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sabato 26 aprile 2025

La forma dell'acqua [Guillermo del Toro, 2017]

IN CALABRIA È TORNATA LA PIOGGIA
La tragica sorte di Platì
un paese destinato a sparire
E come Platì, spariranno sotto le frane Mammola, Caulonia, Grotteria, Africo e anche S. Caterina d’Aspromonte se non si iniziano lavori di grande portata. 

DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE

 REGGIO CALABRIA, 7

  Per farsi un’idea dei disastri che l’alluvione ha provocato in Calabria, bisogna andare a Platì.
  Non è facile raggiungere, Platì un piccolo presepio di seimila anime a trecento metri sul mare, e annidato in una gola di montagna, ma è interessante andarvi, prima perché, come vi dicevo, i danni dell’alluvione sono stati, in questa zona enormi, poi perché a Platì, come in tutti questi paesini di montagna, che vivono sempre nel tragico presentimento di una sciagura, si trova la Calabria, la più semplice e la più rude, quella che in fondo è la più vera e dove il tempo pare si sia fermato in una estatica contemplazione degli avvenimenti i quali si seguono per loro conto senza che queste popolazioni si affatichino a rincorrerli.
  Andiamo dunque a Platì. Il treno ci porta sino a Bianconovo. Da Bianconovo a Bovalino – 9 chilometri – la linea è interrotta per il crollo del ponte.
  Nei primi giorni si trovavano pronti a Bianconovo dei camion e dei calessini che si incaricavano di eseguire il trasbordo, non avendo le ferrovie dello Stato provveduto ad istituire un qualsiasi mezzo che raccogliesse i viaggiatori; ma da qualche giorno un povero diavolo, più per bisogno di fare qualche soldino che per amor del prossimo, ha tirato fuori da chissà mai quale deposito di cose fuori in uso, un vecchio arnese che un tempo doveva esser stata una corriera. Del resto date le condizioni della strada che bisognava percorrere essa è ancora in buono stato.
            Spettacolo desolante
  La corriera ansima, traballa e pare che voglia rovesciarsi ad ogni scossa. Ai lati lo spettacolo comincia a diventare desolato: le campagne sono ridotte ad un letto di torrente e, in qualche punto, il rilevato stradale è stato asportato dalle impetuosità delle acque. Il Genio Civile ha provveduto a costruire due passerelle ma esse non sostengono più di tre tonnellate per cui per rendere più variato il viaggio, bisogna scendere dalla corriera due volte e fare, per due volte, qualche centinaio di metri a piedi, cercando di evitare i materiali di risulta ed il fango che vi giunge sino alle caviglie.
  Giunti a Bovalino i viaggiatori che debbono proseguire per Taranto trovano, quando Dio vuole, un treno; ma per Platì che è nell’interno non c’è altro mezzo che scegliere che l’automobile. Ed anche qui bisogna raccomandarsi a Dio e all’autista perché la strada è spesso interrotta da frane ed i monti che la fiancheggiano hanno tutta l’aria di voler, da un momento all’altro, giocare un brutto scherzo, che potrebbe essere per esempio quello di lasciarvi cadere sulla testa dei grossi sassi che sembrano a stento sostenuti dalla roccia.
  A Platì troviamo, come accade in tutti i disastri qualcuno che è sempre pronto a fare da guida e ad enunziare le distruzioni.
  Più che il dolore in questa gente ciò che colpisce è la prostrazione. Platì ha il triste primato dei morti: 15 su 85 che si sono avuti in provincia. La nostra guida ci mostra il torrente che ha operato tanti danni: un filo di acqua che scorre ribollendo tra il fango e le pietre. La gente di Platì si chiede come sia stato possibile ad un torrente così magro e di solito tanto tranquillo di infuriarsi in quel modo: eppure è un fenomeno naturale di questi torrentelli a breve corsi in pendio rapidissimo.
  Essi si impennano in un baleno e già dalle sorgenti prima di defluire a valle acquistano una violenza spaventosa così da riversare milioni di metri cubi di acqua nell’alveo che poco prima era asciutto o percorso da un rigagnolo.
  In tal modo si spiega come in queste alluvioni vi sono stati dei contadini che, mentre attraversavano col somarello il torrente ancora asciutto, investiti dalla furia delle acque non hanno fatto in tempo a salvarsi e sono annegati: perché data la tortuosità di questi torrenti e la rapidità con la quale si sono ingrossati, quei contadini hanno avuto sentore della piena quando essa era già vicinissima, come se d’improvviso si fossero spalancate due paratie e, nel loro varco fosse apparso l’enorme mostro delle acque che si avviava verso il mare. Qui usano chiamarla le «teste del torrente» ed esse sono caratteristiche dei fiumi del torrente.
