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giovedì 30 aprile 2020

L'uomo dal fiore in bocca [di Marc Bellocchio, 1993]

Ti chiedo però di parlare, scriverete tornare in mezzo a noi calabresi. Scusa se la mia parola non è facile: sono un operaio.
Ulisse – Crotone
"Un giudizio netto,interamente indignato".
Pier Paolo Pasolini


Pasolini e la Calabria [e Corrado Alvaro]

di Gaetanina Sicari Ruffo

Il giudizio di Pier Paolo Pasolini contenuto nel libro Le belle Bandiere - Editori Riuniti, 1991 – appare un po’ datato, ma essenziale e denso di significato, di forte e chiara denunzia oltre che veritiero. In effetti si riferisce al 1960, anno in cui Pasolini fece un viaggio nella regione e ricevette anche il rifiuto di parlare in un Circolo di Reggio in Calabria che l’aveva prima invitato.
Lo scrittore risponde ad un lettore che gli chiedeva dei suoi rapporti con la Calabria: “Tra tutte le regioni italiane, la Calabria è forse la più povera: povera di ogni cosa: anche, in fondo, di bellezze naturali. Per duemila anni è stata sottogovernata: ma sottogovernata ancora peggio che la Sicilia o il Napoletano, o le Puglie, che, in molti periodi storici sono state delle vere piccole nazioni, dei centri di civiltà, in cui i dominatori risiedevano, almeno, ed avevano rapporti diretti con la popolazione: gli Arabi in Sicilia, i Normanni in Puglia ecc. La Calabria è stata sempre periferica, e quindi, oltre che bestialmente sfruttata, anche abbandonata. Da questa vicenda storica millenaria non può che risultare una popolazione molto complessa, o per dir meglio, con linguaggio tecnico, «complessata››. Un millenario complesso di inferiorità, una millenaria angoscia pesa nelle anime dei calabresi, ossessionate dalla necessità, dall'abbandono, dalla miseria.
Nel popolo questi «complessi» psicologici di carattere storico, possono dare, nei casi estremi, i risultati più opposti: la più grande bontà - una bontà quasi angelica - e una furia disperata e sanguinaria (la cronaca purtroppo ne parla ogni giorno). Una popolazione esteriormente umile, depressa, internamente drammatica.
Tu forse sai che i «complessi›› psicologici impediscono uno sviluppo normale della personalità: così i calabresi sono molto infantili e ingenui - e questo è del resto il loro grande fascino, la loro più bella virtù. E quel tanto di contorto che c'è in loro è, in fondo, infantilmente semplice.
Fermiamoci a considerare questa prima parte del suo giudizio che in generale riguarda il tracciato identificativo e storico della popolazione e della terra calabrese all’epoca.
Potrebbe sorprendere l'espressione dello scrittore sul fatto che la Calabria sia povera di bellezze naturali. Penso che intendesse che le sue bellezze, innegabili per altro, fossero trascurare: discariche a cielo aperto, vie di comunicazione precarie, scarsa cura del territorio, nessuna strategia per rilanciare il turismo. Oggi dovremmo aggiungere pure il giallo dei rifiuti tossici, versati in alcune località costiere e montane. Non è un delitto che pesa, a carico di chi amministra, non certo della natura che non e stata generosamente protetta?
È una verità bensì che nell’aspetto dei luoghi resti la traccia profonda di tanti secoli di abbandono e di malgogoverno. E’ una traccia che dura pure nelle menti e ne condiziona i comportamenti.  
In questo Pasolini rivela d’essere attento conoscitore dei moti d’animo popolari anche quado parla del carattere dei calabresi che sono egli dice in fondo molto infantili ed ingenui e quel tanto di contorto che è in loro è in fondo infantilmente semplice. Ma creduto ancora in questa semplicità se solo avesse potuto conoscere i numerosi delitti delle famiglie di 'ndranghetista e la rovinosa diffusione del malaffare in mezzo mondo? Non credo si possa parlare di fascino della semplicità della gente Calabra che o era una favola malcelata o s’è definitivamente persa.
S’è detto tante volte da voci diverse dell’immobilismo meridionale, del senso di stanchezza che sembra opprimere le popolazioni. Su queste componenti egli ha una sua diagnosi: l’abitudine ad essere dominati ed asserviti ai tanti dominatori che si sono susseguiti nel passato non ha certo creato stimoli ed incoraggiato la ripresa in senso dinamico. E’ vero, ma questo retaggio non si cancella mai? La natura spontanea o acquisita non può essere corretta e modificata? Verrebbe da rispondere: sì, con la cultura. Ma questa non è una voce vincente e preponderante.
L'unico autore calabrese menzionato è Alvaro che tuttavia serve solo a confermare l’arretratezza degli abitanti. Pasolini aggiunge: “La borghesia Calabrese, come tu sai, è di formazione molto recente. Corrado Alvaro dice addirittura, con una boutade che contiene però molta verità, che essa è nata in quest'ultima guerra, con la «borsa nera››. E una borghesia recentissima, dunque, e quantitativamente scarsa. Le forme più moderne di questa borghesia, mi pare si riscontrino a Crotone: nelle altre grosse città calabresi, la borghesia è forse la peggiore d'Italia: appunto perché in essa c'è un fondo di disperazione che la irrigidisce, la mantiene, come per autodifesa, arroccata su posizioni dolorosamente antidemocratiche, convenzionali, servili. Non è possibilista, scettica, elastica come in altre regioni del Meridione, dove ciò che la salva, è proprio la sua corruzione, cioè la sua antica esperienza. In Calabria, ripeto, è rigida, moralistica: e perciò faziosa.
Sarà forse un caso, ma tutti i giovani che ho incontrato casualmente o che mi sono stati presentati in Calabria sono fascisti: dico, naturalmente, gli adolescenti di classe borghese. Questo mi ha costernato. È un problema, quindi, che passo ai dirigenti politici: esso mi sembra realmente grave, e da affrontarsi risolutamente. Da tutto quello che ho detto qui sopra può risultare, infatti, storicamente chiaro che la borghesia calabrese tende agli estremismi di destra.
Naturalmente c'è il Crotonese che fa eccezione. Ed è per questo - per questa possibilità, per questa speranza che il Crotonese autorizza ad avere - che io continuo ad appassionarmi a questo problema, come se fosse mio, e non perderò certo mai occasione per parlarne: e dire - sia essa gradevole
o no - quella che a me sembra la verità.
I problemi suggeriti da questa seconda parte di considerazioni di Pasolini riguardano la borghesia, una classe che a sud ha attirato su di sé prevalentemente le colpe del degrado e dell’arretratezza, non essendo riuscita, dopo l’Unità, a rivelare autonomia e slancio di iniziative. Si e invece vincolata con la prestazione dei voti, pur di essere privilegiata, ai gruppi parlamentari che la sostenevano di volta in volta, senza avere a cuore i veri interessi dei cittadini. Tutti sanno che l'annosa questione meridionale è cominciata da qui e inutili sono stati i suggerimenti dei vari economisti e sociologi perché la situazione mutasse. “La borghesia settentrionale ha soggiogato l’Italia meridionale e le isole e le ha ridotte a colonie di sfruttamento”, questa l'accusa di Gramsci per sottolineare l’inerzia di questa classe a sud, mentre per Dorso la debolezza di tutto il sistema è venuta dall’assenza di una classe media libertaria capace di risollevare le sorti compromesse dall’impasse di tutta l’area. La classe operaia, che pure era stata protagonista di memorabili lotte contro le prevaricazioni feudali negli anni prima e dopo il fascismo, non ha avuto l'energia e i mezzi necessari per attuare quella rivoluzione proletaria che era negli auspici del partito comunista.
Alle accuse di ieri si sommano quelle odierne che riguardano il generale superamento della distinzione delle classi, ma non una pacificazione sociale promotrice di progresso e di sviluppo. Ancor oggi l’economia è stagnante e l’industria del turismo, che pure con successo potrebbe essere impiantata, è solo una pia vocazione astratta. Mancano strumenti bancari adeguati e mezzi di comunicazione rapidi ed efficienti.
Neppure i giovani che sempre lo scrittore ha considerato come promessa del futuro spingono a ridenti speranze. Il motivo non nasce solo dalla loro appartenenza a partiti di destra, com' è detto nella risposta pasoliniana, quanto dalla dispersione che è intervenuta nei loro progetti, dalla demotivazione che li caratterizza per carenza di lavoro e per necessità d’espatrio.
A ben vedere quindi il quadro prospettico calabrese, a distanza di decenni è mutato, ma solo superficialmente. La grande utopia d’un partito comunista che risana le piaghe e che dà vigore alla classe operaia per renderla matura e responsabile è pur essa tramontata dopo la caduta del muro di Berlino. Si e generata una confusione di ruoli e la nuova classe capitalistica ha fallito nelle sue mire ed una generale grigia ed amorfa gora di sopravvivenza è subentrata. Il privato ha avuto un gioco più libero di quello pubblico, ma non sempre schietto e onesto. Si sono infiltrati gruppi di potere malavitoso cui si attribuisce in maggior parte la stagnante e pericolosa deriva.
Calabria Sconosciuta n. 132 Anno XXVIV  ottobre - dicembre 2011.

