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lunedì 18 maggio 2020

Angeli senza paradiso [di Willi Forst,1933]

    

Ancora nel cuore, ancora nella mente


di PAOLA VIOLI

L’alluvione del 1951 aveva lasciato al suo passaggio un paese devastato: detriti e fango dappertutto e case abbandonate senza corrente. Da bere era rimasta solo l’acqua piovana che si raccoglieva dentro le pentole e i recipienti. I bambini correvano per le strade del paese senza controllo e i genitori dovevano pensare a ripristinare quel poco rimasto. Era in questa atmosfera pesante che un mattino venne a svegliarci la mamma. Io e mia sorella più piccola dormivano nello stesso letto, abbracciate per scaldarci. Quando aprii gli occhi era tutto buio, solo la fiammella del lume a petrolio illuminava la stanza. Non sapevamo il motivo di quella sveglia a quell’ora. Mia sorella più grande ci lavò e ci vestì. Mia mamma, impassibile, ci prese per mano e uscimmo nella notte umida e buia. Ci portò davanti alla “Cresiola” da dove partivano i pullman e lì ce n’era uno più grande e di colore diverso dalla corriera che faceva regolare servizio. Sul quel grande pullman c’erano delle signore vestite di bianco. Ci unimmo ad altre bambine del paese, eravamo circa una trentina e ci fecero salire sul grande pullman. Mia sorella tenendosi per mano alla sua amichetta Serafina cominciò a salire sul pullman mentre io mi attaccai alla saia di mia mamma. E quando cercò di farmi salire mi nascosi dietro di lei piangendo e gridando perché non volevo salire. Quando le porte del pullman si chiusero una delle signore in bianco abbassò il finestrino, mia mamma con forza mi prese in braccio e mi passò tra le braccia che sporgevano dal finestrino. Mi fecero sedere accanto ad un’altra bambina e dopo poco mi addormentai. Quando mi svegliai entrava la luce dai finestrini, ci fecero scendere, ci diedero qualcosa da mangiare ed entrammo in quella che mi sembrò una stazione, non so se di Bovalino o di Reggio Calabria. Arrivò un vecchio treno e ci fecero salire. Era tutto in legno, sporco e brutto. I sedili duri facevano male alle nostre fragili ossa. Un viaggio da incubo per una destinazione ignota, non si arrivava mai. Eravamo stanchi e sporchi. Finalmente il treno si fermò e ci fecero scendere. Un altro pullman ci portò in una piazza grandissima. Lì, secondo la mia amica Antonietta Romeo, ci fecero entrare in un locale dove c’erano tante scarpe, ognuna di noi poteva sceglierne un paio e calzarle. Non ricordo se fossimo scalze o se quelle che indossavamo non fossero idonee per entrare in un grande locale pieno di angeli e santi nelle pareti e sul tetto. Eravamo in Vaticano. Rimasi incantata di tale e tanta bellezza, non avevo mai visto nulla del genere. Lì c’erano uomini con i mantelli rossi e strani cappelli e monache vestite di nero con colletti bianchi. All’improvviso tutti tacquero e si girarono con la testa in su verso una balconata. Anche noi bambini alzammo la testa e vedemmo un signore con un cappello a punta e un bastone che con una mano ci salutava. Non so cosa ci disse, presumo che ci desse il benvenuto e la santa benedizione. In seguito, attraverso le fotografie, riconobbi in lui Papa Pio XII. Dopo di che delle suore ci distribuirono un sacchetto di carta marrone con dentro caramelle, biscotti e cioccolatini. Uscendo sul piazzale ci aspettavano altri pullman. Ci divisero in due gruppi, metà fummo mandati a Roma, gli altri a Ostia Lido. Quando mi trovai sopra il pullman non vidi più mia sorella, era stata mandata a Ostia. Mi misi a piangere e una suora mi venne vicino, le dissi: “Aund’è me soru?” (dov’è mia sorella?). La suora non mi comprese: lei non conosceva il dialetto e io non conoscevo l’italiano. Mi disperai tanto che mi prese in braccio e cercò di tranquillizzarmi dicendo che presto l’avrei rivista. Invece non fu così, la rividi dopo 24 mesi, io ero già a casa quando lei ritornò da Ostia.
Ci portarono in un collegio, ci diedero da mangiare e ci misero a letto. Nella stanza dove dormivamo erano disposti in fila solo degli enormi letti, ognuno occupato da due bambine, una che dormiva dalla parte della testa e una dalla parte dei piedi. Il letto più vicino all’ingresso era quello della monaca che dormiva con noi. A differenza dei nostri il suo era a baldacchino, circondato da ampie tende bianche per evitare che qualcuna potesse vedere la monaca quando si cambiava. Fu così che una notte vidi un qualcosa che dopo 70 anni è ancora vivo nella mia memoria e non so se fosse sogno o realtà. Era buio e io stavo con gli occhi sbarrati a fissare il letto a baldacchino. All’improvviso da dietro le tende bianche vidi una luce come se fosse una candela accesa. La luce si spostò verso di noi bambine che dormivamo. Mi sembrò che la luce avesse una forma femminile, senza braccia e senza gambe, fatta di luce come un raggio di sole. Fluttuando si fermò nel letto accanto al mio, abbassò la testa come un inchino verso la bambina che dormiva e poi si rivolse verso di me. Io, terrorizzata, mi rannicchiai sotto le coperte coprendomi completamente e da lì non ricordai più nulla.  
Il primo giorno di scuola ci portarono in un altro edificio che era vicino al nostro ma separato da un grande e bellissimo giardino. Lì ci aspettavano tante signorine che parlottavano allegramente. Entrando c’era un corridoio lungo, le aule erano disposte da una parte sola. La prima volta che entrammo c’era un grande e giocoso parlottare, delle belle signorine ci accolsero con allegria. Ognuna si avvicinò a noi coccolandoci, chiedendoci informazioni. Noi le guardavamo stupite, non capivamo cosa dicessero. La vidi venire verso di me: bella, alta e mora, i capelli ondulati cadevano sulle spalle, indossava una gonna stretta fino al polpaccio ed un corpetto stretto in vita. Oggi potrei paragonarla a una diva del cinema Mi abbracciò, mi prese in braccio ed io m'innamorai di lei. Nei giorni che seguirono non vedevo l'ora di incontrarla. Ricordo solo il nome: Margherita. Non so se fossero studentesse esterne o le nostre maestre. L'inverno passò, venne maggio. Il giardino era fiorito.  Della nostra famiglia non sapevano nulla.  Quando mi prendeva la nostalgia della mamma mi rifugiavo in un angolo e piangevo. Ci prepararono per la S. Comunione e per la Cresima. La chiesa quel mattino era piena di fiori bianchi, noi eravamo in fila col nostro vestitino bianco. Sembravamo tanti angioletti ad aspettarci c’erano le nostre madrine. La mia, naturalmente Margherita, mise la sua mano sulla mia spalla. Dopo la cerimonia ci portarono nel cortile accompagnate dalle nostre madrine, Margherita mi diede un pacchetto. Dentro c'era una borsetta di rafia rossa. Mi disse di aprirla. Oltre a caramelle e cioccolatini, c’erano 6 fazzolettini bianchi con ricamo rosso e una scatoletta contenente una catenina d'argento con 3 ciondoli in filigrana: fede, speranza e carità. Margherita me la mise al collo e lì rimase per tanti anni. Ero già a Milano quando la persi. Dopo 12 mesi, ritornammo a casa. Margherita mi aveva preparato un pacco con un corredino di alta qualità. Così si concluse l'avventura cominciata male ma finita bene. Un po’ di anni fa, tornando a Roma, mi venne in mente quella bellissima ragazza che mi fece felice in quei giorni bui. Cercai il collegio una mattina andai non era più come lo ricordavo. Bussai e mi venne ad aprire una suora piuttosto anziana, le spiegai il motivo della mia visita, ma lei non ricordava quel periodo. Mi disse che si erano ridotte a vivere in poco spazio non avendo i mezzi per sostenere le spese. Quando mi fece entrare nella cappella mi commossi perché era uguale a come la ricordavo. Rividi le bimbe tutte vestite di bianco, tanta gente attorno a noi e quella stupenda ragazza. Lasciai un pensierino per le suore quando le salutai. Un frammento della mia fanciullezza se ne era andato, ma nella mente e nel cuore vive ancora.

Nelle foto di apertura Paola Violi – di Giuseppe e Domenica Virgara - a sette anni, il giorno della prima comunione. Di seguito Antonietta Romeo – di Bruno e Maria Rinaldo – di sei anni.
Rosa, la sorella di Paola, quando partì aveva 5 anni
Le suore che avevano ospitato le bambine erano le Bettlemite di Roma. Quel collegio dove soggiornarono oggi non esiste più.


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