giovedì 15 giugno 2023
Legami [di Pedro Almodóvar - 1990]
… condividere la lettura di qualche decina di libri è un vincolo più forte del sangue.
martedì 23 maggio 2023
The Silver Chalice [di Victor Saville - 1954]
L’odierna
pubblicazione la devo a Domenico Jermanò
che giovanissimo per com’è, oltre a rincorrere per mari e monti la “Regina Angelorum”,
si affanna a mantenere vive le tradizioni ecclesiastiche platiesi. Il calice,
ben più prezioso del titolo in apertura, che nella base porta incisa la dicitura Il Cav. Francesco Oliva fu Rosario alla
Madonna del Rosario – Platì Aprile 1905 è una sua scoperta. Le notizie sul donatore
sono poche: figlio del citato Rosario e della nobildonna Marianna Morabito
nacque a Platì il 29 marzo del 1852. Lasciò il Paese per stabilirsi in Gerace
dove sposò la ventunenne signorina Francesca
Serafina Maria Ferrante il 7 aprile del 1890 ed in quella cittadina visse. Lasciò
le spoglie terrene il 22 aprile del 1939 a 87 anni.
domenica 30 aprile 2023
Milou a maggio [di Louis Malle - 1990] con il suono IANVA
https://iloveplati.blogspot.com/2012/05/non-solo-chiacchiere-reg-salvatore.html
https://iloveplati.blogspot.com/2012/05/primo-maggio-rosso-reg-chris-marker.html
https://iloveplati.blogspot.com/2014/02/furore-reg-john-ford-1940.html
sabato 18 febbraio 2023
BATTE IL TAMBURO LENTAMENTE - Sette fantasie intorno un artista
1 - https://iloveplati.blogspot.com/2021/04/rullo-di-tamburi-micheli-u-giamba.html
2 - https://iloveplati.blogspot.com/2021/02/rullo-di-tamburi-di-delmer-daves-1954.html
3 - https://iloveplati.blogspot.com/2017/10/a-thunder-of-drums-reg-joseph-m-newman.html
4 - https://iloveplati.blogspot.com/2017/02/strada-sbarrata-ovvero-contestazione.html
5 - https://iloveplati.blogspot.com/2016/05/io-confesso-reg-alfred-hitchcock-1953.html
6 - https://iloveplati.blogspot.com/2016/03/a-sud-rullano-i-tamburi-reg-william.html
7 - https://iloveplati.blogspot.com/2012/11/batte-il-tamburo-lentamente-atto-ii.html
mercoledì 16 novembre 2022
Il cammino del vino [di Nicolás Carreras - 2010]
Fermentazione. Questa parola gorgoglia, consuma, odora, in un remoto bisogno di mutare, di trasfigurare, di travolgere e ci induce a pensare a fatti omerici e meravigliosi.
Infatti a Castromllari, qualcuno ricorda ancora girare, con una piccola otre a tracolla un vecchio che per un centesimo offriva un bicchierotto roseo, leggerissimo, detto «acquato».
I vecchi ricordano ancora che nei luoghi dov'era penuria d'acqua, mentre il vino scorreva a torrenti, si dava, incredibile a dirsi, un litro di vino in cambio di un litro di acqua.
Dionisio e Cerere sono, in Calabria, due amici fidatissimi, due fedelissimi sposi: ma, mentre Cerere è dappertutto onorata, m pochi luoghi come nelle campagne di Castrovillari, Ciro, San Biase, Dionisio mostra i segni della sua gloriosa personalità. Secondo il vino che gustano e che producono — si possono spiegare i drammi, le conquiste, le stranezze, le poesie delle diverse popolazioni.
Ebbene, eccettuate alcune zone della Sicilia, delle Puglie e della Toscana, nessun altro luogo d'Italia fa pensare al potere del vino come la Calabria, dove se ne produce del bianco, nero, rosso e di color rubino.
Se sono utili una educazione enologica ed una educazione viticola, entrambe, in Calabria, tono progreditissime.
Non vi parlerò di cifre, di cantine, di doghe, di botti, di tini e di vetro, di vinacciuoli e di bucche, di raspi, di distillazioni, di torchi, di botole, attraverso le quali si scende in un favoloso paesaggio, dove brulica una popolazione dalle mani paonazze. Ma vi dirò che in Calabria si cura il vino teneramente, come si può curare una amorosa o un neonato. E la bontà del vino, come si sa, dipende dalle cure che riceve.
Delicatissimo, quasi nervoso esso può alterarsi per un nonnulla. E i produttori calabresi hanno una sensibilità quasi lirica, quasi musicale del vino, interpretandone squisitamente l'età la resistenza, le forze le debolezze.
Ho visitato stabilimenti grandiosi in quel di Ciro — la città del vino per antonomasia in Calabria — ho visitato Frascineto, Cassano Ionio, San Biase, Donnici dove sono rivoli, fiumi, cateratte di vino.
Queste fontane occulte e scarlatte sono più spettacolose delle fontane di Trevi e dell'Esedra.