NOTA La risposta di Pasolini al lettore che lo interrogava era apparsa sul settimanale di attualità “Vie Nuove”, n. 49 a. XV, 10 dicembre 1960, fondato nel 1946 da Luigi Longo, Pasolini collaborò con una sua rubrica dal 1960 al 1965.

mercoledì 29 aprile 2020

The Farewell [di Lulu Wang, 1940] e Fausto Coppi

Bovalino, nu sabitu i chisti
Caru Don Peppinuzzu,
mi scusati e mi perdunati se mi permettu u vi mandu stu' fogghiettu c'ummè cummàri e p'o tempu chi ndavìti a perdìri p’ammu leghiti.
Dunca, cu volìa u saccíu acchì cosa pa tuttu ssu sdegnu chi ndavìti c’umnìa, pecchì eu no’mmisentu in trascuransa non cu vvui e no cull'amici i nuja manèra, ma sa trascuranza ncè vulerrìssi m'a saccìu in modu u mi pozzu scusari c’uttùtti. Mi staiu magiandu i ciriveja d'a matìna a sira, ma no riesciu u mi ricordu nenti. Mi ricordu sulu ca mi ndavivivu promettùtu u venìti ogni tantu u si facití na visiteja a stu povuru malàtu, ma si vidi ca sta promisa vi catti i menti o vi ndi stafuttìti i mia.
Ma non si faci nenti. Vi mandu o stessu i mei saluti, ma teniti cuntu ca no’nci tegnu u vi scommutàti i nuja manera, altrimenti mi costringiti u fazzu a chi mala figùra. Teniti cuntu ca non ci sugnu.
Tanti saluti. E salutàti a me cummari.

Addio.  PGliozzi
A Peppe Rinaldo


La foto con autografo di Fausto Coppi allo zio Pepé è una rarissima testimonianza del Giro della Calabria svoltosi nella primavera del 1950. Qualcuno ricorda che quel giro passò anche da Platì e questo video sembra testimoniarlo.

lunedì 27 aprile 2020

Cuor di regina [di Carl Froelich 1940]

Di seguito le tre lettere che la reina consorte de España , Maria Cristina, scrisse al Padre Bonaventura, suo confessore, presso il convento dei Riformati di Bianco

°°°

Padre Bonaventura,
ho ricevuto con sommo piacere il vostro foglio del 25 nov. e con particolare godimento le due immagini una della S.S. Vergine del Buon Consiglio e l’altra di S. Francesco e le tre composizioni in stampa.
Nel farvi giungere i miei più vivi ringraziamenti per queste vostre dimostranze di affetto verso di me e tutta la mia famiglia, desidero che il cielo vi ricolmi di ogni bene spirituale e temporale. Sono ugualmente sensibile alle assicurazioni che mi date di porgere calde suppliche pel felice risultato del prossimo mio parto e ve ne sarò molto grata.
P.S. Il giorno della data di questa lettera alle ore 2 dopo pranzo Dio mi concesse un parto felice dando alla luce una bambina, l’Infanta Maria Luisa Fernanda.
Madrid, 30 giugno 1832


Padre Bonaventura,

i sentimenti di giubilo che sperimentate nel sentire il ristabilimento del mio amato sposo, che segue benissimo nella sua convalescenza, sono per me una prova non equivoca dell’affetto che portate a tutta la nostra famiglia e le preci fervorose da Voi dirette all’Altissimo mi fanno sperare che lo vedrò quanto prima del tutto ristabilito.
Non tralascio di raccomandarvi al mio amatissimo fratello Ferdinando, perché possiate predicare nella Reale Cappella Palatina, nel venturo anno 1834, il vostro quaresimale, desiderosa che le mie raccomandazioni abbiano un effetto felice.
Vi ringrazio per le imploratemi benedizioni dal cielo e ve ne desidero altrettante.
Maria Cristina
Madrid, 14 febbraio 1833


