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giovedì 9 luglio 2020

Mai morire [di Enrique Rivero, 2012]

Long afloat on shipless oceans
I did all my best to smile
'Til your singing eyes and fingers
Drew me loving to your isle
And you sang
Tim Buckley



(...) Io vengo dalla Locride, dalla Magna Grecia, da un paese in cui il “pianto greco” non è un fatto folkloristico: abbiamo imparato già a scuola che tutti gli eroi dell’antichità piangono, gridano e si disperano, ma non c’è memoria di prefiche, nel mio paese. Il dolore con cui si piangevano i morti era autentico, partecipato, vissuto da tutta la comunità, soprattutto quando a morire erano persone giovani, oppure, come capitava di frequente, quando ero bambina, quando si trattava di morti ammazzati. Io però ero tenuta lontana da certi eventi e dai riti collegati alla morte, anche se vedevo spesso donne ammantate di nero che non toglievano il velo dalla testa per anni. La mia relazione con la morte era limitata al 2 novembre, il giorno preposto all’esposizione pubblica del dolore, quando il cimitero si riempiva di donne che urlavano e si strappavano i capelli anche, ricurve sulle tombe dei loro cari, oppure alla processione del venerdì santo, con la statua del cristo morto portata a spalla su un lettino bianco che, durante tutto il resto dell’anno, mi faceva paura dall’angolo della sacrestia della chiesa dove lo zio diceva messa. Il mio primo contatto con la morte l’ho vissuto senza rendermene conto a sette anni: la nonna era molto anziana e costretta a letto da tempo e quando andavo a trovarla, a volte anche malvolentieri, mi sedevo accanto al letto con la zia, con la mamma, con le vicine di casa che aiutavano la zia nell’accudire la nonna come gesto spontaneo, ma non ricordo che lei mi parlasse. Non mi sorpresi, perciò il giorno in cui la zia, sulla porta della stanza, mi disse di entrare a salutarla. “Dai un bacio alla nonna” mi disse, ed io la baciai, senza rendermi conto che era morta, né in quel momento, né per molti anni a venire. Quando morì lo zio, anni dopo, ero un po’ più grande e non volli nemmeno vederlo e per anni continuai a conservare gelosamente la sensazione di vederlo spuntare da dietro l’angolo… 
BETTINA GLIOZZI
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Qui il non presentito addio al MAESTRO che ha segnato, e segnerà, le mie tappe:
mentre mi autografa una copia di NCP.
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Le foto: in apertura il piccolo Ciccillo Gliozzi con la mamma Bettina Mittiga (20 luglio 1893 - 10 luglio 1970) e la zia Iolanda Mittiga. A seguire, tutti Gliozzi: da sinistra: Fina (al cielo Maria Gemma) l'infante Bettina, per il mondo Marilisa, Bettina Mittiga e Amalia.
La cover di Song To The Siren di Tim Buckley, cantata da Bettina Frazer, fece epoca nei primi anni ottanta del passato secolo e il doppio lp è ancora oggi fresco come l'acqua di cromatì.

2 commenti:

  1. Sono trascorsi cinquanta anni dalla morte della nonna Lisa. Quel traguardo essa l’aveva atteso con la speranza di vedere riuniti attorno a sé tutti i suoi figli, e così è stato. Ciccillo, Rosina, Cata, Ernesto, Fina, Peppe, Amalia e Iola, arrivata senza preavviso da Mishawaka IN. Il ricordo di Marilisa è anche uno spezzone di un film del 1957 abilmente congegnato, oggi poco conosciuto, La donna dai tre volti (The Three Faces of Eve) con Joanne Woodward.

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  2. Mi accorgo soltanto adesso di non aver citato l'autore della prima foto: Giuseppino Mittiga, fratello di Bettina e Iolanda e zio di Ciccillo.

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