È la tempesta. La tempesta del vino è più spaventosa di quella dell'acqua, perché è illuminante, perché ha un odore selvaggio che atterra, perché ha impeti, marosi, muggiti che insieme esaltano e folgorano.
Il lavoro è intenso, quasi febbrile, in alcune ore dentro i vigneti, e in altre ore dentro i depositi, durante la vendemmia.
Poi, viene una assoluta pace, un'estasi e tutto dilegua tra sfumature giallognole, in un profumo lontano.
Il vino invecchia e nessuno sa quali tradimenti, quali emozioni serbano i fiotti, che dai barili passeranno nelle bottiglie e scoppieranno, poi, come cannonate sulle mense dei gaudenti, delle donne dannate o sul modesto desco dell'operaio, che suda e lavora.
Sui deschi dei patriarchi e dei monaci o nelle alcove dei peccatori giungeranno con nomi fatui e mondani, e saranno le bottiglie del perdono, della sanità, dell'oblio.
Quando il vino diventa una procella, quando non è più liquido ma è aria e asfissia, esso dà, ve lo assicuro, un indimenticabile terrore. Quel terrore guarirà sotto terra, gli ubriaconi una volta per sempre.
Questa è l'idea che ho a favore di coloro che si sono ammalati per ti vino e che nel vino stesso troveranno la salvezza.
In quanto alle persone sane, alle persone che, sopra la terra, sanno apprezzare e misurare questo dono di Dio, con deliziosa sapienza, io mi avvicino ad esse e torno a sussurrare: «Castrovillari, Frascineto, Civita, Cassano, Donnici, Ciro, San Biase».
FRANCESCO GESUALDI
GAZZETTA DEL SUD, 23 agosto 1957
giovedì 27 ottobre 2022
NOPE [di Jordan Peele - 2022]
“I will cast abominable filth upon you, make you vile, and make you a spectacle.” Nahum, 3.6
Carlo vive
giovedì 20 ottobre 2022
venerdì 15 luglio 2022
A Chiara [di Jonas Carpignano, 2021]
A Chiara (2021) di Jonas Carpignano è
un film su cui si possono riservare ore su ore di dibattiti tanto è il
coinvolgimento per chi riesce ad apprezzarlo. Il regista italo- americano ha eletto
Gioia Tauro sua terra adottiva e a motivo di essa ci racconta la Calabria, o se
volete, per dirla con parole attuali, la Città Metropolitana di Reggio
Calabria. Importante per portare a termine in modo speciale il film in
questione è la scelta stilistica e la volontà di ritornare alla pellicola,
usando per questo mezzi tecnici leggeri che permettono al regista di stare
sempre al passo, sempre in movimento, degli interpreti, restringendo il campo
visivo, e risaltare la psicologia dei personaggi, senza dimenticare la maggiore resa cromatica. Il lavoro si può facilmente suddividere
in quattro parti, più un segmento centrale che è la vetta più alta raggiunta
nel lavoro del regista: la vita di una famiglia di Gioia Tauro; a Chiara; la
sopravvivenza, l’epilogo. Ciò che non convince è proprio l’epilogo con “la
svolta narrativa poco probabile”. Carpignano con un procedere che riporta alla
lezione di Roberto Rossellini ci mostra la vita di una tipica famiglia
calabrese di neo arricchiti. Il suo
quotidiano, come quello di una qualsiasi famiglia sulla terra, è crescere i
figli nel modo migliore possibile, anche se esse sono tutte ragazze: la scuola,
l’apparecchio odontoiatrico, la palestra, gli amici, i selfie, i diciotto anni
della maggiore di esse, il trend che a volte emerge come kitsch. Chiara
scoprirà presto che tutto questo ha un prezzo. Crescere ha un costo. Il
segmento centrale citato: è il momento decisivo per Chiara, quasi una sorta di
limite tra l’adolescenza e le future sofferte scelte, qui rivediamo Pio Amato
passare dalla ciambra alla maturità,
alla consapevolezza di sé, ad un futuro responsabile.
domenica 19 giugno 2022
L'istruttoria è chiusa: dimentichi [di Damiano Damiani 1971]
Do you believe in justice, Judge?
René Claire, And Then There Were None (Ten Little Indians Went Out To Dine …), 1945
Solo io posso giudicarmi. Io so
il mio passato, io so il motivo delle mie scelte, io so quello che ho dentro,
io so quanto ho sofferto … io nessun altro. Oscar Wilde
Potranno tagliare tutti i fiori
ma non fermeranno mai la primavera.
Pablo Neruda
La cultura rende un popolo
facile da guidare, ma difficile da trascinare. Facile da governare, ma
impossibile a ridursi in schiavitù.
Henry Brouham
Varie
e molteplici sono le citazioni a cui ricorre Antonio Papalia (classe 1975),
dalle Sacre Scritture a William Shakespeare ad André Gide, dentro il suo ultimo
lavoro letterario e visivo: Stanze chiuse
riflessioni dall’oscurità, 2000, BookSprint Edizioni*. I lettori platiesi,
urbi et orbi, l’hanno ignorato preferendo i facili titoli da caffè. Un po' filosofo, un po' sognatore,
fervente religioso. Dentro l’Istituzione che lo detiene, in solitudine e per
necessità, corrisponde con il Cielo ed i terreni mortali da Sant’Agostino a
Rutka Laskier, ad Alan Kurdi, spesso con il proprio figlio, il proprio padre.