          Case nel fango
  Se ci guardiamo intorno vediamo il paese o la parte del paese che è rimasta in piedi non sono che povere cose che stringono il cuore, e interamente circondate dal fango: il fango subito dopo l’alluvione era così alto che non permetteva di entrare nelle case.
  Ora nel paese il fango è stato in gran parte rimosso ma dove erano i seminati nessuno ha pensato di toglierlo. Sarebbe una pazzia il tentarlo; il fango ha inghiottito tutto: agrumeti, frantoi, un oleificio di cui non si vede più nulla; anche una piccola centrale elettrica che era stata costruita ad opera di un privato è andata distrutta ed il paese è rimasto al buio.
  Tra qualche ora mentre le ultime luci avranno abbandonato la valle, Platì non avrà più nulla che ricordi la vita.
  Anche il sonno dei morti a Platì non è stato rispettato: il mostro delle acque ha attraversato il Cimitero, lo ha sommerso e quando l’acqua si è ritirata si sono visti – o spettacolo pieno di orrore – tibie, femori, crani che la corrente portava alla deriva; e i vecchi resti umani si mescolavano ai morti recenti. Oggi la pietà dei rimasti ha tentato di ricomporre le loro povere ossa nei loro avelli.
  E questa è la tragica sorte di Platì un povero paese che come Mammola, come Caulonia, come Grotteria, come Africo, è destinato a sparire dalla faccia della terra   perché sotto di lui il terreno frana e slitta verso una corsa paurosa alla morte: ed è la sorte di S. Caterina d’Aspromonte che, oltre ad avere perduto l’acquedotto, ha avuto quasi tutte le case distrutte ed è sotto l’incubo di due frane che minacciano l’abitato: la sorte di Condofuri anch’essa in pericolo per una frana: la sorte di tante piccole frazioni dove, se ricomincerà a piovere, comincerà a farsi sentire il pericolo dei torrenti in piena. È una situazione che di giorno in giorno appare più angosciosa e allarmante.
 Da Roma giungono notizie sul fervore col quale si formulano progetti e disegni di legge, decisioni e programmi; ma i calabresi alzano le spalle. È un pessimismo indubbiamente non giustificato o per lo meno prematuro. Ma come volete dare la croce addosso a questa gente se sorride sentendo parlare di miliardi che saranno spesi per la Calabria? Il calabrese non conosce la ribellione: secoli di sottomissione lo hanno abituato ad essere cupamente rassegnato, ma non apre facilmente il suore alla speranza. La sua stessa storia gli ha insegnato a non credere al dilà di ciò che vede e tocca con mano.
            Si aspetta un miracolo
 Ed allora? Solo un miracolo potrà rendergli la fiducia, la speranza che i suoi paesi saranno assicurati stabilmente alla terra ed i fiumi apporteranno prosperità, invece di essere un pericolo di morte; e il terreno tornerà ad essere umido ed acre e idoneo a ridare i suoi frutti. Questo miracolo sarà possibile se il problema della Calabria sarà guardato con occhio diverso e con decisa volontà d avviarlo alla soluzione. Io ricordo di aver veduto lasciando Platì, due donne che scendevano a valle. Si erano caricati sulle teste, ciascuna di esse, un materasso ed una coperta e camminavano l’una rasente l’altra con la stessa grazia che, di solito, si riscontra in loro quando tornano a casa portando le anfore e cantando. Lasciavano il paese ed andavano a chiedere un posto per dormire a chi aveva la fortuna di possedere una casa. Si sono fatte appena da parte per lasciar passare la nostra automobile ma non si sono nemmeno voltate ed hanno proseguito senza chiedersi se da noi potesse venire loro un aiuto.
 Questa tragedia di sentirsi soli è il grande sconforto nel quale gli uomini possono cadere. Ma, purtroppo. È una realtà in questi paesi che non hanno più niente che li avvicini alla vita; dove nemmeno il sonno dei morti è rispettato ed anche l’acqua, questa grazia di Dio che dovrebbe essere la ricchezza dei paesi, si trasforma in un castigo.
 Questa sera ha ricominciato a piovere e la pioggia, se dovesse durare, renderebbe più angosciosa la situazione dei paesi colpiti; la situazione soprattutto degli sfollati ai quali non si è potuto dare, né si potrà dare per adesso, una sistemazione conveniente:
          Vittorio Ricciuti
IL MATTINO, 8 novembre 1951