Padre Bonaventura,

col vostro foglio del 14 aprile mi è pervenuto l’incenso e le cere che avete avuto l’attenzione di mandarmi come facenti parte di quelle che lasciarono innanzi al Santo Sepolcro nell’ultima settimana Santa, per cui mi sono stati questi oggetti altrettanto grati e ve ne ringrazio moltissimo.
Vi sono altresì riconoscente per le proteste che mi fate di volermi avere sempre presente nelle vostre orazioni e potete essere certo che non vi è cosa che mi sia più gradita.
Da parte mia contate sempre sulla uguale stima e benevolenza.
Maria Cristina.
Madrid, 9 giugno 1833
°°°
Nota di Ernesto Gliozzi il vecchio.In detto convento visse quasi tutta la sua vita Padre Bonaventura da Casignana (al secolo Giuseppe Nicita) religioso di santa vita che era stato confessore della Regina di Spagna, la beata Maria Cristina (di cui si conservano alcune lettere dirette allo stesso). Egli fu valente oratore (un volume delle sue prediche esiste), predicò a Roma, Corfù, Venezia ed in molte città, col ricavato delle sue prediche arricchì il Convento di suppellettili preziose e di sette statue. Nel 1860 il Convento fu bruciato per rappresaglia dei bersaglieri comandati dal tenente Rossi e dal tenente Quadri i quali seguivano le peste dei 22 ufficiali e del Generale Boryers mandati dalla Spagna ad inquadrare e comandare il grosso brigantaggio di Ferdinando Mittiga da Platì. Il Padre Samuele da Siderno, al secolo Antonio Vincenzo Mercuri fu Pietro, era in quell’epoca il Guardiano del Convento ed avendo dato alloggio alle truppe spagnuole, diede motivo alla rappresaglia per cui il convento fu bruciato. Il 21 Settembre 1861 P. Samuele fu proditoriamente ucciso. Durante l’incendio è andato distrutto il celebre, antico e artistico Crocifisso che vi si venerava e si vuole che nel cadere a terra abbia lasciata l’impronta della mano del Cristo”.


Le tre lettere e una nota ricavata da quella scritta, per la Cronistoria della Diocesi di Locri curata dal Canonico Oppedisano, da Ernesto Gliozzi il vecchio si trovano su Calabria Sconosciuta n. 132 Anno XXVIV  ottobre - dicembre 2011. L’autore di quell’articolo e molti altri più recentemente, definiscono la regina Maria Cristina di Spagna “Beata”, abbagliandosi con Maria Cristina di Savoia.
Il ritratto in apertura è di Vicente López y Portaña (1872 - 1850) e si trova al museo del Prado.

Una sorella del padre Bonaventura, Elisabetta Nicita, sposò a Platì Domenico Portulise. I due ebbero cinque figli di cui il primo, Rocco nacque nel 1811, Rosario nel 1813, Rosa Maria nel 1822, Domenica nel 1823 e Francesco nel 1826, come risulta dal lavoro compiuto da Ernesto Gliozzi il giovane.

Per saperne di più:


domenica 26 aprile 2020

L'ora di catechismo [di Augusto Genina, 1938]




Gara catechistica
 a Locri

Locri, 14 luglio
Nel magnifico salone del Centro sociale diocesano ha avuto luogo la finalissima della Gara diocesana, cui hanno partecipato i vincitori dell'eliminatoria fra i concorrenti provenienti da Agnana, Ardore superiore, Bianco, Bovalino, Casignana, Caulonia, Fabrizia, Gerace, Giojosa Jonica, Locri, Platì, Portigliola, Roccella Jonica, San Giovanni di Gerace, S. Luca.
Alla finalissima hanno partecipato Santino Locandro (Gerace), Nicola Antonio Randò (Fabrizia), Bruna Costa (Bovalino), Delia Commisso (Sidno), Vicenzina Chimirri (S. Giovanni di Gerace) GarofoloCiro (Gerace) Perri Domenico (Platì) Maiolo Francesco (Fabrizia) Zappia Anna (Locri) Miceli Francesco (Platì), Montagnese Nazareno (Fabrizia), Pellegrino Maria (Siderno Marina), Chimirri Giuseppina (S. Giovanni di Gerace).
La gara si è svolta con ritmo serrato, intercalata da recitazioni e da balletti eseguiti da gruppi di ragazzini dell'Istituto “Bennati”, garbatamente presentati dall'insegnante Armando Panetta ,alla presenza del Vescovo della Diocesi Mons. Perantoni, del Sindaco avv. Murdaca, dalle autorità scolastiche, nonché da un largo stuolo di signore e signorine. Ha diretto la gara con la solita bravura il can. Ernesto Gliozzi -Penitenziere della Cattedrale
Ecco i risultati:
Classe 3: Vincitore del titolo: Locandro Santino (Gerace)
Classe 4: Vincitore del titolo: Perri Domenico (Plati).
Classe 5: Vincitore del titolo: Chimirri Giuseppina (S. Giovanni).
A ciascun vincitore è stata appuntato dal Vescovo la medaglietta d'oro ricordo e offerti doni, a Licandro due volumi riccamente illustrati, a Perri un orologio da polso, alla Chimirri una sontuosa bambola. da salotto.  
GAZZETTA DEL SUD, 15 luglio 1959


giovedì 23 aprile 2020

Un padre, una figlia [di Cristian Mungiu, 2016]

CENTESIMO ANNO 

di Bettina Gliozzi di Giuseppe

Queste parole mi sono state estorte con una minaccia, ve lo dico subito.
Per me, “Non mi devi deludere!” è peggio di una pistola puntata sul cuore. Ma è lì che ha mirato Ginocugino quando, giorni fa, mi ha chiamato per ricordarmi quest’anniversario. Che io me lo ricordavo, ma me lo tenevo stretto. Le esibizioni plateali sono quelle che mi fanno distinguere quando c’è da indossare cappelli dalle forme più strane o collane dai colori sgargianti, oppure salire su un tavolo a leggere racconti epici di paese, anche se il fiato mi abbandona ogni tre parole, non quando devo raccontare di un pezzo di cuore. Che anche lì, certe volte mi viene pure bene, anche se poi chi mi ama sul serio mi richiama subito, per dirmi che i sentimenti non si espongono in pubblico e che chi legge potrebbe essere proprio chi mi ha fatto più male al mondo, quello che ha giurato su un letto di morte e poi ha voltato le spalle.
A me non importa. Io sono così. Perciò è da qui che voglio partire, per raccontare papà. Dal momento in cui se n’è andato dal mondo per entrarmi definitivamente nel cuore. Da quella settimana in cui, lentamente si è consumato, permettendoci di maturare il distacco, di desiderarlo quasi, come chiedeva lui al dottore che si avvicinava al suo letto d’ospedale. Fatemi morire, mi sono stancato. E resisteva.
Per chiedere una promessa che non è stata mantenuta.
E per regalarmi un sorriso che non era per me.
Ma che io mi porterò nel cuore per sempre.
Potevo evitare di raccontarvi questo dettaglio, adesso, lo so. Ma ve l’ho già detto che io sono così. Vado a ruota libera, quando scrivo, non seguo una traccia, soprattutto a comando. O se ho pistole puntate sul cuore.
Isabella me lo dice sempre: tu sei figlia di tuo padre!!! E per me non c’è cosa più bella! Perché io lo so che gli somiglio, mi rivedo nell’allargarmi con tutti, nel prendere le cose con leggerezza, nella platealità di certi gesti, nel gustare certi piatti, nella rotondità del corpo e, più che ogni altra cosa, nell’immensità delle orecchie, che sembrano due padelle! Le mie e le sue!
Sì, lo so che adesso tutti, dopo aver versato le dovute lacrime leggendo l’inizio, non vi capacitate che io vi stia mostrando questa fotografia. Eppure io le orecchie me le guardo ogni mattina e lo vedo che diventano sempre più grandi, andando avanti nell’età, esattamente come quelle di papà.
Il naso invece no.
Quando è nato Jacopo, Mimmuzzo, amorevolmente, fece uno strappo alla regola, me lo portò in camera che io ancora non mi ero svegliata dall’anestesia e voleva mettermelo in braccio: io lo guardai e inorridita dissi NO!!!! Ha il naso di papà, dello zio Ciccillo e della zia Rosina messi insieme!!! Mimmo, non capì cosa stessi dicendo e, immaginando che non fossi sveglia, si guardò bene dal mettermelo in braccio…. ma credetemi, io lo so di cosa stavo parlando e tutti i miei cugini che stanno leggendo, lo sanno allo stesso modo.
Non un naso: una campana al posto del naso!
E, infatti, lui mi cantava sempre una canzoncina e la suonava facendolo dondolare e soffiando….