Tempo e spazio, infinito il primo, esiguo il secondo: la cella, "l'aria", la biblioteca.
Dentro quest'ultima comincia la sua rinascita. “Iniziai
a leggere qualche libro, o almeno tentavo,. Non capivo e non ricordavo nulla di
quello, che leggevo, e allora cominciavo daccapo lo stesso libro, lo stesso
capitolo, la stessa pagina, fino a quando non avevo compreso una piccola parte
di quello che leggevo. Le prime volte era come se la testa dovesse scoppiarmi,
ma poi, passo dopo passo quando chiudevo il libro e iniziavo a ricordare qualcosa,
in qualche modo ero felice … Non mi importava cosa leggevo, anche perché non
potevo avere chissà quale imbarazzo di scelta circa gli autori o le cose in
genere… A arte il fatto che di autori non conoscevo alcuno, non avendo mai sino
ad allora letto un libro”. A seguito dell’accanita lettura nasce l’esigenza
dello studio, licenza di scuola media inferiore, diploma e studi universitari,
questi ultimi non del tutto portati a termine. Da qui la consapevolezza di
essere qualcuno, seppur vittima di un sistema che ignora i diritti umani. C’è
da rilevare che il lavoro editoriale, su cui uno scrittore fa sempre affidamento,
è a dir poco scadente essendo mancate da parte della casa editrice la revisione
e una giusta presentazione, per non tacere sul lavarsi le mani in sede di
responsabilità che non impegnano l’editore, lasciando all’autore le opinioni
come nuove possibili sanzioni da Giudice Istruttore.
lunedì 18 aprile 2022
Il fiore delle mille e una notte [di Pier Paolo Pasolini - 1974]
Bruzzano Zeffirio, 2 dicembre
Udrà un canto aleggiare fra gli arbusti, sperdersi in dolce armonia con un profumo meraviglioso verso le stelle, ed avrà l'impressione di sognare. Crederà per un attimo che le sirene, stanche di attirare sulle scogliere gli incauti naviganti, dopo avere abbandonato i dolci lidi, si siano trasferite a cantare la loro fatalità sulla terraferma, all'ombra di alberi ed arbusti. In quel grandioso giardino dove a migliaia crescono i gelsomini, questi strani minuscoli fiorellini bianchi dal suadente profumo.
Ma chi, verso l'alba e quando il sole dopo essere filtrato attraverso il rosso candore che in lunghe strisce si adagia al di sopra del mare in quell'ora maliosa, voglia sostare a lungo perché stanco del cammino o perché attratto da qualcosa d'insolito, vedrà una sterminata pianura di verdeggianti, filari cosparsi di bianchi fiorellini e tante donne, piccole e grandi, dai lunghi stivali e dai fazzoletti variopinti come vuole la tradizione più antica della Calabria, allungare vorticosamente le mani in un carosello che ha del miracoloso, strappare due, cento, mille fiorellini, riporli con cura nel sacchetto che ognuna tiene appeso alla cintola.
In quel luogo, per tutto il periodo estivo e sino all'ottobre inoltrato, si svolge la raccolta dei gelsomini, è un lavoro veloce e delicato perché si deve pensare a raccogliere quanti fiorellini è più possibile e nello stesso tempo badare a non rovinare le piante che sono di una delicatezza estrema.
Le principianti dopo un lavoro di sei e sette ore riescono appena a raccogliere tre chili; ma le anziane, forti dell'elasticità acquisita in anni di esperienza, raccolgono anche sette e più chili.
Il lavoro viene svolto con calma e con gioia, e tra un coro e l'altro, le belle fioraie hanno tutto il tempo di sognare, là che il murmure del mare e la suadente bellezza del cielo cosparso di stelle invitano ai sogni, il loro principe azzurro.
Il maggior contributo di donne alla raccolta viene dato dal paese di Bruzzano che si trova a pochi km. di distanza, nell'interno, e precisamente nella tremenda vallata che guarda il grigio Scapperrone, i monti di Bova e le rosse timpe di Ferruzzano.
A Bruzzano, ogni notte, quando l'orologio della torre Civica tuona fortemente il rintocco delle ore piccole, deboli lumi si accendono nelle case e il silenzio delle vie viene rotto dal tonfo misurato degli stivali e dalle voci delle amiche che invitano alla sveglia le più pigre.
All'uscita del paese attende un rombante camion, e come ogni notte, come sempre e da anni ormai, non appena l'ultima donna è salita, parte ver so il luogo del lavoro.
Naturalmente non si marcia in silenzio perché il fatale mistero della Calabria, questa terra antica e favolosa che ama fomitare tutt'intorno da ogni albero, da ogni zolla e da ogni creatura, la sua pietà e la sua forte malinconia, spinge tutte le donne al canto; ed un sol coro si eleva allora verso il cielo in un'ansiosa ricerca di felicità e di bene, svolge lentamente, pacatamente, l'antico dramma di questa terra.
