Powered By Blogger
Visualizzazione post con etichetta Flowers. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Flowers. Mostra tutti i post

giovedì 15 giugno 2023

Legami [di Pedro Almodóvar - 1990]

 

… condividere la lettura di qualche decina di libri è un vincolo più forte del sangue.
Cormac McCarthy, The Passenger, 2022



La pubblicazione odierna è per Domenico Polito editore nostrano.

martedì 23 maggio 2023

The Silver Chalice [di Victor Saville - 1954]


L’odierna pubblicazione la devo a Domenico Jermanò che giovanissimo per com’è, oltre a rincorrere per mari e monti la “Regina Angelorum”, si affanna a mantenere vive le tradizioni ecclesiastiche platiesi. Il calice, ben più prezioso del titolo in apertura, che nella base porta incisa la dicitura Il Cav. Francesco Oliva fu Rosario alla Madonna del Rosario – Platì Aprile 1905 è una sua scoperta. Le notizie sul donatore sono poche: figlio del citato Rosario e della nobildonna Marianna Morabito nacque a Platì il 29 marzo del 1852. Lasciò il Paese per stabilirsi in Gerace dove sposò la ventunenne signorina Francesca Serafina Maria Ferrante il 7 aprile del 1890 ed in quella cittadina visse. Lasciò le spoglie terrene il 22 aprile del 1939 a 87 anni.

 

 

mercoledì 16 novembre 2022

Il cammino del vino [di Nicolás Carreras - 2010]


BACCO IN... CALABRIA
LA VITE E IL VINO
fonti di ricchezza
Il prezioso liquido rosso è il segreto carburante della vita
della nostra regione forte e generosa, sobria e fantasiosa
 