Dormiti bella e facit’u sonnu (ndilin- ndilon) 
Se no vaju e vi chianu u Batitonnu (ndilin-ndilon) 
U Batitonnu non potìa veniri (ndilin-ndilon) 
Ca jiu u scangia cincucentu liri (ndilin-ndilon) 
E li tricentu si li tornaru farzi (ndilin-ndilon) 
E pe la pena si llordàu li carzi (ndilin-ndilon) 
Doppu d’i carzi, si llordau i mutanti (ndilin –ndilon) 
E ndeppi mu simmuccia ‘nto caccianti (ndilin –ndilon) 
Ma lu caccianti ndavìa jiutu fora (ndilin –ndilon) 
U cogghji na minestra di scalora (ndilin –ndilon) 
E c’a scalora fici na ‘nzalata (ndilin –ndilon) 
E la gugghjiu ‘nta na patamata (ndilin –ndilon) 
(ndilin –ndilon) 
(ndilin –ndilon) 

Sì, lo state immaginando anche voi che se le inventasse su due piedi queste rime becere, e che il ndilin-ndilon servisse a raccogliere i pensieri per la rima successiva, oltre che per l’improvvisato spettacolo del naso che suonava come una campana percossa dalle dita, perché non c’è traccia, nella letteratura di nessun popolo al mondo di una ninna nanna come questa. Eppure questo stornello impietoso e di sicuro poco adatto al sonno di una bambina era l’unica cosa che lui mi sapesse cantare come ninna nanna ed io non l’ho mai dimenticata oltre a non essermi mai addormentata, ascoltandolo.
Ma questo lui cantava.
E a me andava benissimo!


Nota (Gino) - Il 24 aprile del 1920 è la data di battesimo dello zio Pepé, il 24 di quel mese era anche il giorno in cui si festeggiava la sua venuta al mondo.

mercoledì 22 aprile 2020

Down in the Valley [di David Jacobson, 2005]


Cenni storici
e caratteristiche
di Platì

Alle pendici delle meravigliose faggete dei Piani di Zervò, quando la vista si apre sul tormentato paesaggio del versante jonico aspromontano, inizia la valle di Platì (Kmq. 50,01).
Dal ripido versante nord occidentale del Montalto - la vetta appenninica dal cui orizzonte è possibile vedere i mari tirrenico ed jonico - si scende lungo la statale 112 a Platì (m. 300; abitanti: 4.060) da dove, dopo una leggera risalita sul monte Panduri, si apre il fondovalle. Attraverso una strada scorrevole e piana si giunge in pochi minuti ai larghi e sabbiosi arenili della costa jonica.
La storia di Platì, centro a prevalente economia agricola e zootecnica, risale al 1557 quando fu fondato come feudo dei principi di Cariati; l'antico abitato fu quasi interamente distrutto dal terremoto del 1783: ma la tenacia e la laboriosità dei sopravvissuti fece rinascere l'antico centro che nel 1799 fu istituito Comune autonomo dai francesi.
La povertà delle risorse agricole ed una ineguale distribuzione dei redditi spinse, negli anni delle emigrazioni oltreoceano, centinaia di famiglie verso le Americhe e l'Australia: si emigra ancora oggi verso l'Italia settentrionale ed i Paesi dell'Europa occidentale.
Negli anni del 1951-53, l'abitato di Platì e le sue frazioni e contrade furono duramente colpiti da disastrose alluvioni: si ebbero numerose vittime e danni alle attività produttive.
Una piena ripresa economica, la valorizzazione delle risorse produttive e turistiche, una organica politica di difesa del suolo sono, oggi, l'impegno costante delle popolazioni di Platì che, nelle avversità, hanno maturato un forte spirito di lotta ed una coscienza altamente democratica e civile.

On the slopes, thick with beech trees, that start from Zervò plateau, where the view opens onto the rugged landscape of the Ionian side of the Aspromonte, the valley of Platì begins (50.01 Square km).
From the steep north-western ridge of Montalto – the Appenine peak from which it is possible to see both the Ionian and the Thyrrhenian Seas – it is possible to drive down Road 112 to Platì (300 m height above sea level; population: 4060) from where, after a short climb on Panduri Mountain, the valley stretches out. The large and sandy beaches of Ionian shores can be reached with a few minutes long and smooth drive on a flat road.
Platì’s history, which has an economy mainly based on agriculture and livestock breeding, goes back to 1557 when it was established as a fief* of Cariati Princes: the ancient town was almost entirely destroyed by an earthquake in 1783, but the population rebuilt it with perseverance and hard work. In 1799 Platì was declared independent Township by the French.
Poor agricultural resources and unequal distribution of incomes pushed hundreds of families towards North and South America or Australia in the migration years. Nowadays migration is towards Northern Italy and Western European Countries.
In the years 1951-53 the town, together with its surroundings, was hit hard by devastating floods with victims and damages to production activities.
A full economic recovery, a promotion of production and touristic resources, a comprehensive policy for soil conservation are now the constant commitment of Platì’s townsfolk who, having endured many hardships, have developed a strong fighting spirit and  a highly democratic and civic consciousness.