Questo pezzo, già citato da Toto Delfino*, lo devo alla solerzia di Salvatore Carannante, che si è presa la briga di andarlo a stanare presso la sede de IL MATTINO a Napoli.

 *https://iloveplati.blogspot.com/2011/10/have-you-ever-seen-rain-creedence.html

    https://iloveplati.blogspot.com/2018/09/riders-on-storm-doors.html




 

lunedì 3 luglio 2023

LA SCOPERTA [di Elio Piccon - 1969]



Bianco: scoperti preziosi mosaici
In una villa romana sulla “106”
 
Interessantissimi lavori di decorazione stanno per venire alla luce 
in una diruta costruzione lungo la statale jonica, nei pressi di Bovalino – 
Il parere degli esperti
 
(Nostro servizio)
BIANCO, 9
Malaria, terremoti e saraceni furono ali antichi nemici dell'archeologia jonica. Quelli attuali sono gli archeologi! Dagli inizi del secolo ad oggi c'è stata una involuzione. La archeologia da trincea, allo aperto, ha ceduto il passo a quella da caminetto, da poltrona. La ricerca metodica, sistematica e scientifica non esiste. Le più recenti e sensazionali scoperte sono frutto del caso. Fenomeni di erosione che scoprono ruderi o lavori di scavo per opere pubbliche. Il teatro greco di Locri è stato scoperto per caso. Un gregge di pecore belava sotto gli ulivi. Una acustica eccellente riproduceva perfettamente i belati. Si scavò. Sotto c'era la cavea del teatro greco.
L'anno scorso sulla provinciale per Portigliola, nel demolire una vecchia casa, venne alla luce l'antica porta di Locri, da dove entrò Annibale. Non si fece più nulla. Da anni sulla statale jonica 106, tra Bovalino e, Bianco c'era un vecchio rudere. Il prof. De Franciscis disse che si trattava di una villa rustica o suburbana. Il muso di una scavatrice portò alla luce splendidi mosaici. Si lavorava per l’acquedotto del Bonamico. Pochi operai furono preposti allo scavo e, finiti i fondi, gli ambienti già scoperti vennero di nuovo sotterrati. Un fare e disfare vergognoso. Da pochi giorni il lavoro è ripreso, ma finirà venerdì. Splendidi mosaici sono venuti alla luce. Un mosaico perfetto che denota un grado di alta perfezione.
Un operaio con un fascio di lentischi toglie la sabbia ed appare una figura femminile a cavalcioni di un leone, un pampino e poi un'altra figura incerta. In un altro ambiente è possibile notare un sole, dai raggi a coda di pavone, mentre vicino alla piscina, sono disegnati grandi rosoni. Ci troviamo di fronte ad un grande complesso che si estende per circa 4.000 metri quadrati, dalla riva del mare alla collina, sovrastante di argilla. Secondo il parere degli esperti, la villa risale al I secolo avanti Cristo, rifatta poi nel periodo della decadenza.
Si trattava certamente di un ricco signore, dal livello di vita elevato. Certamente ci sarà pure il lato rustico per la numerosa servitù. La sistemazione definitiva della villa romana porterà un contributo notevole alla conoscenza della storia economica della Calabria, di un periodo molto oscuro. In questi ultimi anni sono state fatte molte scoperte. Soprattutto nella piana di Sibari, a Castrovillari ed a Gioia Tauro. Ma il ritrovamento di contrada Palazzi può ricostruire fedelmente la topografia delle ville romane esistenti in Calabria, ed appartenenti allo stesso periodo.
La decorazione pavimentale è perfetta. Molte suppellettili sono venute alla luce in un cunicolo, accanto a resti umani, qualche moneta indecifrabile e una decorazione parietale. Le cose trovate sono state portate al museo di Reggio. Gli archeologi del passato sono andati sempre alla ricerca di pezzi per fare belli i musei di mezzo mondo o per le collezioni private di ricchi mecenati. Mai si è pensato di riportare fedelmente alla luce un intero complesso lasciando sul posto i pezzi ritrovati. Portati lontano dal luogo della scoperta parlano un linguaggio diverso. Pochi operai lavorano agli ordini di un assistente. Una studentessa universitaria reggina prepara «in loco», una tesi sulle ville romane in Calabria.
Non poteva scegliere un posto migliore. Un dilettantismo archeologico che fa paura. Non fotografia aerea o rivelatore elettro-magnetico, non analisi chimica del suolo o metodologia geofisica, ma piccone e badile. Colpi secchi nei ruderi e carriole piene di detriti luccicanti al cocente sole. Venerdì il cantiere archeologico finirà di lavorare ed i mosaici saranno ricoperti da nuovi detriti. Non ci sono fondi. L'assistente tornerà a fare il custode del museo, la studentessa tornerà tra i libri e gli operai, sputando nelle palme delle mani, inizieranno nuove fatiche. Questa è l’archeologia jonica.
IL TEMPO, 10 settembre 1965

In apertura Antonio Delfino con Mons. Michele Alberto Arduino e tanti altri volti noti.
 

mercoledì 19 aprile 2023

Gioventù bruciata [di Nicholas Ray - 1955]




Ricordo Pasqua 1956

1-Toto Delfino
2-Pino Prochilo
3 Zappia Pasquale
4-Spadaro Mario
5-Romeo Umberto
6-Zappia Rosario
7-Delfino Francesco
8-Zappia Rosario
9-Renato Castorina
10-Zappia Filippo
11-Prochilo Virgilio

Foto: ASGMZ Archivio Storico Gliozzi-Mittiga-Zappia
 

lunedì 10 ottobre 2022

Voci da Platì [di AA. VV. - 2022]

 


La pubblicazione di VOCI DA PLATÌ non sarebbe stata possibile senza il basilare contributo di Elisabetta Siotto redattrice e Irene Piras Art director.
TO BE PLAYED AT MAXIMUM VOLUME

sabato 11 settembre 2021

Faccia a faccia [di Sergio Sollima - 1967]