Sul luogo del lavoro, intanto, con altri mezzi sono giunte le donne di Brancaleone, civettuole e vanitose di quella vanità che è propria di chi vive nella marina; quelle di Razzà, serie e composte; quelle di Platì, silenziose ed austere; ed allora, tutte insieme, si dà inizio alla raccolta.
Compostamente, due per filare, incominciano a spogliare gli arbusti, alti qualche metro, dei bianchi leggerissimi fiori.
Cosi, per ore, immerse nel chiarore vellutato di queste notti d'estate piene dì stelle e di lucciole, raccolgono la loro vita, il pane quotidiano; e cantano canzoni vecchie quanto i tempi che i padri hanno ereditato dai padri e tramandato ai figli in questa fuga verso l'eterno che la Calabria nemmeno avverte, immersa com'è nel suo fatale lento cammino sulle stesse zolle di ieri e di sempre.
Quando la raccolta è finita e soltanto il verde dei filari chiazza la vallata, le donne ridendo e scherzando si recano nello stabilimento per la lavorazione per consegnare, dopo averlo pesato e fatto registrare, il bianco raccolto.
Il giorno più bello è quello del pagamento: allora la dolce fioraia che ha finalmente vinta la riluttanza dei familiari, riunitisi per l'occasione in serie e dignitosa assemblea, magari con la complice parola del fratello che andato a fare il soldato in regioni evolute ha visto e conosce il mondo, potrà finalmente tagliarsi i capelli ed affidarli alla corrente elettrica per una meravigliosa ricciolatura.
Per il vestito da indossare in occasione della prossima festa c'è tempo per l'altro pagamento.
Le anziane pensano alle scarpe da comperare alla figlia maggiore che va a sarta e deve figurare ed al problema del vettovagliamento che impone la sua ferrea legge specialmente quando lo sposo per mancanza di lavoro riscalda i marciapiedi del paese.
Ed ogni notte ritornano al lavoro, felici in quella pianura piena di fiori, di stelle e di lucciole, e cantano la profumata canzone della loro quotidiana fatica.
BILL MODAFFERI
GAZZETTA DEL SUD, 3 settembre 1956
giovedì 13 gennaio 2022
Matrimonio in famiglia [di Rick Famuyiwa - 2010]
DIVAGAZIONI IN CASA NOSTRAIl rito nuzialenegli usi calabresiAd Africo, la cittadina dell'ultima
puntadella Penisola, il matrimonio assume la
piùvasta eccezione alla semplicità dei
popoli
Africo 19
gennaio
Ad Africo la citta più strana dell'ultima, punta dì Calabria il rito del matrimonio non poteva
che assumere la più vasta eccezione alla semplicità dei popoli rivieraschi. Nella
compagine della città chimerica, che vive appollaiata sul cocuzzolo di un
monte, come il purgatorio dantesco, distaccata quasi del tutto dalla gente, i
matrimoni avvengono solo tra parenti ed addizionano, così, i difetti — secondo una autorevole teoria fisiologica —
niella scala delle generazioni, tramandando ai nascituri tare ed infermità.
Sono i parenti a disporre delle parentele e così, in segreto che i soggetti da convogliare a nozze neppure lo
sanno. Cosi come nel Sesto di S. Martino a Firenze nel 300, gli sponsali servivano
ad integrare i rapporti di parentela, ugualmente ad Africo, le nozze non
volgono che a colmare partite vuote nei bilanci famigliari della gente più
in vista. Solo più tardi i designati
s'incontreranno nella loro qualità di fidanzati, che vale soprattutto a stabilire
in rapporti di reciproca suggestione da intensificare in un certo qual modo l’amore
attraverso gli sguardi ansiosi dei futuri fidanzati. Poi un distacco reciso,
fin tanto che i parenti non avranno sistemato le loro faccende, certamente più
serie. Quando è stabilito il giorno delle nozze la vicinanza dei parenti s'intensifica
ed i loro cori di gioia, si faranno sentire più da vicino. Viene così stabilito
da certi decreti intimi il giorno delle nozze ed in tal giorno, le donne,
completeranno nell'interno delle case agghindate a festa, l'abbigliamento della
sposa; mentre gli uomini, fuori estraggono con mossa fulminea delle tasche
castagnole ben dosate per scaraventarle con tutta forza contro le mura che
custodiscono il loro amato bene e le gravi detonazioni faranno trasalire la
verginità inquietante della sposa. I più vecchi scaricano di tanto in tanto in
aria vecchi archibugi dalle polveri antiquate ma efficienti, mentre i sumpesseri,
(i genitori dei rispettivi sposi), eseguono in aria lanci di confettini
variopinti e con la verga bastoneranno di santa ragione i monelli che non
vogliono allontanarsi.
Il corteo sfila davanti
alla Chiesa. In testa la sposa col velo bianco e le donne; dietro lo sposo con
la sempreviva al petto, e gli uomini. Al ritorno le madri spargeranno con
solerte premura il grano sulla soglia di casa, prima dell'ingresso dei nuovi
arrivati. Quindi i baci ed i convenevoli.
