Ancora nel cuore, ancora nella mente
di PAOLA VIOLI
L’alluvione
del 1951 aveva lasciato al suo passaggio un paese devastato: detriti e fango
dappertutto e case abbandonate senza corrente. Da bere era rimasta solo l’acqua
piovana che si raccoglieva dentro le pentole e i recipienti. I bambini
correvano per le strade del paese senza controllo e i genitori dovevano pensare
a ripristinare quel poco rimasto. Era in questa atmosfera pesante che un
mattino venne a svegliarci la mamma. Io e mia sorella più piccola dormivano
nello stesso letto, abbracciate per scaldarci. Quando aprii gli occhi era tutto
buio, solo la fiammella del lume a petrolio illuminava la stanza. Non sapevamo
il motivo di quella sveglia a quell’ora. Mia sorella più grande ci lavò e ci
vestì. Mia mamma, impassibile, ci prese per mano e uscimmo nella notte umida e
buia. Ci portò davanti alla “Cresiola” da dove partivano i pullman e lì ce
n’era uno più grande e di colore diverso dalla corriera che faceva regolare
servizio. Sul quel grande pullman c’erano delle signore vestite di bianco. Ci
unimmo ad altre bambine del paese, eravamo circa una trentina e ci fecero
salire sul grande pullman. Mia sorella tenendosi per mano alla sua amichetta
Serafina cominciò a salire sul pullman mentre io mi attaccai alla saia di mia
mamma. E quando cercò di farmi salire mi nascosi dietro di lei piangendo e
gridando perché non volevo salire. Quando le porte del pullman si chiusero una
delle signore in bianco abbassò il finestrino, mia mamma con forza mi prese in
braccio e mi passò tra le braccia che sporgevano dal finestrino. Mi fecero
sedere accanto ad un’altra bambina e dopo poco mi addormentai. Quando mi
svegliai entrava la luce dai finestrini, ci fecero scendere, ci diedero
qualcosa da mangiare ed entrammo in quella che mi sembrò una stazione, non so
se di Bovalino o di Reggio Calabria. Arrivò un vecchio treno e ci fecero
salire. Era tutto in legno, sporco e brutto. I sedili duri facevano male alle nostre
fragili ossa. Un viaggio da incubo per una destinazione ignota, non si arrivava
mai. Eravamo stanchi e sporchi. Finalmente il treno si fermò e ci fecero
scendere. Un altro pullman ci portò in una piazza grandissima. Lì, secondo la
mia amica Antonietta Romeo, ci fecero entrare in un locale dove c’erano tante
scarpe, ognuna di noi poteva sceglierne un paio e calzarle. Non ricordo se fossimo
scalze o se quelle che indossavamo non fossero idonee per entrare in un grande
locale pieno di angeli e santi nelle pareti e sul tetto. Eravamo in Vaticano. Rimasi
incantata di tale e tanta bellezza, non avevo mai visto nulla del genere. Lì
c’erano uomini con i mantelli rossi e strani cappelli e monache vestite di nero
con colletti bianchi. All’improvviso tutti tacquero e si girarono con la testa
in su verso una balconata. Anche noi bambini alzammo la testa e vedemmo un
signore con un cappello a punta e un bastone che con una mano ci salutava. Non
so cosa ci disse, presumo che ci desse il benvenuto e la santa benedizione. In
seguito, attraverso le fotografie, riconobbi in lui Papa Pio XII. Dopo di che
delle suore ci distribuirono un sacchetto di carta marrone con dentro
caramelle, biscotti e cioccolatini. Uscendo sul piazzale ci aspettavano altri
pullman. Ci divisero in due gruppi, metà fummo mandati a Roma, gli altri a
Ostia Lido. Quando mi trovai sopra il pullman non vidi più mia sorella, era
stata mandata a Ostia. Mi misi a piangere e una suora mi venne vicino, le dissi:
“Aund’è me soru?” (dov’è mia sorella?). La suora non mi comprese: lei
non conosceva il dialetto e io non conoscevo l’italiano. Mi disperai tanto che
mi prese in braccio e cercò di tranquillizzarmi dicendo che presto l’avrei
rivista. Invece non fu così, la rividi dopo 24 mesi, io ero già a casa quando
lei ritornò da Ostia.