IL PASSERO

A Vocale era andato a cercarlo e poi al passo della Cerasara, nelle foreste della Ruffa e tra le pareti incassate del Duverso. Finalmente l'aveva preso.
Con i ceppi ai polsi lo portava verso il paese mentre la nebbia salendo dal Buonamico rendeva Pietra Longa come un punto esclamativo in un mare di nuvole.
Il Passero era un temibile ladro. Intere mandrie di pecore e capre sparivano tra le grotte di Calivia ed i fianchi di Pietra Cappa. Il versante orientale dell'Aspromonte era una groviera. Non si trovava traccia. Da solo teneva a bada branchi di cani selvaggi. Era imprendibile. I pastori lo scambiavano per il lupo Cola e gli lanciavane tizzoni ardenti quando si avvicinava agli stazzi. Con i ceppi ai polsi sperava ancora di farla franca. Verso i piani di Carrà, il sentiero diventava stretto, tortuoso e tra gli arbusti di erica arborea s'intravedevano le donne sul greto bianco del torrente a raccogliere legna.
Sembravano tante formiche. Ad un certo punto il Passero disse: «Brigadiè, io soffro di vertigine. Ho paura del vuoto. Fatemi passare dall'altra parte». Fu subito accontentato. Ad un certo punto dove il pendio era più ripido, con un balzo felino diede uno strattone al brigadiere. Ed avvinti finirono in fondo al burrone. Massaro Peppe restò stordito e contuso. Il Passero prese il volo, convinto che il brigadiere fosse morto.
E giunto sul ciglio del burrone gli gridò; «ora si ca tu 'mbarri 'u pani du guvernu! (Ora si che t'abbuffi del pane dello Stato)». Il Passero prese la via, per Natile a cercare Beniamino lo zoppo nella vecchia forgia di novello Vulcano. Liberò il Passero dai ceppi mettendolo in libertà provvisoria. A San Luca arrivarono decine di carabinieri. Ed il medico Fera con l'arciprete Giorgi si trasferì in caserma più per l'immancabile tressette che per le cure dell'ammalato. Massaro Peppe, pesto ed ammaccato, trascorreva le giornate in caserma a guardare lo sterminato greto della fiumara di Buonamico che spuntava dietro la collina del Saracino. Mangiava poco. E la fidata Caterina quando sentiva il banditore che annunziava la vendita di carne a basso macello perché una vacca era caduta in un burrone, si precipitava dal Puglisi. I cani randagi stavano acciambellati davanti alla porta balzando ogni volta che qualche lembo di carne si liberava dai fili di ginestra dove era legato. Non c'era carta da avvolgere. Molti pastori con la scusa di parlare di armenti si attardavano nella macelleria del Puglisi per avere notizie del Massaro Peppe. Ed il macellaio in un dialetto forestiero si abbandonava ad espressioni tranquillizzanti. «Non mangia nenti. 'Ncuna nticchia i ficatu. E malanova mavi. Chimmu moriva! (Non mangia niente. Un pò di fegato. Che avesse maledizione. Dovrebbe morire)». Era la fibbia o l’imbasciata per i latitanti che potevano rientrare in paese per un pò di riposo.
Massaro Peppe sapeva tutto e dal terrazzo mandava in aria ampie volute di fumo dall'immancabile pipa. Erano segnali di guerra.
La sera di Natale il Passero forte delle notizie avute dal Puglisi era alle prese con una montagna di maccheroni avvolti da ricotta salata. Dal vico della Pivula si udì il suono di una zampogna. Quando lo zampognaro fu davanti all'uscio del Passero modulò le prime note della novena di Natale. L'uscio si apri ed il boccale di vino apparve la Colt.
«Cicco, andiamo» - disse Massaro Peppe.
«Aspettate che finisca i maccheroni», fu la risposta.
Il Passero fu accontentato!
Testo e foto di Antonio Delfino

 


mercoledì 14 aprile 2021

Una colt in pugno al diavolo [di Sergio Bergonzelli - 1967]

… forse ti sta di fronte e non lo riconosci – perché sorride come un ANGELO … ma dagli in mano una colt .. ed è il DEMONIO (iscrizione posta in testa al film in questione)


IL DISERTORE

Un vento gelido di tramontana s‘infilava tra le gole dell’Agonia rendendo il paese deserto. Un tempo da lupi. Soltanto un frate cercone con la patacca di ottone dei Santuario della Madonna della Montagna si aggirava per le vie selciate trascinando una paziente mula.
Le donne si affacciavano sui mignani avvolti in lunghi scialli. Si sapeva che da qualche giorno era in giro per la raccolta dell’olio un frate dalla barba alla nazzarena. Non si era mai visto da quelle parti. Era stata un’annata piena di olive. Olive dappertutto. Da Santa Varvara al Crasto, Livia ed Arcopio. In un’otre sdrucita veniva raccolto l'olio votivo. La sera qualche donna misericordiosa portava nella stalla cibarie dove frate e mulo erano accampati. Dalle tegole ogni tanto una stilla gelida d'acqua colpiva il frate. Un frate strano. Non era petulante e querulo. Di rado ringraziava per tanta provvidenza. Frate e mula erano scesi dal Santuario lungo l’impetuoso torrente superando la stretta di San Gianni in bilico tra due tronchi di pino fasciati da giunchi. Noi dalle rocche di San Pietro tra sterminate pietraie abbellite da ginestre, tamerici ed oleandri, sino a Cirella. Già alle sette nell'ufficio postale, in un acre odore di ceralacca, la direttrice Monoriti sigillava il sacco della posta per il procacica che scendeva a piedi sino alla marina di Ardore per consegnarlo al treno per Reggio. Con due colpi di nocche delle mani sul vetro della porta, il frate si fece aprire chiedendo un obolo per la Madonna di Polsi.La direttrice una donna devota, mise una moneta nella cassetta delle elemosine e baciò la sacra immagine. La pace sia con voi — disse il frate. Si rimise il cappuccio sulla testa e sotto una fitta pioggia rimase in attesa di altri devoti.
Sono le otto precise quando da un vicolo sbuca un cavallo montato da un uomo aitante con un moschetto a tracolla su una pellegrina d’ orbace. E’ guardingo. Lega il cavallo ad un anello sul muro butterato del vecchio palazzo del principe di Carafa e si avvia nell’ufficio postale.
Chiede di ritirare alcune migliaia di lire da un libretto di risparmio ed esibisce un documento. In un baleno il frate sornione si ridesta e tira da, sotto li mantello la Colt. «Non muoverti — dice — altrimenti ti ammazzo. Sono il brigadiere Delfino».  La signorina Monoriti si fa il segno della croce e poi chiede il rimborso dell'obolo dato per la Madonna di Polsi dicendo che avrebbe provveduto ad inviarlo direttamente al Priore del Santuario. Era un disertore, autore di omicidi, rapine ed angherie d’ogni sorta. La 'ndranghita aveva già preparato il passaporto attraverso un agente marittimo di Messina per farlo espatriare in America. Era in partenza da Napoli ed atteso a Broccolino. Con le mani legate dietro la schiena ed in groppa alla mula del Santuario, il disertore fu condotto a Gerace Marina.
Lungo il tragitto i passanti assistettero ad una scena da film western. Al carcere di Gerace marina la guardia non voleva aprire, poi si convinse. Massaro Peppe in abito monacale si presentò al tenente per annunziare l’arresto. All'incredulo ufficiale fu esibita la ricevuta del carcere.
ANTONIO DELFINO