 A fief (/fiːf/; Latin: feudum) was the central element of feudalism. It consisted of heritable property or rights granted by an overlord to a vassal who held it in fealty (or "in fee") in return for a form of feudal allegiance and service, usually given by the personal ceremonies of homage and fealty. The fees were often lands or revenue-producing real property held in feudal land tenure: these are typically known as fiefs or fiefdoms. However, not only land but anything of value could be held in fee, including governmental office, rights of exploitation such as hunting or fishing, monopolies in trade, and tax farms. (Wikipedia)

L'autore del quadretto naif è sconosciuto. Il testo qui riportato è incluso in una pubblicazione edita nel 1974 dal Comune di Platì - sindaco Francesco Catanzariti - a seguito della visita del ministro australiano on. Albert J. Grassby. La pubblicazione è conservata presso la Biblioteca "Pietro De Nava" di Reggio Calabria. La foto in apertura e la traduzione sono di Rosalba Perri. La foto che appare nel video è del Cav. Rocco Brancatisano di Bovalino Mare.

martedì 21 aprile 2020

Catastrofe imminente [di John Terlesky, 1999]

“What catastrophe are you watching now? Political or natural?”

L'originale è qui:

lunedì 20 aprile 2020

Diaz - Non pulire questo sangue [di Daniele Vicari, 2012]

Il transito dell’Eroe

DISCORSO

pronunziato dall' avv. ROSARIO FERA nella solenne Commemorazione del Maresciallo DIAZ il 4 marzo 1928
in Platì per invito della locale Sezione Combattenti.
  
Gerace - tipografia V. FABIANI - 1931 IX

Dal Brennero al Giuba, una selva tricolore di vessilli abbrunati fascia di gramaglie la Patria dolente, e i bronzi di tutte le torri che già squillarono gl'inni del trionfo, diffondono ora pei cieli grigi l'accorato singulto dei loro funebri rintocchi: dal cuore della Nazione, percosso e squarciato dal telo della Parca inesorabile, fiotti di sangue zampillano ed urli d'incontenibile dolore.
Sulli affusto d' un cannone una salma - che il Sovrano inginocchiato bagnò di lagrime nell'austera solennità della camera ardente - ascende il colle marmoreo del Vittoriano, dove nel sarcofago di granito bulica e rosseggia il sangue sempre vivo del Fratello ignoto.
Scortano il carro nel viaggio di gloria, le Ombre dei Caduti risorti dalle ferrigne necropoli del Trentino e del Carso e le dense legioni dei superstiti recanti nei corpi dilaniati le stimmate del sacrifizio e i Principi del sangue e gli alti dignitari dello Stato e il popolo compatto, piangenti insieme sulla sventura che è di tutti.      
Il Maresciallo DIAZ è morto.
È morto nel vigore della sua robusta virilità, imminente il decimo annuale della Vittoria, da Lui, con somma sapienza, adamantina tenacia, indomite ardimento voluta e conquistata; è morto quando ancora la Patria poteva contare sul suo genio di Condottiero e sul suo braccio di paladino.    
Il Maresciallo DIAZ e morto e giace immoto per sempre nel sacro sudario della sua bandiera, contesta col candore immacolato della sua fede e i verdi lauri delle sue vittorie e il sangue ardente delle sue ferite
La sua grande anima s' e dipartita per raggiungere nell’Empireo gli altri Artefici del nostro Riscatto, lasciando a noi sacro retaggio il ricordo imperituro delle sue virtù e le sue ceneri che saranno per i venturi fonte perenne ed inesauribile d’ispirazione e d'eroismo.
Signori,
l'Uomo che la grande famiglia italiana piange nelle cento città della Metropoli, nelle Colonie fiorenti e sui campi internazionali del lavoro consacrò fin dalla prima giovinezza la sua vita in servizio della Patria.
Nacque a Napoli nel 1861 ereditando dagli Avi, che s’erano battuti da bravi ufficiali nelle armate del Corso, la vocazione alle armi. Si ebbe la prima educazione nel Collegio militare della citta nativa, passando poi all’ Accademia Militare di Torino e uscendone sottotenente nel 1881. Entrò nello Stato Maggiore nel 1894 e vi rimase diciassette anni conquistandosi, per tenacia cultura energia, la fama di ottimo ufficiale.
Durante la campagna libica, colonnello del 93° Fanteria combatté da prode a Zanzur, rimanendo gravemente ferito e rivelando le più belle doti di stratega e quando nel maggio storico, l’eloquenza formidabile d’un Tribuno e la facondia travolgente d’un Poeta, spezzando gli ormeggi della viltà, spinsero tra i gorghi sanguigni della grande guerra la nave delle patrie fortune. Egli è a fianco di Cadorna e di Porro collaboratore prezioso e contribuisce validamente ai successi della Campagna.
Comandante di Divisione al declinare del 1915 e poi del 23° Corpo d’Armata, operò brillantemente sotto  l’alto comando di Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, nella gloriosa Terza Armata a cui i titanici battaglioni  della Fedelissima e la Brigata magnifica dei Granatieri di Sardegna e i Fanti di cento reggimenti, in una superba gara d’eroismo e di martirio, meritarono il titolo d’Invitta.
Ma la rivelazione vera dell’Eroe si verificò nell’ora più triste della Patria, allorché la valanga austro tedesca precipitando dalla breccia di Caporetto sulle nostre linee le travolse ricacciandole al Piave.
In quel tragico frangente Chi sapeva e poteva, chiamò DIAZ al Comando Supremo, e DIAZ, conscio di se stesso, accettò. “M’hanno dato una spada rotta, ebbe a dire, ma io combatterò lo stesso”.
La vita della Patria era legata indissolubilmente all' incrollabilità del Grappa e del Piave e bisognava resistervi a ogni costo per poi - ricostituito l'esercito - slanciarsi alla riscossa.
Contro Lui, dalla frontiera svizzera al mare, stavano, formidabili di mezzi offensivi ed inebriate di successo, le Armate di Hoetzendorf, Krobatin, Below e Boroevic sotto gli ordini di un geniale Condottiero il Mackeusen.
Non disperò e, quasi privo di Artiglierie, tenne duro coi macigni del Grappa e i flutti del Piave e il petto dei suoi Fanti e respinse gli attacchi più rabbiosi riuscendo nel giro di un mese a consolidarsi in un fronte infrangibile da Asiago al mare.
Poté così, dietro la formidabile barriera, prepararsi alacre e tranquillo alle future operazioni, mentre temporeggiava con azioni di dettaglio, per migliorare sempre più le nostre difese.
Anche i nemici si preparavano e, nel giugno del 1918, crollati definitivamente i fronti russo e rumeno, l'Austria si abbatteva sul Piavon tutto il peso del suo esercito.
Fu apocalittica la mischia.
Due turbini di fuoco si scontrarono, due popoli in armi, due civiltà, due proposti disperati di sopraffarsi, il martire e il boia all’all’ultimo duello. Nembi di scintille sprizzavano su tutte le trincee, rombi e schianti di granate laceravano l'aere incandescente e polverizzavano la terra contesa su cui le Brigate eroiche dei nostri fanti morivano, senza crollare d' un centimetro.
Il Piave, tronfio di sangue, sembrava l'Arteria recisa d’un mostro favoloso, il Montello, fulcro della battaglia, sommerso a metà dalle truppe dell’Arciduca, sembrava - ed era! -- la pietra fumante del domestico focolare difesa dai nostri a prezzo d' intere divisioni.
A bassa quota – sull’ali che ondeggiavano sulla zuffa come una bandiera -- trasvolava Francesco Baracca mitragliando da vicino e falciando i rincalzi nemici.
Sette giorni imperversò la battaglia - senza tregua, serrata, micidiale - finché al tramonto del 22 giugno, sterminate dai cannoni, dissanguate dalla baionetta, torturate dai velivoli, riarse dalla sete e fiaccate dalla stanchezza le masse nemiche improvvisamente ripiegarono.
E allora le nostre artiglierie stesero sulle acque ribollenti una cortina d' acciaio e smantellarono i ponti
e squarciarono le zattere e si saziarono di strage.
Più di centomila cadaveri i nemici lasciarono sui nostri valli e il carnaio gravò sulla bilancia del destino, facendone oscillar l’ago decisamente in nostro favore.
Ancora pochi mesi di preparazione e poi la spada possente di ARMANDO DIAZ, prostrerà. per sempre a Vittorio Veneto, l’orgoglio e la potenza del secolare nemico e celebrerà l'anniversario del disastro con la più strepitosa delle vittorie.
E i Fanti che lo avevano profondamente amato - ed è virtù dei grandi capitani farsi adorare dai gregarii - inalberando il tricolore sul castello del Buon Consiglio e sulla torre di S Giusto, attesero dal suo labbro la ricompensa.
E dal suo labbro l'epinicio più sublime nell’ultimo bollettino di guerra che spazia nell’azzurro cielo di Clio, sull’ali eterne dell’epopea: ” ... I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza”.
É il metro d' Omero che freme e lampeggia nello stile lapidario del soldato.
Così la guerra fu vinta e la patria riscattata, ma la folla bolscevica ruggì minacciosa intorno alla Vittoria per strangolarla.
Allora il Generalissimo scudò la Vittoria col suo cuore per consegnarla poi al figlio primogenito di Roma, al Duce dell’Italia risorta, che ricondusse il popolo smarrito alla riconquista delle sue mete fatali.
E nell' ottobre del 1922 quando le nere falangi, entrando vittoriose nell' Urbe riaccesero il sacro fuoco sull' ara di Vesta, DIAZ, reduce dalla sua missione d’italianità nelle Americhe e Duca della Vittoria, collaboro col Duce quale Ministro della guerra.
Egli non aveva davanti a sé che uno scopo: servire fedelmente il suo Re e la sua Patria e l'elogio migliore di lui sta nelle parole con cui lo commemorò alla Camera il Capo del Governo: “La sua vita con una sola parola potrebbe essere esaltata e conchiusa: dovere. Questa parola religiosa e guerriera fu per Lui norma ed ideale.”
Tale fu l'uomo, o Signori, che oggi commemoriamo e che dette alla sua Patria e alla civiltà la più grande battaglia, la più difficile vittoria e il più sublime inno di trionfo.
Genuflessi intorno alla sua bara innalziamo riverenti il nostro pensiero a tutt' i Caduti per la causa Comune.
Noi non sapremo giammai dimenticarli perché essi vivon e vivranno eterni nel nostro cuore e in quello dei nostri figliuoli.
O donne, o bimbi d’Italia, vecchie madri e spose derelitte od orfani ignari, o vegliardi declinanti, affisate nel cielo le vostre pupille velato di pianto e guardate; i nostri Eroi sono là beati nella gloria imperitura e vi sorridono.
Essi non morirono.
Essi non morranno.
Essi avranno onore di pianto. 
ove fia santo e lacrimato il sangue
per la, patria, versato, e finché il sole
risplenderà su le sciagure umane.
Platì (Reggio Calabria) 4 Marzo 1928 - VI

