabrese nelle città e ancora di più nei paesi di usufruire di esperienze culturali sono sempre più scarse in quanto a lettura, cinema, musica, teatro, pratica sportiva. Sono stati elaborati una quarantina di indicatori che misurano l'assenza della povertà educativa e la media dei giovani calabresi arrivano a malapena a sperimentarne quattro.
Di fronte a questo sfascio la Calabria manifesta una preoccupante povertà della sua classe dirigente e, mafia a parte, l
'assenza di una robusta borghesia capace di comprenderne i problemi, reagire e costruire un diverso futuro. Anche lo Stato nel suo insieme sembra aver abbandonato il Sud al suo destino. Abbiamo di certo le scuole e molte delle quali anche buone, con buoni insegnanti, ma siamo quasi privi di biblioteche vere, librerie, teatri, cinema, musei che vadano oltre il folklore e l'archeologia, attività culturali degne di questo nome. E quelle poche infrastrutture culturali che esistono il più delle volte si rivolgono a gruppi di privilegiati.
La nostra povertà come società si manifesta nella fragilità delle famiglie, delle istituzioni, nei bassi consumi culturali, nella insufficiente spesa degli enti locali per la cultura e il sociale. Abbiamo indici di lettura tra i più bassi in Italia e non è, per esempio, che non si legga per colpa di internet, ma proprio perché mancano le occasioni nella vita di tutti i giorni di avere un contatto con i libri o con pratiche di promozione della lettura.
Si parla tanto di digitale omettendo che il libro tradizionale, che rappresenta ancora più del 70% dell'editoria, in Calabria è un bene raro, molte volte difficile anche da acquistare.
Un altro aspetto che scoraggia è che con tre università pubbliche pochissimi sono quei docenti o quegli intellettuali che rivolgono realmente uno sguardo al di fuori del loro specifico ambito di lavoro o che riescano a preoccuparsi di qualcosa che non siano le loro preziose pubblicazioni, e che la stessa inconsapevolezza manifestano i media nel loro insieme. Viene da chiedersi, che fine hanno fatto i meridionalisti?
Gilberto Floriani*
*Gilberto Floriani è il direttore del Sistema Bibliotecario Vibonese di cui vi evidenzio il seguente post:, Se la Calabria muore:
Il testo è riportato per come l'ho ricevuto, incluso l'evidenziatore.
Il disegno è di Iermanò Luigi che nel 2019 era in V B, particolare di un tema presentato al Premio Ernesto Gliozzi, ultima edizione.

domenica 9 febbraio 2020

I fuggiaschi [di Gustav Ucicky, 1933]




UN PROBLEMA SOCIALE MAI RISOLTO
DALL’800 AD ALVARO FINO AD OGGI
Tra i latitanti
Dell’Aspromonte