La foto in apertura, a Polsi, è di don Totò Carannante.
Una nota per i curiosi di pellicole retrò: nel film citato la canzone finale è cantata da Mino Reitano su tema del Maestro Gian Piero Reverberi, grande compositore che ha affiancato altrettanti grandi cantanti, qui riecheggiante ... scopritelo da soli da quanto segue

martedì 9 marzo 2021

Il cavaliere implacabile [di Allan Dawn- 1954]


Il cavaliere Trifala, podestà del paese teneva banco al circolo dei nobili. La serata afosa aveva riversato sul marciapiede i radi e scelti avventori assisi su seggiole di vimini. Nel circolo era rimasto soltanto Scevola a preparare scirubette di neve con sciroppo di more. La neve l’aveva portata Mico Scampagno dalla niviera di Misafumera con la mula bizzarra a cui aveva legato sulla coda un fiocco rosso come segnale... stradale. Con una scalciata, Don Matteo, guardia campestre era stato messo al tappeto. Ora, alla fine di una avvampata controra, usciti da palazzi patrizi si trovavano seduti a semicerchio a parlare dei destini della patria e della mosca olearia. 
In paese si respirava un clima diverso. 
I primi reduci erano tornati dalla prigionia. Si formavano le camere del lavoro e monsignore, con l’eterno cappello a tre spicchi con pompon viola, organizzava l’azione cattolica. Quella sera al circolo, come d’incanto, c’erano tutti. Il vecchio conte declassato dai pignoramenti e dalla sifilide, Don Giacinto lo speziale che preparava purghe su ordinazione anzi su prescrizione del cavaliere Trifala. Una vecchia radio «Allocchio Bacchini», grande come un armadio gracidava bollettini di guerra mentre mastro Pasquale l’anarchico dall‘altra parte della piazza al numero degli aerei dell’Asse abbattuti ripeteva sul filo delle labbra; pochi, sempre pochi! Trifala teneva conversazione. Amico di un grosso gerarca era diventato il despota della zona. I rapporti aumentavano ogni giorno sui tavoli dei gerarchi ed i comandanti la stazione dei carabinieri duravano lo spazio di un mattino.
Di notte andava personalmente a controllare in una fetida baracca di ex terremotati del 1908 due operai antifascisti piombati dal nord per il soggiorno coatto. A Reventino fu destinato Massaro Peppe. Le lettere anonime infoltivano il tavolo. I carabinieri non avevano tregua.
Ma quella sera afosa d'agosto dal vicolo delle Monache sbucò un uomo mascherato che assestò con un nodoso bastone un preciso fendente sul capo di Trifala. 
La testa si apri a melograno. Un fuggi fuggi generale. Il vecchio medico Zucco mentre iniziava a suturare le ferite fu interrotto dall'arrivo di Massaro Peppe che provvide a reggere il lume a petrolio tra i lamenti del cavaliere.
In paese la notizia si sparse come un baleno. II commento più benevolo era «finalmente hanno rotto la cornatura al cavaliere». I giovani avanguardisti con il fazzoletto azzurro ed il medaglione con la scritta «se avanzo seguitemi» tennero un raduno dopo aver riempito le
giberne di frutta rubata nell’orto del povero Ceo. Mastro Pasquale al suono della «Comparsita» da un vecchio grammofono, ingurgitava sulla soglia l'o1io di ricino. Tutto 
d’un fiato e senza tapparsi il naso. Iniziarono le indagini. 
Arrivarono i panciuti gerarchi e venne pure i1 procuratore dei re accompagnato da don Pietrino, il cancelliere. Ma non c’era nulla da verbalizzare. Con scrittura a svolazzi sul fascicolo si scrisse come un’epigrafe: ad opera d'ignoti. 
Le lettere anonime finirono d'un colpo ed il podestà smise gradatamente di occuparsi di politica anche perché le sorti dell‘Impero volgevano al termine. I vecchi fascisti aspettavano i cambiamenti per tornare a comandare sotto l‘egida dei partiti.
Dalia camicia nera al saio intero.
Vent‘anni dopo, a Platì, arriva un generale dei carabinieri. Massaro Peppe è sindaco. L'alto ufficiale che da capitano si era interessato del «caso Trifala» disse all'ex brigadiere: “Nella tua carriera hai scoperto tutti i casi più difficili tranne l’attentato al podestà». 
Ed il Massaro Peppe di rimando: «1a testa al podestà gliel’ho rotta io!».
«E l’unica volta rispose il generale — che non ti posso proporre per un encomio».
ANTONIO DELFINO 