Documento conservato presso la Biblioteca Comunale "Pietro De Nava" di Reggio Calabria.

domenica 19 aprile 2020

Mammina cara [di Frank Perry, 1981]


«Cara Francesca, amata collega, per noi sei sempre stata di grande esempio: per la tua preparazione professionale, per il tuo comportamento signorile e per la tua distinta saggezza. Ti prodigavi in favore del prossimo sofferente perché tu l'amavi. Ti bastava solo di renderti utile, senza mai badare alle tue
sofferenze fisiche...»
(Sig.na Zemira, a nome delle Ostetriche della Zona di Locri)

«... Siete stata per tutto il popolo di Platì la maestra di vita, l'amica, la sorella, la mamma. E oggi, sono proprio le mamme di Platì a sentire maggiormente il vuoto che avete lasciato. Ma resterà sempre vivo il ricordo della vostra abnegazione, del profondo attaccamento al lavoro che ha minato la vostra salute e vi ha improvvisamente stroncata»
(Prof, Pasqualino Violi)

«Amici, l'incontro che noi facciamo in questi luoghi sono incontri di pianto di dolore e di amarezze ... Oggi questo calice di amarezza lo sente l'intero paese perché ha perso colei che con il suo sorriso sapeva portare la sua parola di conforto a qualsiasi creatura umana colpita da sciagura o anche umiliata dall'ingiustizia umana. Sembrava che il Redentore che ha creato l'universo avesse mandato Lei come angelo consolatore del nostro paese.
Cara Donna Ciccina camminavate nel paese di Platì meravigliosamente bella e amata da tutti. I vostri comportamenti e la vostra educazione facevano crescere l'amore e il rispetto nell'intera comunità. E proprio per questo, cara Donna Ciccina, se potevate risorgere per un momento e dare uno sguardo
intorno, allora sì che vedevate la grande realtà di un popolo compatto che con le proprie lacrime bagna questo feretro dove giace il corpo della nostra grande dottoressa...»
(Sig. Rocco Zappia)

(dai discorsi tenuti durante le esequie)

Donna Ciccina Portolesi, meglio nota come "a mammina", era la moglie di don Bertinu, mamma di Nino e Tota già ricordati in queste pagine.




giovedì 16 aprile 2020

Federico Fellini I VITELLONI, 1953



A cavallo degli anni ’40 e ’50 sotto la casa dei “Minuri” alla Cresiola c’era un bar in cui si riunivano i giovani uomini della Platì bene a giocare al biliardo o a carte. Era un gruppo di allegri compagnoni, il più vecchio nato nel ’17, gli altri tra il 20 ed il 25. Alcuni erano stati in guerra, altri rimasti a casa perché troppo giovani. Quasi tutti avevano indossato le divise da Balilla in un paese a larga maggioranza fascista. Ma non di politica ci vogliamo interessare quanto di rapporti familiari ed amicali.
Il gruppo era di solito composto dai fratelli Gelonesi, Giannino e Francesco Spadaro, Rosario Caruso, Rosario Demarco, Ciccio Oliva, Vittorio Portolesi (figlio del segretario), Michele Fera e Pepé Gliozzi.
I maggiori animatori del gruppo, grazie alle battute pronte e forse anche per la capacità di organizzare, erano Pepé Gliozzi e Rosario Demarco meglio conosciuti il primo come U Satturi ed il secondo come U professuri Costateja. Entrambi arguti, si prendevano affettuosamente in giro a vicenda come la volta che Pepé comprò un’auto nuova, probabilmente i nuovi modelli dalle forme meno arrotondate, e Rosario commentò: “ti ccattasti a vasca da bagnu”.