Ma, a sera, quando fa
buio tutto tace, la sposa entrerà di soppiatto nella casa del tuo uomo e li
riceverà ti bacio del primo incontro. Fuori, intanto, fervono le feste
danzanti. Una gran torcia arde nei cortili che richiama tutto il vicinato. La serata
è ad ingresso libero. La torcia, fatta di resina indiana e che l'uso popolare
chiama Leda, sprigiona nuove fiamme rischiarando i volti degli intervenuti accoccolati
intorno al fuoco, talvolta con aria stanca, se le libazioni della giornata sono
stati abbondanti. Poi intorno all'allegra fiammata si snoderà la tarantella.
ARTURO GIURLEO
Foto e testo: GAZZETTA
DEL SUD 20 gennaio 1957
Il
testo di Arturo Giurleo è un piccolo tesoro di scrittura che riporta alla luce
tradizioni ormai sepolte, anche tra i fogli di giornali di provincia, che
diventano patrimoni di cultura. Dell'autore, come di tanti altri che hanno scritto sulla locride nella Gazzetta del Sud, le tracce si perdono negli archivi dello stesso giornale.
lunedì 10 gennaio 2022
La costa del sole [di John Sayles - 2002]
SI ESTENDEVA DAL FIUME HOLEX A CAULONL'antica regione
della LocrideOggi costituisce una delle zone più
depresse della Calabria, malgradoche un tempo sia stata fiorente, piena
di vita e di intensa civiltà
La regione
della locride si estendeva dal fiume Holex (attuale Amendolea), che segnava il
confine del territorio reggino da quello locrese, al territorio di Caulon, nei
pressi dell'attuale Marina di Monasterace, occupando quasi tutta la fascia
litoranea dell'attuale provincia di Reggio Calabria bagnata dal glauco Jonio.
Una
leggenda vuole che le cicale sulla sponda sinistra dell'Holex, in territorio
locrese, fossero canore, mentre sulla sponda destra, in territorio reggino,
fossero mute. Si spiegava il curioso episodio col fatto che Ercole, giunto
esausto sulla sponda destra del fiume e non potendo prender sonno perché
disturbato dal canto delle cicale, pregò ed ottenne da Giove che divenissero
mute. Un'altra versione attribuisce alla maledizione lanciata da S. Paolo
l'afonia delle cicale del territorio reggino, perché disturbato dal loro canto
mentre predicava.
In
vicinanza dello stesso fiume era Peripoli, colonia locrese messa a guardia del
confine, non lontana dall'attuale Melito Portosalvo, cara alla storia del
Risorgimento per il leggendario sbarco di Garibaldi nel 1860 e per
quello del 1862, che ebbe per doloroso epilogo lo scontro fratricida di Aspromonte.
Vi è ancora sotto le acque della rada di Melito la carinea del piroscafo
«Torino» affondato dalle cannonate delle navi borboniche «Aquila» e «Fulminante»,
le quali inutilmente tentarono di ostacolare lo sbarco del 1860 e il
corso della nuova storia.
Nei pressi
di Melito, l'attenzione è attratta dalla caratteristica roccia di Pentidattilo,
fantasiosamente illustrata in copertina da Sìmbari, una roccia gigantesca che
si staglia nel cielo, a 400 metri di altezza, come una colossale mano dalle
dita aperte, alla base del quale sono abbarbicati i ruderi di un vecchio
castello medioevale, che ricorda le tragiche lotte tra le famiglie Alberti ed
Abenavoli.
Lungo la
linea ferroviaria Reggio-Catanzaro, che corre parallela alla statale 106 e
vicinissima al mare, si allineano numerosi i nuovi paesi, lindi e civettuoli,
scesi dalla marina alle colline retrostanti, attratti dalle nuove esigenze e
dai nuovi mezzi del progresso umano.
Il capo
Bruzzano (Zephyrlum promontonum), che si prolunga nel mare descrivendo un ampio
arco con l'altra estremità di punta Stilo, ci ricorda lo sbarco in questa
località dei primi coloni e la loro primitiva sede, prima di prendere dimora
definitiva sul monte Epopis e fondare, nel VII secolo a. C, la città di Locri.
In alto, a circa 20 Km. a nord del capo
Bruzzano, quasi al centro dell'ampio golfo, si erge maestosa l'amba
conchiglifera sulla quale è ubicata Gerace, dominatrice delle ampie vallate dei
fiumi Novito e S. Paolo. Vero baluardo naturale, Gerace, difesa a monte dal
munitissimo castello, i cui resti testimoniano le vicende bizantine e normanne
della gloriosa città, deve il suo nome alla voce greca «ieròs», sacro (città
santa) o, secondo altri, a «ièrax», sparviero. Infatti, uno sparviero, o meglio
un'aquila ad ali spiegate, è lo stemma del Comune. Vuole la leggenda che i
profughi locresi, guidati dal volo di uno sparviero, si rifugiassero sulla rupe
inaccessibile per sfuggire alle continue invasioni e razzie dei Saraceni.
Quantunque in posizione ritenuta inespugnabile, venne tuttavia saccheggiata più
volte dai Saraceni che, nel 952, inflissero ai Bizantini una grave sconfitta.
La città conserva tuttora la struttura di una munita fortezza bizantina dell'alto
medioevo e vi si accede ancora attraverso le porte del Borghetto e delle Bambarde
per le strade irte e selciate, ai cui lati sono allineati vecchi palazzi,
alcuni con bifore. La Basilica-Cattedrale stessa, vista dalla parte esterna delle
tre absidi, ha il severo aspetto di una fortezza e le strette e lunghe finestre
gotiche somigliano a vere e proprie feritoie.
Questa
costruzione chiesastica - la più grande della regione - ha la forma di un vasto
rettangolo di circa metri 26x75, con l'altezza alla cupola di circa m. 25 e con
un dislivello esterno a est di circa m. 6, dove è situata l'ampia cripta. L'inizio
della costruzione si fa risalire ai primi decenni del secolo, mentre è sicura
la data della sua consacrazione, 1045, come si rileva da una targa in piombo
incastrata nella terza colonna in «corno Evangeli», esistente al tempo
del vescovo Pasqua. Tra le costruzioni coeve occupa un posto importantissimo
l'icnografia della basilica latina a tre navate, divisa da venti colonne greche
di marmo scanalate o lisce, sormontati da capitelli di vario stile e da archi falcati
in tufo; la presenza del transetto sporgente triabsidato e della cupola; la
cripta suddivisa da 24 colonne di granito, provenienti, come quelle delle
navate, dai templi della vicina Locri, sono elementi efficaci a dimostrare
l'ardita e vasta concezione architettonica dell'opera, ideata e portata a termine da esperti architetti.
L'insigne
archeologo Paolo Orsi, al quale tanto deve la nostra terra per le sue
importanti scoperte archeologiche, la definì «la più importante e grandiosa
costruzione della Calabria, il più sontuoso monumento della regione».
Nei recenti
restauri e scavi nella
cripta (1955), si è rinvenuta, tra l'altro, una primitiva sacra mensa e si è riscontrato che la
costruzione dell'XI sec. è sorta con un preesistente complesso edilizio dei
secoli VII e VIII.
Nei pressi della
Basilica-Cattedrale sorge, più in alto, il castello (m. 480), costruito sulla viva
roccia, tagliato particolarmente tutt'intorno per renderlo inaccessibile da
tutti i lati. Un profondo fossato verso il lato est lo divideva dalla città alla
quale era unito solo attraverso il ponte levatoio. Dalla sommità del castello, l'occhio
spazia sul mare da capo Bruzzano a punta Stilo, dalle ampie vallate circostanti
ai pianori della Milea, alle giogaie dell'Aspromonte.
In questo
castello, ormai in gran parte distrutto, sotto la dominazione normanna, nella sala
di Mileto, pare sia avvenuta la pacificazione tra il conte Ruggero e suo
fratello Roberto.
Altri
tesori d'arte contiene la vetusta città: la chiesa di San Francesco, in
completo abbandono e quasi distrutta, in stile romanico - gotico, del 1252 dal
bel portale ogivale a costoloni, con decorazioni di carattere arabo-normanno, e
la piccola chiesa di S. Giovannello, dalle caratteristiche forme (abside
semicircolare).
Gerace
ebbe, nel passato, grande importanza politica, militare e religiosa, e durante la
dominazione borbonica fu capoluogo del distretto e sede di tutti gli uffici.
Nel 1847 ebbe luogo nel suo distretto l’insurrezione liberale, coordinata con i
moti di Reggio e Messina; ma, fallito il moto, dopo sommario processo,
nella sottostante piana della città, il 2 ottobre 1847, vennero fucilati: Michele
Bello, Pietro Mazzoni, Domenico Salvatori, Gaetano Ruffo e Rocco Verduci, antesignani
del Risorgimento della patria.
Ai piedi
della rocca geracese appare, adagiata come in un sonno di secoli, la pianura,
verdeggiante di ulivi e di pampini di vite, e le colline della Mannella, Abbadessa,
Janchini e Patarriti, sulle quali sono vivi e parlanti gli avanzi di una città
dalle tradizioni gloriose e millenarie, che dette al mondo occidentale il primo
codice di leggi scritte: Locri.
Da Locri si
scorge il caratteristico castello di Roccella con torre di vedetta, armato con
artiglierie e caposaldo di resistenza nell'ultima guerra mondiale; sia la
torre, però, che il castello sono in pessime condizioni di staticità e quasi distrutti.
Il castello subì vari assedi da parte dei Saraceni, il cui capo, Dragut, invano
lo assali, rinunziando all'impresa quando ebbe colpite diverse navi dalle
colubrine del castello.
Chiude
l'ampio golfo l'estremità di Punta Stilo (il Concyntum promontorium degli antichi),
sotto il cui faro sono visibili i resti di tempio dorico.