NOTA. Tra nomi veri e inventati, la scena platiese durante il ventennio nero è ben tratteggiata, senza risparmio di frecciate dirette. C'è da chiedersi se nel Trifala podestà, Delfino figlio non alluda a Francesco Perone che dominò quella stessa scena per qualche tempo.

 

venerdì 29 gennaio 2021

È permesso maresciallo? - arriva fra cercone





Tre frate cercone: i primi due, originali, con la patacca argentata del convento di Polsi, il terzo, non ha bisogno di presentazioni.

Le prime due foto sono contenute nella rivista POPSIS del 1912

giovedì 28 gennaio 2021

È permesso maresciallo? [di Carlo Ludovico Bragaglia -1958]

LE AVVENTURE DI MASSARU PEPPI
raccontate da suo figlio Antonio

Giuseppe Delfino era nato a Bova il 26 marzo 1888 in una casa colonica di contrada Guardiola di proprietà del barone Nesci.
A vent’anni, per un furto di bestiame subito si arruola nei carabinieri. Non ha il tempo d’indossare la divisa che è già all’opera, nell’operazione di soccorso a favore della popolazione per il terremoto di Messina. Riceve la prima medaglia d’argento. Per venticinque anni (sino al 1933) è presente nei punti più nevralgici della Calabria per combattere la criminalità organizzata e bande di disertori, con missioni delicatissime in altre regioni.
Rifugge spesso dalla divisa. Si travisa da frate cercone alle dipendenze di don Ciccio Pangallo, priore del Santuario di Polsi che gli fornisce una mula ed un saio con la patacca argentata del convento, da massaro (da qui il nome di Massaro Peppe), da carrettiere, da mastro di ballo, sensale ed accattone. Per scoprire un’organizzazione mafiosa diventa latitante ed infiltrate nella cosca. Fa il «pentito» e smaschera tutta l'organizzazione. L'avvocato dei mafiosi chiede l’incriminazione in corte d’assise per aver partecipato effettivamente ad un furto. Aveva fatto da palo.
Massaro Peppe è entrato nella leggenda ed a cento anni dalla sua nascita, il figlio Antonio, giornalista ed autore del libro «Gente di Calabria» rievoca i fatti più significativi e clamorosi partendo con le «testimonianze letterarie» di Corrado Alvaro, Mario La Cava e Saverio Strati.
Testo apparso su Calabria Sconosciuta

NOTE
frate cercone era un frate cappuccino, molto spesso laico, questuante, che umilmente si presentava con l’esclamazione "pace e bene" di paese in paese, da porta a porta, per chiedere l’elemosina. Era una figura che spesso appariva in paese. La zia Amalia e lo zio Ernesto lo ricordavano ancora quando si parlava della Polsi che non c'è più.

Francesco Pangallo, Platì 1876 – 1939, già vice superiore di Mons. Giosofatto Mittiga, resse il Santuario di Polsi dal 1927 all’anno della sua morte.

Giuseppe Delfino - nella foto a Polsi con il precedente - morì a Platì il 14 agosto del 1954.

 

 

giovedì 5 marzo 2020

L'incidente [di Joseph Losey,1967]




Grave caduta d’un platiese
Platì, 3 aprile
(M.F.) – Di un grave incidente è rimasto vittima il nostro concittadino signor Antonio Delfino, segretario di zona dello organismo dei Coltivatori Diretti di Platì e Careri.
Scivolando accidentalmente in una vi di Benestare dove si trovava per ragioni di ufficio, il Delfino riportava una seria frattura al braccio sinistro.
MICHELE FERA
GAZZETTA DEL SUD, 4 aprile 1957

lunedì 6 gennaio 2020

The Celebration ... The Lizard



II° PREMIO GIORNALISTICO-LETTERARIO ANTONIO DELFINO
Platì 28 dicembre 2019

Motivazione Sezione Saggistica

Lettere meridiane. Cento libri per conoscere la Calabria” è l’opera di raccordo più notevole degli ultimi anni.
La sensibilità di Francesco Bevilacqua ha saputo cogliere l’essenza del nostro essere senza stereotipare la “regione più a sud del sud”, anzi, focalizzando l’attenzione sulle bugie storiche che hanno vestito la Calabria di pregiudizi ai quali a nessuno è facile sottrarsi. La fatica dell’astrazione ed imparzialità è
valsa questo capolavoro che definire di taglio socio-antropologico sarebbe riduttivo. L’itinerario tracciato da Bevilacqua per raggiungere la conoscenza/coscienza dei nostri luoghi, fisici e metafisici, attraversa anche le opere più incisive di importanti scrittori non solo locali che l’autore ha saputo magistralmente rileggere nel suo meta-racconto. Finalmente la ricerca dell’identità attraverso la memoria non è più pretesto di immobilità ma volano di apertura e crescita.