A volte salivano sulle auto e se ne andavano verso la montagna portandosi dietro qualcuno dei ragazzini che gravitavano intorno a loro come mio zio Francesco Perri. Qui devo aprire una parentesi: di Francesco Perre o Perri ce n’erano e ce ne sono tanti. C’era u Muzzuni, fratello di mio nonno Peppantoni, che con Pepé Gliozzi lavorò; poi c’era U Nterdettu, cugino di mio nonno; c’era il figlio di Domenico Perri, che emigrò in Australia; c’è mio zio Frank che aveva quasi vent’anni meno di Pepé Gliozzi in seguito emigrato anche lui in Australia. È proprio lui a raccontarmi che Pepé Gliozzi era sempre gioioso, sempre pronto alle battute ed ai divertimenti. Lo caricano quindi sulla loro auto e vanno verso la proprietà del medico Zappia dopo la curva dei Cromatii dove il contadino ha messo dei fichi d’india a rifrescare sotto un getto di gelida acqua di montagna. Si sfidano a chi ne riesce a mangiare di più ed il vincitore è Pepé con una cinquantina.
Organizzarono anche una rappresentazione sacra nel garage, accanto alla villa di Galatti, dove si parcheggiavano gli autobus: Peppino Gelonesi era Gesù, Rosario Demarco vestiva i panni di Giuda, Giannino Spadaro quelli di Pilato.
U Satturi, al secolo Giuseppe Gliozzi, era il terzultimo figlio di Luigi Gliozzi ed Elisabetta Mittiga. Aveva due fratelli maggiori, entrambi sacerdoti, tre sorelle maggiori e due più giovani. Dalle due sorelle maggiori, Rosina e Caterina, Giuseppe ha dei nipoti con cui è affettuoso. Si accovaccia per insegnare a Maria di Caterina a camminare. È lui a scarrozzare Pina di Rosina sul suo scooter o d’estate a portarla a passeggio per comprarle il gelato, ad Ardore, dove va a trovare il fratello Ernesto parroco e la sorella minore Amalia che ospitano la nipote. Lei lo guarda incantata: è così bello lo zio! Le regala dei soldi ogni San Giuseppe quando Pina va a fargli gli auguri.
Pepé Gliozzi era amico di molti senza limiti di età: da Peppe Rinaldo più giovane di venti anni, a Giuseppe Zappia che aveva venti anni più di lui ed era lo zio paterno di Annina Zappia destinata a diventare sua moglie.
Proveniva da una famiglia molto unita i cui componenti potevano sembrare poco calorosi ed invece nelle loro lettere mostravano grande affettività gli uni verso gli altri e verso i genitori.  “Peppino ha rispecchiato il comportamento della madre, donna Bettina. È stato amico e fratello, disponibile con tutti. Era benvoluto in paese perché era un signore con tutti” dice di lui Isabella Zappia figlia del Giuseppe Zappia prima menzionato e cugina di sua moglie Annina. “E sua figlia Marilisa” continua Isabella, “ha preso dal padre e dalla nonna Bettina.”
Quei giovani uomini, che movimentavano la vita di Platì, si sono sparpagliati fra gli anni ‘60 e ’70. Chi molto lontano, chi, come Pepé Gliozzi, a Bovalino in un luogo geograficamente vicino eppure risultato lontanissimo per atmosfera e mancanza di quella rete di relazioni parentali ed amicali che sono distintive di precisi luoghi.
P.S. un grazie a Francesco Perri, Pina Miceli e Isabella Zappia che hanno condiviso i loro ricordi con noi.
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Between the end of the forties and the beginning of the fifties, at the bottom of the house belonging to the “Minuri” in the area called “Cresiola” there was a bar which was the meeting place for the Young men of the middle class in Platì. It was a group of happy going fellows, the older born in 1917, the others between 1920 and 1925. Some had fought in WW2; others had remained home due to young age. Most of them had worn the Balilla uniform in a town with a large majority of fascists. However, not of politics we want to talk, but of family ties and friendship.
The group included the Gelonesi brothers, Giannino and Francesco Spadaro, Rosario Caruso, Rosario Demarco, Ciccio Oliva, Vittorio Portolesi (son of town clerk), Michele Fera and Pepé Gliozzi. Due to their ability to organize and their humorous nature, leaders of the group were Pepé Gliozzi and Rosario Demarco better known as “U Satturi” and “U professuri Costateja”. Both provided with a sparkling wit, they used to fondly tease each other. When Pepé bought a new car, probably a new model with less a rounded shape, Rosario remarked “Did you by a bathtub?”
At times they would get in their cars and drive towards the mountain bringing with them one or two of the kids that hang around them like my uncle Frank Perri. And I must digress a little: there were and there are quite a few Frank Perri or Perre. There was “U Muzzuni” who worked with Pepé Gliozzi and was brother of my grandfather Peppantoni: there was “U Nterdettu”, my grandfather’s cousin; there was Domenico’s son who migrated to Australia and there is my uncle Frank who is about 20 years younger than Pepé Gliozzi and now lives in Australia. He remembers Pepé Gliozzi always cheerful, witty and entertaining. So, he follows them on their trip to a property of Dr Zappia just after the turn in the area known as Cromatii where the farmer has already plunged some prickly pears in icy mountain water.  They challenge each other on who will eat the most and Pepé wins with about 50.
They also organized a mystery play for Easter in a garage, by the house of Galatti, where buses were parked: Peppino Gelonesi played Jesus, Rosario Demarco was Judas and Giannino Spadaro was Pilate.
Giuseppe (Peppino, Peppe or Pepé) known as “u Satturi”, was the third to last child of Luigi and Elisabetta (née Mittiga). He had two older brothers, both priests, three older sisters and two younger ones. Giuseppe had a loving attitude towards the nieces and nephews, children of his older sisters. He squats to help Maria (Caterina’s daughter) take her first steps. He drives Pina (Rosina’s) daughter around on his scooter and, when Pina spends her summer in Ardore, with Uncle Ernesto who is the parish priest there and Aunt Amalia, drops in for a visit and takes her out for ice cream. Pina looks at him in awe: he is so handsome! On saint Joseph day she always wishes him a happy name day receiving a money gift from him.
Pepé Gliozi had friends of any age: from Peppe Rinaldo who was 20 years younger to Giuseppe Zappia who was 20 years older and uncle to his wife to be, Annina Zappia.
He was born in a close knitted family whose members might have seemed not very warm while, on the contrary, in their correspondence show love and affection towards each other and their parents. “Peppino mirrored the behaviour of his mother, donna Bettina. He was a friend and a brother, always helpful to all. He was beloved in town because he was a real gentleman” states Isabella Zappia daughter of above-mentioned Giuseppe and cousin to wife Annina. “And his daughter Marilisa” goes on Isabella, “has taken after her father and her grandmother Bettina.”
Those young man who animated life in Platì scattered during the sixties and seventies. Some very far away, some, like Pepé Gliozzi, in Bovalino, a place geographically close but still very far for atmosphere e for the lack of a network of friend and family relationships which are unique to a given place.
P.S.L thanks to Francesco Perri, Pina Miceli and Isabella Zappia who have shared their memories with us.
ROSALBA PERRI




In apertura Ciccillo Gliozzi e Nino, di don Bertinu, Pepè Gliozzi e Pina Miceli, al centro Frank Trimboli and Frank Perri. In finis, sul balcone in corso San Nicola: Pepè, Annina e  Isabella Zappia, Mimmo Priolo, Fina/Gemma, Amalia, Mimì Galatti in Zappia.

mercoledì 15 aprile 2020

Provincia segreta [di Francesco Massaro, 1998]

Nella primavera del 1957 si costituì un Comitato per elevare Locri a capoluogo di una provincia con 42 Comuni che aveva i confini a nord con Monasterace ed a sud con Palizzi, il mar Jonio e l'Aspromonte i restanti limiti. Platì e la sua area rientravano di buon diritto nella vagheggiata provincia.


GAZZETTA DEL SUD 11 aprile 1957

martedì 14 aprile 2020

Insalata russa [di Yuri Mamin, 1993]


L’attru jornu a Roma

Bonprudu mu vi faci
Tuttu ju beni i Ddiu
chi l’attru jornu a Roma
nta na pansa si ndi jiu

Antipasti, nsalati
di Russia e nostrani:
jiccàttivi, fitenti!
(nui ndi jiccamu i mani)

Mbivistivu lu vinu
di Bova e Cannunà
e all’urtimu mbrindastivu
cu chiju di Frascà(ti)

Però sbagghiu facistivu,
non ndavistivu metru
quandu vui vettijastivu
nu cunigghiu pa lepri


Giuseppe Gliozzi

venerdì 10 aprile 2020

La via della gloria [di Carol Reed, 1942]



ECHI DELLE CELEBRAZIONI PASQUALI NEI COMUNI DELLA PROVINCIA REGGINA
La passione di Cristo rivive ogni anno
nella mistica tradizione dei Calabresi

A PLATI'

Platì, 14 aprile
Quando il Signore girava per il mondo seminando i paesi, i mari, i monti, presso Platì, dove aveva piazzato un immenso «serro». Gli cadde dal sacco un granello di «Monte boscoso». Il Signore non se ne accorse e continuò il suo cammino; ma dal granello sorse una tozza, impervia montagna di circa quattrocento metri d'altezza, tutta ricoperta da una fitta selva di ulivi e di rovi intrecciati.  
La montagna, che si trova all'ingresso, di Platì e si nota subito in mezzo alla macchia gialla ed uniforme del «serro» rimasta presso a poco come la lasciò Nostro Signore, date le insuperabili difficoltà che si incontrerebbero nella coltivazione del suo fondo prevalentemente granitico.
Essa si anima soltanto per un giorno dell’anno: il Venerdì di Passione, quando per le stradette scoscese e per i dirupi si snoda la lunga processione che riproduce l’ascesa di Cristo al Calvario.  
Calvario è infatti la denominazione ufficiale della montagna; e sulla sua sommità si stagliano contro il cielo tre grandi croci nere.
Il Venerdì di Passione è dunque l'unico giorno dell'anno, in cui centinaia di persone si arrampicano, per una mistica tradizione, lungo i fianchi del monte Calvario; precede la processione una fitta schiera di fotografi dilettanti, armati di macchine di ogni genere: obiettivi di ogni specie, dai semplici ai grandangolari, fissano l’immenso pittoresco corteo in centinaia di fotogrammi che verranno spediti ai platiesi disseminati nelle varie regioni del mondo come ricordo graditissimo della loro terra.
Si parte dal paese alle sette circa; un uomo vestito di bianco, curvo sotto il peso di una enorme, autentica croce di legno (che trascinerà da solo e senza esitare durante tutto il faticosissimo tragitto) rappresenta Gesù condotto al Calvario; Quest'uomo cadrà per tre volte, durante il viaggio in tre punti del «serro».
Segue la pesantissima bara che contiene una artistica statua in grandezza naturale, di Cristo Morto. Non stupisce il fatto che gli uomini sopportino l’enorme peso di questa bara, ma il fatto che la portino con disinvoltura e senza incidenti fino in cima alla montagna attraverso sentieri strettissimi e rocciosi per i quali riesce a malapena a passare una sola persona; sembrerà anche curioso il fatto che si portino al Calvario e il Cristo vivo e quello morto. Ma, la processione è solo simbolica e giustifica pertanto questa specie di «Contaminazione» tra due momenti affatto differenti.
Seguono il corteo le statue della Madonna e di San Giovanni; viene infine la folla immensa dei fedeli, dei curiosi e dei forestieri in cerca di emozioni artistiche.
Dopo circa due di cammino si arriva sulla sommità del monte. Una breve sosta e si ritorna indietro.   
La cerimonia e finita verso mezzogiorno del Venerdì di Passione, il monte Calvario è di nuovo deserto, con le sue croci nere che si tendono verso il cielo.
Michele Fera
GAZZETTA DEL SUD, 15 aprile 1955


giovedì 9 aprile 2020

Chacun son cinéma [AA. VV., 2007]

Lo zio Pepé è a pieno titolo uno dei protagonisti di queste pagine. Ecco una selezione dove lo si può trovare:

Heart of Darkness (reg. Nicolas Roeg - 1994)
La recluta (reg. Clint Eastwood - 1990)
https://iloveplati.blogspot.com/2013/10/la-recluta-reg-clint-eastwood-1990.html
Novecento (reg. Bernardo Bertolucci - 1976)
Preparate i Fazzoletti ( reg. Bertrand Blier -1978)
https://iloveplati.blogspot.com/2011/04/preparate-i-fazzoletti-reg-bertrand.html
https://iloveplati.blogspot.com/2011/04/on-road-to-freedom-alvin-lee-mylon.html