Ci
portarono in un collegio, ci diedero da mangiare e ci misero a letto. Nella
stanza dove dormivamo erano disposti in fila solo degli enormi letti, ognuno
occupato da due bambine, una che dormiva dalla parte della testa e una dalla
parte dei piedi. Il letto più vicino all’ingresso era quello della monaca che
dormiva con noi. A differenza dei nostri il suo era a baldacchino, circondato
da ampie tende bianche per evitare che qualcuna potesse vedere la monaca quando
si cambiava. Fu così che una notte vidi un qualcosa che dopo 70 anni è ancora
vivo nella mia memoria e non so se fosse sogno o realtà. Era buio e io stavo
con gli occhi sbarrati a fissare il letto a baldacchino. All’improvviso da
dietro le tende bianche vidi una luce come se fosse una candela accesa. La luce
si spostò verso di noi bambine che dormivamo. Mi sembrò che la luce avesse una
forma femminile, senza braccia e senza gambe, fatta di luce come un raggio di
sole. Fluttuando si fermò nel letto accanto al mio, abbassò la testa come un
inchino verso la bambina che dormiva e poi si rivolse verso di me. Io,
terrorizzata, mi rannicchiai sotto le coperte coprendomi completamente e da lì
non ricordai più nulla.
Il
primo giorno di scuola ci portarono in un altro edificio che era vicino al
nostro ma separato da un grande e bellissimo giardino. Lì ci aspettavano tante
signorine che parlottavano allegramente. Entrando c’era un corridoio lungo, le
aule erano disposte da una parte sola. La prima volta che entrammo c’era un
grande e giocoso parlottare, delle belle signorine ci accolsero con allegria.
Ognuna si avvicinò a noi coccolandoci, chiedendoci informazioni. Noi le guardavamo
stupite, non capivamo cosa dicessero. La vidi venire verso di me: bella, alta e
mora, i capelli ondulati cadevano sulle spalle, indossava una gonna stretta
fino al polpaccio ed un corpetto stretto in vita. Oggi potrei paragonarla a una
diva del cinema Mi abbracciò, mi prese in braccio ed io m'innamorai di lei. Nei
giorni che seguirono non vedevo l'ora di incontrarla. Ricordo solo il nome:
Margherita. Non so se fossero studentesse esterne o le nostre maestre. L'inverno
passò, venne maggio. Il giardino era fiorito.
Della nostra famiglia non sapevano nulla. Quando mi prendeva la nostalgia della mamma mi
rifugiavo in un angolo e piangevo. Ci prepararono per la S. Comunione e per la
Cresima. La chiesa quel mattino era piena di fiori bianchi, noi eravamo in fila
col nostro vestitino bianco. Sembravamo tanti angioletti ad aspettarci c’erano
le nostre madrine. La mia, naturalmente Margherita, mise la sua mano sulla mia
spalla. Dopo la cerimonia ci portarono nel cortile accompagnate dalle nostre
madrine, Margherita mi diede un pacchetto. Dentro c'era una borsetta di rafia
rossa. Mi disse di aprirla. Oltre a caramelle e cioccolatini, c’erano 6 fazzolettini
bianchi con ricamo rosso e una scatoletta contenente una catenina d'argento con
3 ciondoli in filigrana: fede, speranza e carità. Margherita me la mise al
collo e lì rimase per tanti anni. Ero già a Milano quando la persi. Dopo 12
mesi, ritornammo a casa. Margherita mi aveva preparato un pacco con un
corredino di alta qualità. Così si concluse l'avventura cominciata male ma
finita bene. Un po’ di anni fa, tornando a Roma, mi venne in mente quella
bellissima ragazza che mi fece felice in quei giorni bui. Cercai il collegio
una mattina andai non era più come lo ricordavo. Bussai e mi venne ad aprire
una suora piuttosto anziana, le spiegai il motivo della mia visita, ma lei non
ricordava quel periodo. Mi disse che si erano ridotte a vivere in poco spazio
non avendo i mezzi per sostenere le spese. Quando mi fece entrare nella
cappella mi commossi perché era uguale a come la ricordavo. Rividi le bimbe
tutte vestite di bianco, tanta gente attorno a noi e quella stupenda ragazza. Lasciai
un pensierino per le suore quando le salutai. Un frammento della mia
fanciullezza se ne era andato, ma nella mente e nel cuore vive ancora.
Rosa, la sorella di Paola, quando partì aveva 5 anni
Le suore che avevano ospitato le bambine erano le Bettlemite di Roma. Quel collegio dove soggiornarono oggi non esiste più.
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