Motivazione Sezione Narrativa



"Un acre odore di aglio": 
è l'Odissea del popolo aspromontano, vinto ma non domo, epopea familiare come pretesto per una impalcatura di nobile letteratura: romanzo di intreccio, azione e non groviglio di narrazione fine a se stessa, lirismo calibrato che non necessita di eccessivi formalismi, accompagnato da un'analisi psicologica che muove fino all'ultima pagina, da cornice un mondo femminile pulsante come il paesaggio descritto, quindi la terra protagonista e antagonista, l'archè a cui l'uomo ritorna, tramestio di vita e di morte: perché ogni uomo, ogni scrittore, è la cifra del luogo in cui nasce e vive.

domenica 5 gennaio 2020

Quei loro incontri [di Danièle Huillet e Jean-Marie Straub, 2006]


Vuoi per la scelta azzeccata dei premiati, vuoi per la loro presenza, insieme a quella di altri non meno importanti intellettuali e personaggi accorsi dalle località della provincia, la serata del 28 dicembre 2019 è stata una ulteriore dimostrazione delle capacità organizzative dei soci della platiota Associazione Santa Pulinara che per il secondo anno consecutivo indice il premio Giornalistico-Letterario ANTONIO DELFINO. Ma non era tutto oro quello che luccicava negli occhi di quei temerari, avendo bene in testa le reali difficoltà che l’organizzazione di un evento così importante richiedeva e la scarsa locale manodopera.
A chi era assente comunichiamo che la serata è stata presentata da Lucia giarruneiu Catanzariti e coordinata da Maria Teresa D’Agostino.
Se per l’avvocato Francesco Bevilacqua, vincitore per la saggistica con il suo lungimirante Lettere meridiane. Cento libri per conoscere la Calabria”, il Premio è solo un pretesto, la scusa per stare insieme e fare comunità, bisogno sempre più impellente nell'era dell'apparire social. Ma la condivisone delle comuni radici deve essere reale non virtuale. La sua opera è destinata a indicare la testimonianza della vitalità della letteratura calabrese, e degli autori più significativi, per le future generazioni. In quella sede si è scoperto che Francesco Bevilacqua è un camminatore alla Henry David Thoreau e un amante degli alberi alla Jean Giono!
Mimmo Gangemi, premiato per la narrativa con il suo acuto “Un acre odore di aglio”. Allo scrittore gli si riconosce un modo originale di narrare, mettere in discussione, se non altro la gente d’Aspromonte, gente di non facile trattazione.  Egli ci offre il suo tributo ad Antonio Delfino, guardato a volte con invidia. Gangemi, un fedelissimo delle iniziative pulinarote, ancora una volta ci ricorda i legami di parentela intessuti tra Santa Cristina d’Aspromonte e Platì e precisamente con la famiglia di don Gustinu Mittiga, quando le carreggiate erano un legame per lo sviluppo dei rapporti tra i territori che sconfinavano sino alla Piana; ripresa di rapporti auspicata anche dal presidente del Parco dell’Aspromonte dottor Domenico Creazzo presente alla serata, finendo col  renderla preziosa.



lunedì 30 dicembre 2019

The Celebration of the Lizard - The Doors

I am the lizard king I can do anything
Jim Morrison




La zafrata e il suo creatore Domenico Carteri al Premio Delfino, Platì 28 dicembre 2019. Premio doppio andato a Francesco Bevilacqua per la saggistica e a Mimmo Gangemi per la narrativa. In calce l'artistica entrata della residenza dell'autore presso Ferruzzano a mare.

lunedì 19 novembre 2018

Tribute - Serata d'onore [di Bob Clark,1980 ]


Quello che andrete a leggere, se ne avete voglia, vista l’ampiezza del testo, è il resoconto più completo e sincero di una serata e di un evento che mai in Platì si siano visti. Fino all’attuale momento, il testo è sconosciuto anche tra i promotori di quell’evento. In questa sede è riproposto a causa di una dolente nota unita ad amarezza: la mancata, continua, persistente, inesistente partecipazione delle donne platiote a qualcosa che non abbia come riferimento la Signora di Loreto, come hanno sottolineato le soavi voci che arrivavano dal contiguo duomo proprio durante il corso di quell’avvenimento. L’autrice, tra il pubblico di quella sera, lavora per una testata di (quasi) solo donne. La sensibilità tutta femminile ci ha restituito integro quell’episodio che ha visto partecipi tra il pubblico solo distinte signore risalenti dalle marine joniche, tra cui la signora che mi ha fatto notare tale resistenza.