I latitanti dell'Aspromonte sarebbero duecento, a detta di Bartolomei, ex procuratore generale del1a Corte di Catanzaro; per venirne a capo non occorrerebbe meno della forza dell'esercito repubblicano. I carabinieri, stando così le cose, non ce la farebbero. L’ipotesi suscitò, qualche tempo fa, ondate di indignazione. Si è voluto riconoscere in essa un indizio di propositi antidemocratici o un segno di sfiducia nei riguardi dei carabinieri e della popolazione. Si sarebbe dovuta vedere invece una constatazione di fatto. 
 Ma perché si è |arrivati a tal punto? Perché i carabinieri non incutono più timore ai malviventi? Il timore nasceva dal rispetto. Perché il rispetto è venuto meno? 
C'è una bella novella di Alvaro, «Il canto di Cosima» nell'«Amata alla finestra», in cui un latitante, il Timpa, alla ricerca di Cosima, la sua infelice amante, anche nei momenti più gravi manifesta il rispetto per chi ha l'impegno di catturarlo, il carabiniere Delfino. Dice l'Alvaro: «Il Timpa pensava che un giorno le sarebbe rimasto accanto a curarla, e nella sua fantasia arrivava a patti col Delfino, sentendo alla fine di volerlo bene perfino a lui che lo cercava per ammanettarlo, come succede talvolta tra nemici aperti».
Erano tempi, quelli, in cui la fantasia di uno scrittore austero, come l'Alvaro, poteva trovare senza romanticherie segni di umanità tanto nel latitante che nel suo persecutore. Oggi le tensioni sociali sono esplose; la perversità he raggiunto estremi raccapriccianti. L’audacia dei malviventi non conosce limiti al suo operare. 
Ma non è detto che i malviventi, di allora - mi riferisco al primo quarto di questo secolo - fossero degli agnellini che non sapessero uccidere. Non è detto che per varie ragioni sociali non trovassero nella popolazione soccorsi più o meno volontari. E’ un fatto però che era possibile tenerli a freno   forze limitate di polizia. 
Può essere interessante risalire dalle notazioni di Alvaro sul carabiniere Delfino, alla figura di lui, ch’era nella realtà il maresciallo Delfino, la cui vita strenua spiega tanto i suoi successi strepitosi nella cattura dei malviventi quanto, la fama di chiaroveggenza e di invulnerabilità che lo distingueva. 
Nacque a Bova, in provincia di Reggio Calabria, nel 1888, e si arruolò carabiniere a vent’anni nel 1908, in risposta al furto di bestiame che la sua famiglia contadina aveva subito. Giurò che l’avrebbe fatta pagare cara ai malviventi; e per tutta la sua vita mantenne l'impegno. Si distinse per la sua opera di soccorso nel terremoto di Reggio e Messina.  Sapeva appena leggere, aveva fatto la terza elementare, ma imparò subito il gergo dei mafiosi e le loro norme in un codice trovato per caso a Platì tra le foglie di granoturco di un giaciglio. Armato di quella cultura, si  introdusse nelle fila dei malviventi.
Nel Nicastrese. sulle montagne della Sila Piccola, camuffandosi da ladro, sgominò una banda che, guidata da un disertore, imperversava.  Una volta fece da palo alle loro imprese. Quando gli fu possibile, comunico ai carabinieri il posto della cattura. 
Venne a capo di associazioni mafiose nel 1927 e nel 1936, nei paesi dell'Aspromonte orientale, con centinaia di arresti ben motivati, che determinarono sempre condanne esemplari. Il maresciallo Delfino non si ingannava sulla sua clientela.
Era collegato con una ditta di Napoli che gli forniva barbe finte, sai di monaco questuante, abiti da pastore, da carrettiere, cenci di mendicante. Una volta si vesti da accattone, girando per il paese di Cirella. Trovava ospitalità nei fienili. Di giorno concentrava la sua cerca nei pressi dell'ufficio postale. Sapeva che un ergastolano evaso - aveva commesso diversi omicidi - intendeva ritirare i risparmi depositati, per emigrare in America, e lo aspettava.
Comparve infatti l’ergastolano su una mula, col fucile a tracolla, davanti all’ufficio postale. Delfino tirò la pistola e impose le mani in alto. L'ergastolano sorpreso si lascia ammanettare. Delfino lo porta, solo, a Platì, attraverso le montagne, delle quali nessun latitante osava contrastargli il passo. La signora soltanto dell'ufficio postale pretese la restituzione dei soldi che gli aveva dato in elemosina.
Venne a capo di un’associazione a delinquere a Platì, lusingando un vecchio «'ndranghetista» che si era messo in testa di cambiare mestiere per fare il carabiniere. Il maresciallo Delfino gli fece intendere che la cosa era possibile e una sera, invitatolo in caserma, gli lesse un telegramma falso del Comando che lo nominava carabiniere ausiliario. Bisognava festeggiare l'avvenimento e il maresciallo Delfino organizzò il banchetto nella stessa caserma. Gli fece indossare la divisa e lo portò davanti allo specchio perché si mirasse. Qui accadde un colpo di scena pirandelliano perché il vecchio «'ndranghetista» sentendosi un altro, rivelò tutti i segreti che aveva, gli abigeati che da lui e dagli altri erano stati commessi, sicuro che ormai in quello stato, non avesse avuto più nulla da temere. Arrestato per primo, fu riconosciuto colpevole e condannato. Ma quando uscì dal carcere, un colpo di lupara alla schiena lo stroncò come traditore, mentre accudiva ad alcune pecore in un ovile. 
Del suo fiuto poliziesco si racconta il seguente episodio. C'era il medico Fera a Platì che aveva accanto alla sua casa un pollaio con ottanta galline. Una notte sparirono. Il medico non aveva alcun sospetto; ma il maresciallo Delfino domanda: «Mi volete dire che cure avete prescritto ai vostri ammalati nei giorni precedenti?».  Il medico Fera si sforza di ricordare e infine assicura che a un tale aveva ordinato pastina con brodo di pollo.
«Basta così», gli risponde il maresciallo Delfino; va nella casa del presunto ammalato e in una stalla contigua scopre settantanove galline; l’ottantesima era stata mangiata.
Scriveva bene i rapporti ai suoi superiori; ma non era forte in grammatica; e della punteggiatura conosceva solo, come certi matematici, il punto. Un tenente novellino gli contesta, nella caserma di Bianco, gli errori.  Il maresciallo Delfino cercò di farsi aiutare da un carabiniere che gli pareva più istruito di lui. Ma questi non trovava nessuna virgola da aggiungere. «Sai come facciamo?», gli propose il maresciallo, «Facciamo così!».  Intinse il pennino nel calamaio e, battendo la cannuccia, spruzzo il foglio con puntini d'inchiostro. «Non potranno dire che non ce li ho messi!». 
Ma si rivolse al padre di Corrado Alvaro, ch’era maestro a San Luca, e prese lezioni di grammatica come uno scolaro. Divenne suo amico le gli offriva i suoi servigi quando andava a Catanzaro, dove il giovane Alvaro era studente al Liceo Galluppi.
Si incontravano sulla piazza di San Luca e il padre di Alvaro domandava: «Maresciallo, novità per Catanzaro?».  
«Preparate il pane per domani».
La madre di Alvaro faceva il pane in casa per il figlio; tagliava il pane in due e metteva dentro la frittata.  Quella era la colazione che veniva portata al figlio studente. 
Nacque così la fiducia di Alvaro per l'umanità di lui, della quale notò poi alcuni tratti nel «Canto di Cosima».
Ma io, scrivendo ancora del maresciallo per suggestione delle parole di Alvaro, posso ricordare altri aspetti della sua umanità: che rifiutò di prendere la tessera fascista, pagando con la mancata promozione a maresciallo maggiore: egli che era stato insignito di medaglia d'argento o di bronzo, nonché di altri riconoscimenti al valore.
Non. so se avesse idee chiare di politica. Probabilmente il buon senso gli avrà fatto le veci della cultura che non aveva. Avvertiva in anticipo gli antifascisti delle perquisizioni che doveva fare. Per delicatezza si rifiutava di controllare la corrispondenza. dei confinati politici. Apriva per dovere di ufficio le lettere arrivate e senza leggerle le consegnava ai destinatari perseguitati. 
Mario La Cava
Gazzetta del Popolo, Mercoledì 30 marzo 1977 
e ripubblicato su:
calabria sconosciuta rivista trimestrale di cultura e turismo
anno XI - n. 40 gennaio-marzo 1988

giovedì 6 febbraio 2020

Il muro di gomma [di Marco Risi, 1991]


UN APPELLO DA PLATI'
Necessario ricostruire
il muro d'argine sul Ciancio
Evitare che il grosso torrente in piena provochi ulteriori rovine per gli abitanti del luogo
__________________________

            Platì, 11 gennaio
(M. F.) La stagione delle pioggie per quest'anno se n'è andata senza lasciare cattivi ricordi. Ma il Ciancio, nel suo corso schizofrenico ha un brontolio di minaccia all'indirizzo delle numerose abitazioni della parte inferiore del nostro centro, abitazioni lasciate in piedi per puro miracolo dalle alluvioni del 51 e del 53, e messe a disposizione, comunque, dei capriccetti autunnali del fiume.
Quei famoso personaggio che parlava di «opere senza né capo né coda», si riferiva con certezza al muro d'argine che in seguito alla alluvione del 1951 fu cominciato a costruire per proteggere il nostro centro dal suddetto fiume Ciancio.
Il destino ai questo muro, fu infatti, quello di non servire a niente: Le due parti essenziali di esso, cioè la terminazione superiore e la termina inferiore, furono lasciate in sospeso, inspiegabilmente, nell'anno 1952, e non furono più costruite.
La stampa dibatté il problema, (gravissimo e urgentissimo per molte centinaia di persone), fino al parossismo, fino alla nausea, ma fece il solito buco nell'acqua. Si rivolse al Prefetto, ai Genio civile di Reggio, a tutte e autorità competenti, ma non ottenne grazia. Ottenne solo la grande soddisfazione di constatare fino a che punto funzioni nel Paese, la cosiddetta «Libertà di Stampa».
Vi fu un momento in cui, durante l'ultima visita, del Prefetto al nostro centro, si sperò che il problema sarebbe stato finalmente risolto: Ma il momento passò e la cosa finì li.
Era fatale.
Ma cosa si pensa, che col andar del tempo il muro si aggiusterà da solo? Che il Ciancio si sceglier un altro letto per rispettare quelle povere abitazioni che le Autorità Provinciali offrono alla sua smania, di distruzione? 0 quanto meno, che i Platiesi si rassegneranno a vedere inascoltate le loro richieste e si metteranno l’animo in pace?
Ci dispiace, ma se queste sono le speranzelle che nutrono le competenti autorità, sentiamo il dovere di avvertire queste ultime che avranno una grossa delusione. Il Ciancio per conto suo, non è disposto a nessuna concessione, e aspetta solo una buona piovuta che gli dia agio di completare l’opera iniziata quel famigerato diciotto ottobre del 51.
(Michele Fera)  
GAZZETTA DEL SUD 12 gennaio 1955

Sarà costruito a Platì
il muro d'argine sul Ciancio

 Platì, 4 maggio
(M. F.) - E' maturata in questi giorni una bellissima realizzazione da tempo intrapresa dalla amministrazione
Zappia: la costruzione di un poderoso muro d'argine a difesa della parte inferiore del nostro centro dalle furie alluvionali del Ciancio.
La realizzazione, oltre che a salvare oleifici, molini le proprietà fondiarie, assicurerà la disposizione di una larghissima zona edilizia che sarà, di particolare importanza quando il progettato trasferimento del 'intero rione Ariella determinerà, l’espansione del nostro centro proprio in quella zona.
(Michele Fera)  
GAZZETTA DEL SUD, 5 maggio 1955


mercoledì 5 febbraio 2020

Caldaie in festa [di Folco Lulli, 1965]

Platì, il giorno della candelora 2020, in contrada Margherita:



Era la festa del maiale, festa di tutti i ghiottoni rispettabili e di tutta la gente del popolo come della borghesia. Non costa nulla allevare un maialino che in capo a un anno arriva anche a pesare un quintale. Verso febbraio, finché dura la stagione fredda, ingrassano in modo da consolare. Si trovano già in gennaio per gli angoli delle strade, distesi davanti al truogolo colmo di crusca, annusare e grugnire gonfi da non potersi alzare sulle zampe. Poi non mangian più e restan così coricati, con gli occhi socchiusi, come uomini disgustati dei grandi pranzi e delle ghiottonerie. Quello è il momento per farne salsicce. Sicché tutto febbraio è pieno di grugniti e di cani in faccende per le strade a cercar dove si possano gustare dei buoni rimasugli. Le bestie, a meno che non siano magre, si ammazzano in pubblica via, il corpo è issato tra gli sforzi esagerati del padrone su una forca e così si comincia il taglio della pancia donde gli intestini scivolano fuori fumando. 
Le caldaie sono in gran lavoro: le donne col piacere loro proprio dell’abbondanza e di quel che ha un segno di ricchezza, impastano la poltiglia di carne pepata e fragrante di sale, i ragazzi di casa soffian dentro gli intestini dove l'acqua gorgoglia ed esce con gli escrementi, vi picchiano con le vesciche gonfiate; il cuore, il fegato, i polmoni appesi danno al sole note di rosso strazianti, e la bestia è lì, bella, rasata che par di cera, con la pelle tagliata verticalmente di tagli non sanguinosi ma candidi di grasso. Le ragazze girano con le ceste nascoste sotto il grembiule, e recano a parenti e ad amici, una parte dei migliori bocconi in omaggio. La cronaca paesana registra i chili, i quintali; e chi ha l'onore di ammazzare il più grande campione gode il suo quarto d’ora di celebrità apparendo ovunque soddisfatto con l’aria di un signore che esca da un pranzo dove ha dovuto di nascosto slacciarsi il corpetto e la cintura.
Corrado Alvaro, Un paese, 1916