In alto,
alle spalle del Faro, sulla vasta e brulla montagna del Consolino, sorge
abbarbicata alla roccia la storica cittadina di Stilo, della quale l’insigne
archeologo Paolo Orsi scrisse: «Stilo, annidata sulle rocciose pendici del
monte Consolino, sbarrando la pittoresca e storica vallata sottostante, che poi
si serra e sale erta e rapida alla regione centrale e appenninica, selvaggia e
ricca di selve secolari, Stilo così piena di ricordi bizantini e normanni e
patria del fiero e turbolento monaco Tommaso Campanella, che nel secolo XVII
con le sue ardite teorie politiche e sociali mise a soqquadro il Mezzogiorno, è
tutta dominata da questa piccola gemma dell'arte bizantina - la Cattolica -
incastonata su un brevissimo risalto dell'Aspromonte. Ed è oggi entro la
piccola città l'unico e prezioso avanzo superstite della bizantinìtà, che altri
e certo pregevoli monumenti sono tutti scomparsi, travolti dalle tristi vicende,
che per quasi un millennio attraversò Stilo, ultimo il sacco e l'incendio
perpetrato dai Francesi nel 1804».
La Cattolica, bellissima piccola chiesa bizantina dalle
linee caratteristiche orientali, vero gioiello d'arte pervenuto fino a noi
quasi intatto, riproduce un tipo di chiese spesso ripetute in Georgia, in
Armenia e nel Peloponneso. Costruita sopra un limitato ed angusto ripiano del
monte, domina la città di Stilo; è una costruzione quadrata sormontata da
cinque basse cupole con tre absidette volte ad oriente. L'interno, di appena sei
metri di lato, è diviso da quattro colonne in tre piccole navate o nove
quadrati uguali: le colonne, due di cipollino, una di granito ed una di marmo bianco,
provengono da templi antichi e sono dotate di capitelli diversi.
Importantissima la prima colonna a destra, sulla quale è scolpita una greca iscrizione,
che tradotta, dice: «Dio è il Signore apparso a noi».Paolo Orsi, che vivamente
si interessò per i restauri, efficacemente coadiuvato dai mezzi finanziari concessi
dalla sensibilità della Regina Margherita, la definisce «...insigne monumento bizantino,
il più bello, il più completo della Calabria; malgrado la sua piccola mole,
anzi appunto per essa in particolare, desta l'ammirazione degli studiosi».
La plaga descritta, che è tutta la costa jonica della
provincia, è una delle contrade più depresse della regione calabrese, malgrado
che nell'antichità sia stata fiorente, piena di vita e di intensa civiltà.
Deleteria
azione degli agenti atmosferici e tellurici, incuria di uomini, hanno
trasformato gran parte di questa terra in brulle colline argillose e in aridi terreni.
Solo nella fascia costiera, dove la tenacia dell'uomo ha conteso palmo a palmo l'humus
all'avverso destino, la terra è coltivata ad ulivi ed agrumi.
Con
l'avversità degli elementi e la incomprensione dell'uomo fanno stridente
contrasto le bellezze naturali della regione: i panorami paradisiaci, il cielo
di cobalto, i purpurei tramonti, la tradizionale ospitale cortesia del
calabrese, il profumo della zagara che si sposa a quello del gelsomino, la mitezza
del clima, rendono la nostra terra un giardino sempre fiorito.
U. Sorace Marasca
Gazzetta
del sud 17 gennaio 1956
sabato 1 gennaio 2022
La vita semplice [di Francesco De Robertis - 1945]
domenica 12 dicembre 2021
Fiori nel fango [di Douglas Sirk - 1949]
la vurpi, li vurpigghji
quandu figghjia;viristi mai na cerza
fari ‘a fagghjia*e ra cinniri fari ‘a
canigghjia;Viristi mai nta giugnu
nivicari e supra ‘u mari u
quagghjia ‘a nivi? Cu voli u viri i chisti
maravigghji mu nesci jocu avanti ‘a
cresiola ca trova cani, lupi e
vurpigghi chi cu pecuri e gajini fannu
scola. * fagghjia è il fiore
del faggio, fagu
Anonimo platiese, contemporaneo
lunedì 9 agosto 2021
Il grande cocomero [di Francesca Archibugi - 1993]
DIVAGAZIONI SU DI UN FRUTTO DI STAGIONE
E’ giunto il tempo dei cocomeri
Si mangia si beve e ci si lava la faccia... gridano i venditori del
saporoso mellone dinnanzì alle loro caratteristiche bancarelle su cui
troneggiano grosse fette porporine
II cocomero pare che sia
originario dell'India, ma noi lo avremmo preferito dell'Italia. E sapete
perché? Perché ha la buccia verde e, tra questa e la polpa rossa, una striscia
bianca, quindi i colori della bandiera italiana. Però possiamo essere contenti
lo stesso, perché ne ha avuto la cittadinanza fin dai tempi più antichi; da
quando cioè i romani cominciarono ad apprezzarlo per le sue buone qualità
nutritive.