Quanti vorranno conoscere il programma di fimminatv possono aprire questa pagina:

Platì: Prima edizione del Premio letterario giornalistico Totò Delfino



Ieri sera si è tenuta a Platì la prima edizione del Premio letterario giornalistico Totò Delfino, organizzata dall’ associazione “Santa Pulinaria” in ricordo del giornalista calabrese. È stato volutamente scelto il 5 Novembre, giorno in cui avrebbe compiuto 84 anni, non solo per commemorare la sua figura, ma per farla rivivere in un ambiente di piacevoli aneddoti e ricordi.
Grande uomo di cultura Totò Delfino ha esaltato la terra calabra non solo nella letteratura, ma esponendo anche e soprattutto le cronache giornalistiche nei quotidiani locali e nazionali. Il valore della sua amata gente è stato sempre messo in primo piano, in special modo le narrazioni ambientaliste, la cultura, le tradizioni e la vita di quel territorio da sempre martoriato. Il volto letterario della Calabria ritrova in Delfino una posizione di rilievo. La Calabria diventa nella narrativa delfiniana un locus amenusfatto di ambienti fiabeschi, attraverso uno stile ironico-satirico che mette in luce il carattere goliardico dello scrittore-giornalista.
Ad aprire la serata è Michele Papalia dell’associazione Santa Pulinaria il quale definisce Delfino “un grande meridionalista che non aveva prezzo e quindi non aveva padroni. Ha sempre speso parole per gli ultimi, nonostante la numerosa cronaca sulla ‘ndrangheta che attanaglia la nostra terra. Dopo dieci anni di silenzio ufficiale, ricordarlo oggi davanti a così tanta gente vuol dire molte cose e più che un evento è una festa di compleanno”.
Scrittore, giornalista, critico, impegnato politico, ma soprattutto vicino all’istruzione dei giovani, il Preside Totò Delfino, per tutta la vita si è prodigato affinché la cultura fosse un punto di riferimento per i calabresi, tanto da organizzare gite nella sua bella Calabria, facendo riscoprire non una terra maledetta dall’arretratezza mentale e dalla mafia, ma un mondo di bellezze paesaggistiche e di accoglienza.
A monitorare la serata c’era Maria Teresa D’Agostino che parla di Totò Delfino come una “figura di riferimento, intellettualmente onesto e dirompente. Per questo – prosegue la giornalista – è una gioia essere oggi qui insieme alla sua famiglia”.
Presente all’evento era anche il piccolo Antonio Delfino, che con il suo temperamento, vivacità e forza d’animo somiglia ogni giorno di più al nonno.
A presenziare il tavolo degli ospiti, lo scrittore Mimmo Gangemi il quale conobbe Totò Delfino negli anni ’70 “quando era assessore alla provincia”. Gangemi fa di Delfino un piccolo racconto, narrando gli incontri, le vicende che li hanno avvicinati, la personalità e spiegando la narrativa che ha contraddistinto il compagno: “Delfino è stata una voce autorevole che ha portato alta l’immagine del meridione riuscendo a farsi ascoltare anche dall’Italia intera”.
La voce di Totò Delfino infatti è arrivata all’intera nazione attraverso le principali testate giornalistiche italiane come Il Giornale e l’Europeo diretto da Vittorio Feltri il quale, alla presentazione di uno dei libri più riusciti di Delfino, Amo l’Aspromonteesprime parole di stima verso il giornalista e la sua Calabria.
Ciò che invece viene rimproverato a Feltri è il fatto di “non averlo commemorato alla sua morte”, annuncia Paride Leporace, direttore della Lucania Film Commission e fondatore e direttore di Calabria ora. “Totò Delfino era come un padre per me. Amava definirsi un fratello d’asino, perché la montagna condizionò fortemente il suo essere e la sua produzione bibliografica”. Un giovanissimo Leporace e il già affermato giornalista Delfino si erano conosciuti al tribunale di Palmi durante i processi di Giacomo Mancini e, da qual momento era nata una profonda amicizia e collaborazione professionale. “Totò non era solo un libertino, ma un libertario, è un esponente del New Journalism che mescola giornalismo e letteratura”.
Infatti Delfino era un “cronista narratore”, perché non solo captava la notizia, ma ci entrava dentro per trasmetterla con una profonda capacità retorica. Ed è proprio l’oratoria, molte volte ironica e puntigliosa, ad aver posto Totò Delfino in una posizione di primo piano in Calabria.
Lo scrittore Mario Nirta ha parlato di Delfino con grande commozione, giudicando che “le sue opere andrebbero lette nelle scuole. Era uno scrittore con i parandranguli in una cultura calabrese spesso fatta da eunuchi”.
In ultimo la signora Leila, moglie di Delfino ha proclamato il vincitore del premio letterario giornalistico Ilario Ammendolea, direttore editoriale del settimanale Riviera: “Sono orgoglioso di ricevere questo premio nella sua amata Platì per la quale mi sono sempre speso per rivalutarne l’immagine”.
Il dibattito sul giornalismo “delfiniano” si è protratto per un’altra ora, come in una di quelle serate, magari una festa di compleanno tra amici, durante la quale si passa a raccontarsi i bei vecchi tempi passati insieme.
Totò Delfino respirava attraverso la scrittura, piangeva e rideva per la sua bella Calabria, cantava le lodi dell’amato Aspromonte e raccontava la vita quella gente umile      quasi come fossero personaggi fiabeschi. La figura di Delfino, la sua narrativa e il suo giornalismo hanno contribuito a educare la mente, alla costruzione di un personale pensiero critico svincolato da qualsiasi influenza esterna e da buon “libertino della penna” ha insegnato ad essere finalmente liberi.
Cristina Caminiti

Foto e testo qui: