Vagando in questo mondo di fantasmi, passai da-vanti al ristorante dove
avevo gustato il pesce-spada, ora ridotto a un cumulo di pietre e di calcinacci, e giunsi alla cattedrale. Di essa non rimangono che le figure gigantesche che sovrastano l’altare, futilmente benedicenti il
caos: insensate, terrificanti. Questa è dunque la casa della feudale Signora
del fortiter in re, che inviò un
terremoto e lo chiamò Amore. Amava l'oro e le pietre preziose come tutte le
donne, e il suo favoloso tesoro fu ricuperato insieme a una copia di una
lettera latina da lei inviata ai cattolici di Messina per mano di San Paolo.
E poco dopo, non so davvero come in quella confusione, i miei passi
volsero in direzione di una strada assai stretta con le rovine di un palazzo
recante, sull'ampio portale d'ingresso smozzicato, un' iscrizione che mi fece
sobbalzare. Era un titolo storico che mi era familiare; e subito rivissi un
susseguirsi di ricordi sonnecchianti nel profondo della mia mente. Sì, non c’era
alcun dubbio: il vecchio «proprietario ›› e i suoi nipoti, quelli del giardino
pubblico. . .
Mi chiesi quale fosse stato il loro destino in quella fredda alba
invernale. È assai improbabile che, in quello spazio così ristretto, qualcuno
sia riuscito a salvarsi: le macerie, ancora intatte, coprivano i loro resti.
Fu ricordando il vecchio e la sua pacata conversazione di quella sera,
sotto gli alberi, che il vero significato della catastrofe cominciò ad affiorare
in me dai suoi aspetti accidentali e superficiali. Devo confessare che il
massacro di una miriade di cinesi mi lascia freddo: fra noi e quelle creature
c'è poco più del fragile legame di comune discendenza dalla scimmia; sono troppo
lontani in tutti i sensi per la nostra comprensione ristretta. Ma questi
italiani sono nostri cugini spirituali: abbiamo radici profonde in questa calda
terra d'Italia, che ci ha dato una buona parte di ciò che costituisce il meglio
della nostra vita, della nostra arte, delle nostre aspirazioni.
Pensai ai due nipoti, alle loro giovani membra maciullate e distorte
sotto un cumulo di vile spazzatura, in attesa di un brutale dissotterramento e
di una tomba senza nome. Questa omicida violazione della vita non può
considerarsi legittima morte. Immaginare un bel corpo giovane, divino strumento
di gioia, ridotto a un informe mucchio di carne; un tempo amato, ora aborrito
da tutti, e infine gettato con disgusto in una fossa comune brulicante di
vermi. . .
Un tipo nordico - ecco di nuovo un valido legame, un legame di sangue,
questa volta, fra la nostra razza e quei sovrani del sud, le cui imprese in questa terra di aranci e di
mirto superarono ogni fantasia romanzesca.
Senza l’effimera amicizia stretta quella sera, la Messina di oggi
sarebbe forse stata per me poco più di un semplice spettacolo e l'ecatombe dei
suoi abitanti non mi avrebbe strappato che un convenzionale sospiro di compassione. Siamo fatti così. Il cuore umano è stato costruito su basi
che mancano di generosità. I moralisti (se pure ne esistono ancora) potranno
generalizzare con eloquenza, riferendosi alle masse; ma i nostri poeti si sono
da tempo arresi al pathos dell'individuo singolo. Si dice che persino gli
angeli del Cielo si rallegrino maggiormente per un solo peccatore pentito che
per cento giusti; il che, se giustamente inteso, non è che un'applicazione
dello stesso principio illiberale.
Una corda di lenzuola annodate era legata a una delle finestre
superiori, con l'estremità penzolante a mezz'aria, all’altezza del secondo
piano. Sono precauzioni che si prendono spesso a Messina - disperatimezzi di
salvezza. Alcuni vasi di gerani e di cacti, tristemente in fiore, adornavano le
altre finestre dai vetri intatti. Se non fosse stato per la sinistra luce del sole
che le attraversava «dall' interno ››, la facciata sarebbe parsa quasi illesa.
Ma l”imponente ingresso attraverso il quale avevo sperato di entrare era
ostruito da macerie e fui quindi costretto a compiere una piccola scalata per
portarmi nel cortile.
Se una lama gigantesca avesse tagliato il palazzo per il senso della
lunghezza, l”operazione non sarebbe potuta riuscire con maggior precisione.
Tutto l'interno era crollato, ad eccezione di una parte delle stanze che davano
sulla strada, tranciate in due così da rivelare una sezione ideale di economia
domestica. La casa, coi suoi inquilini e tutto quello che conteneva, giaceva fra le alte macerie sotto ai miei piedi - grandi
frammenti di muro cosparsi di calcinacci e inframmezzati da sbarre di ferro che
si contorcevano in superficie o si tuffavano tetre nel profondo. Nelle macerie
si aprivano fetidi squarci dai cui fianchi affioravano vasi rotti, candelabri,
cappelli, bottiglie, gabbie per uccelli, quaderni, tubi, divani, cornici,
tovaglie e tutto il banale armamentario della vita di ogni giorno. Nessuna stratificazione:
né orizzontale, né verticale, né obliqua. Sembrava che gli oggetti fossero
stati gettati in aria da un vulcano in vena di scherzi e lasciati depositare a
caso. Due immensi blocchi di marmo intagliato (il primo disteso sul fondo di un
burrone in miniatura, il secondo fieramente ritto come un monumento druidico) mi
ricordarono l”esistenza delle scale, delle diaboliche scale.
Alzai lo sguardo nel tentativo di ricostruire le abitudini degl' inquilini,
ma dovetti rinunciarvi quasi subito, l'unica sezione rimasta non essendo
sufficientemente profonda. Il loro colore preferito doveva essere l'azzurro
cielo. La cucina era chiaramente individuabile col suo focolare, la cassetta
del carbone, i tegami di rame appesi in fila ordinata e la credenza aperta, piena
di utensili. La stanza adiacente (le porte di comunicazione erano scomparse),
con tendine di pizzo alle finestre, possedeva ancora un tavolo, una lampada e
un libro, mentre la spalliera di un letto stava in precario equilibrio sull’abisso.
Una terza stanza, ricca di tappeti e di quadri, rivelava un grande specchio
sbiadito sotto al quale correva una fila di scaffali, gementi sotto il peso di
una nutrita collezione di flaconi e di fiale.
I linimenti del vecchio . . .
FINE
Norman Douglas, Old Calabria