Parlare di questo
gustosissimo frutto non guasta, anche perché è di stagione e ogni frutto che si
rispetti è sempre il benvenuto, dopo che l'abbiamo atteso, e magari desiderato,
per un anno intero. Infatti già lo vediamo rosseggiare invitante sulle
bancarelle dei Moschetti allestiti a bella posta nelle vie cittadine.
Questo proletario
cocomero è particolarmente gradito all'uomo, perché arriva proprio d'estate, a
puntino per rabbonirgli l'ugola asciutta e dissetarlo con una succosa fetta
zuccherina.
Di quella proprio gigante
che pare una caravella di Colombo e che quando si mangia, lava la faccia, disseta
e sazia ch'è un piacere...
Il cocomero, per le sue
qualità zuccherine, diuretiche e nutritive, è diventato oggetto di vera e
propria coltivazione su vasta scala, oramai tanto diffusa in Italia, da offrire
un proficuo e attivo commercio.
Particolarmente poi in
Calabria, per l'adattabilità del suo ottimo clima, vi sono estese e ricche
coltivazioni che danno eccellenti frutti d’un bel rosso acceso, eccezionalmente
grossi e saporosi. Infatti: Crotone, Curinga, S.
Eufemia Lamezia, Rosarno, tanto per citarne alcuni, sono i centri maggiori di
produzione dai quali i frutti vengono avviati in treno, o in autocarro sui vari
mercati cittadini. Dove, come dicevamo più sopra, li vediamo sistemati a mucchi
sulla paglia, o tagliati a fette falcate e fiammeggianti, bene allineate sulle
bancarelle dei tipici cocomerai che si affannano a gridare la loro succosa e
dolce mercanzia alla gente che passa: «...
Scialativi u cori c'un muluni a prova, duci comu u
zuccuru!...».
Questo «slogan» d'occasione, lo smaltiscono senza posa dalla mattina a notte
fatta; vociando, scalmanandosi, scegliendo questo o quel cocomero da consigliare
al cliente difficile e glielo palleggiano davanti agli occhi battendolo col
palmo della mano, facendoglielo perfino crocchiare allo orecchio per garantirgli
la perfetta maturazione del frutto...
Oppure tagliano «u tasseddu» che pare un ombelico mostruoso, da dove però
si può vedere il rosso fuoco dell'interno. E s'arrochiscono, gesticolano,
sudando le famosissime sette camicie, fin quando non riescono a metterlo in
bilancia. Allora con quella vittoria finale, si placano, soddisfatti...
A sentire loro fanno
tutto ciò a fin di bene, per deliziare cioè i palati rinsecchiti della gente
accaldata e arsa di sete... E forse non hanno torto...
Benvenuto, dunque, al
dolce cocomero! Sopratutto perché, umile di nascita, si prodiga con particolare
attenzione ad allietare l'umile, cioè il semplice lavoratore, che lo gusta non
solo come un saporoso frutto provvidenziale, ma addirittura come se fosse un buon
gelato, o che so io, un classico dissetante estivo...
Lo abbiamo definito
umile, perché non sa distaccarsi dalla terra, sulla quale rimane adagiato,
affezionato e buono, quasi a ripagarla con la sua compagnia per quello che gli
dona. E mentre cresce, maturandosi, il pacioccone, fa lunghi colloqui, traendone....
«dolce» saggezza. Ama la terra che gli dà la vita ed essa lo ricompensa, con
sincero e caldo amore di madre affettuosa; e lo nutrisce addolcendolo, e lo
satura di umori preziosi, spennellandolo perfino, da insuperabile artefice, dei
tre graditi colori: verde, bianco e rosso, colori che c'inducono ancora di più
a guardarlo con simpatia.
GIUSEPPE
CASCIANO
GAZZETTA
DEL SUD 2 agosto 1956
giovedì 8 luglio 2021
A braccia aperte [di J. Lee Thompson - 1964 ]
Chi scrive queste
note piace ricordare 'Ntoni Catanzariti nella nobile arte di mastru da cardara*. Ma non era solo
questo in quanto ha speso la sua breve vita tra la famiglia, numerosa, ed il lavoro.
E’ stato, e tale rimarrà, un esempio di antico platiotu con le tradizioni da
tramandare in seno alla famiglia. Nel poco tempo che gli rimase, come una
premonizione, percorse in Australia con l’inseparabile sposa quello che sarà un
viaggio di congedo dai propri cari che in quelle terre decisero di trapiantarsi,
come cerzi aspromontani.
giovedì 18 febbraio 2021
La rosa misteriosa [di Francis Ford -1914]
AD UNA ROSA PUDICA
RICORRENDO IL MESE DI OTTOBRE
Rosa pudìca, fra le spine nata,
Tu qui sul verde poggio sei ridente,
E come nell’aprile arrubinata!
Quando di autunno torbido e furente
Il vento spoglia agli alberi le fronde,
Euro sprezzi ridendo e Noto algente!
Dal semiaperto tuo sen si diffonde
Un odore bellissimo e fragrante,
Che siepi rende, o cara, e vie gioconde.
Non lascivo deturpi il tuo sembiante,
O con immonda mano e scelerata
Osi toccarti 'l fior tutto raggiante.