Fermentazione. Questa parola gorgoglia, consuma, odora, in un remoto bisogno di mutare, di trasfigurare, di travolgere e ci induce a pensare a fatti omerici e meravigliosi.
La fermentazione avviene, meglio e più intensamente che altrove, nell'uva, nella quale per una specie di miracolo lo zucchero diventa alcol, il dolce diventa inebriante. Per poter capire qualcosa di questa complicata faccenda — che ha una gran parte nella storia, nell'amore e nell'odio degli uomini — bisogna visitare qualcuno dei più importanti centri di produzione del vino.
Il vino, di quello rosso intendo parlare, ha il colore e la temperatura del sangue, ha una latente drammaticità e mi fa quasi paura. Non saprei incominciare questo discorso, se da Noè che bevve per primo l'essenza spremuta dai grappoli e cadde poi in un profondo sonno, oppure da coloro che lo cantarono, e sono tanti. Redi cantava Bacco in Toscana, Io preferisco decantare Bacco in Calabria, poiché le sorgenti più generose più impetuose del vino, in una Italia che si chiama anche Enotria, sono notevoli e rinomate anche in questa regione, che ha subito tante vicende, e che cordialmente ci beve sopra.
In molte zone della Calabria si parla di geli, di dolci e di bibite squisite, ma a Castrovillari, Frascineto, Civita, Cassano, Donnici, Ciro San Biase, per il vino del quale non si parla e a cui si mostra di non pensare, si vive.
Infatti a Castromllari, qualcuno ricorda ancora girare, con una piccola otre a tracolla un vecchio che per un centesimo offriva un bicchierotto roseo, leggerissimo, detto «acquato».
A Cassano Ionio si ha ancora memoria di un celebre banchetto, che si consumò sopra uno degli spaziosi e monumentali tini del più ricco possessore di vigneti del luogo.
I vecchi ricordano ancora che nei luoghi dov'era penuria d'acqua, mentre il vino scorreva a torrenti, si dava, incredibile a dirsi, un litro di vino in cambio di un litro di acqua.
II vino è, dunque il segreto carburante della vita di questa regione forte e generosa, sobria e fantasiosa: ed è bene che sia così, perché le cantine molto più degli oleodotti sono, alla fine dei conti, necessarie a alla felicità.
Dionisio e Cerere sono, in Calabria, due amici fidatissimi, due fedelissimi sposi: ma, mentre Cerere è dappertutto onorata, m pochi luoghi come nelle campagne di Castrovillari, Ciro, San Biase, Dionisio mostra i segni della sua gloriosa personalità. Secondo il vino che gustano e che producono — si possono spiegare i drammi, le conquiste, le stranezze, le poesie delle diverse popolazioni.
Tra il vino e la poesia sta, anzi, un rapporto arcano, fondato sullo stesso grado di alcolicità e di colore.
Ebbene, eccettuate alcune zone della Sicilia, delle Puglie e della Toscana, nessun altro luogo d'Italia fa pensare al potere del vino come la Calabria, dove se ne produce del bianco, nero, rosso e di color rubino.
Se sono utili una educazione enologica ed una educazione viticola, entrambe, in Calabria, tono progreditissime.
Non vi parlerò di cifre, di cantine, di doghe, di botti, di tini e di vetro, di vinacciuoli e di bucche, di raspi, di distillazioni, di torchi, di botole, attraverso le quali si scende in un favoloso paesaggio, dove brulica una popolazione dalle mani paonazze. Ma vi dirò che in Calabria si cura il vino teneramente, come si può curare una amorosa o un neonato. E la bontà del vino, come si sa, dipende dalle cure che riceve.
Delicatissimo, quasi nervoso esso può alterarsi per un nonnulla. E i produttori calabresi hanno una sensibilità quasi lirica, quasi musicale del vino, interpretandone squisitamente l'età la resistenza, le forze le debolezze.
Ho visitato stabilimenti grandiosi in quel di Ciro — la città del vino per antonomasia in Calabria — ho visitato Frascineto, Cassano Ionio, San Biase, Donnici dove sono rivoli, fiumi, cateratte di vino.
È impressionante vederlo precipitare sotto terra, nelle capaci botti di vetro, quando sulla terra tutto appare ridente e tranquillo. È un torrente quasi minerario, un torrente di oro e di porpora. Sembra una emorragia di giganti!
Queste fontane occulte e scarlatte sono più spettacolose delle fontane di Trevi e dell'Esedra.
È la tempesta. La tempesta del vino è più spaventosa di quella dell'acqua, perché è illuminante, perché ha un odore selvaggio che atterra, perché ha impeti, marosi, muggiti che insieme esaltano e folgorano.
Il lavoro è intenso, quasi febbrile, in alcune ore dentro i vigneti, e in altre ore dentro i depositi, durante la vendemmia.
Poi, viene una assoluta pace, un'estasi e tutto dilegua tra sfumature giallognole, in un profumo lontano.
Il vino invecchia e nessuno sa quali tradimenti, quali emozioni serbano i fiotti, che dai barili passeranno nelle bottiglie e scoppieranno, poi, come cannonate sulle mense dei gaudenti, delle donne dannate o sul modesto desco dell'operaio, che suda e lavora.
Sui deschi dei patriarchi e dei monaci o nelle alcove dei peccatori giungeranno con nomi fatui e mondani, e saranno le bottiglie del perdono, della sanità, dell'oblio.
Riempiranno gli scaffali, popoleranno le biblioteche di coloro che preferiscono bere invece di leggere, che preferiscono il moscato alla filosofia e l'aleatico alla storia mentre le vaste sfere dell'immaginazione, attraverso la gola, sono per la maggior parte alimentate dagli opimi raccolti di quel frutto dorato dei vigneti della Calabria che hanno vinto tremende battaglie contro la filossera e la peronospera, l'oidio e la tignola.
E, per concludere, mi viene una bella idea. Gli alienisti dovrebbero censire gli alcolizzati; e, durante la vendemmia, dovrebbero essere incolonnati verso la Calabria per lavorare presso gli enopoli.
Quando il vino diventa una procella, quando non è più liquido ma è aria e asfissia, esso dà, ve lo assicuro, un indimenticabile terrore. Quel terrore guarirà sotto terra, gli ubriaconi una volta per sempre.
Questa è l'idea che ho a favore di coloro che si sono ammalati per ti vino e che nel vino stesso troveranno la salvezza.
In quanto alle persone sane, alle persone che, sopra la terra, sanno apprezzare e misurare questo dono di Dio, con deliziosa sapienza, io mi avvicino ad esse e torno a sussurrare: «Castrovillari, Frascineto, Civita, Cassano, Donnici, Ciro, San Biase».
Non è la cantilena di un ferroviere. È una tentazione, è un perfido consiglio.
FRANCESCO GESUALDI
GAZZETTA DEL SUD, 23 agosto 1957

 

giovedì 27 ottobre 2022

NOPE [di Jordan Peele - 2022]

 I will cast abominable filth upon you, make you vile, and make you a spectacle.” Nahum, 3.6

Carlo vive 




ed anche il Maestro

venerdì 15 luglio 2022

A Chiara [di Jonas Carpignano, 2021]

A Chiara (2021) di Jonas Carpignano è un film su cui si possono riservare ore su ore di dibattiti tanto è il coinvolgimento per chi riesce ad apprezzarlo. Il regista italo- americano ha eletto Gioia Tauro sua terra adottiva e a motivo di essa ci racconta la Calabria, o se volete, per dirla con parole attuali, la Città Metropolitana di Reggio Calabria. Importante per portare a termine in modo speciale il film in questione è la scelta stilistica e la volontà di ritornare alla pellicola, usando per questo mezzi tecnici leggeri che permettono al regista di stare sempre al passo, sempre in movimento, degli interpreti, restringendo il campo visivo, e risaltare la psicologia dei personaggi, senza dimenticare la maggiore resa cromatica. Il lavoro si può facilmente suddividere in quattro parti, più un segmento centrale che è la vetta più alta raggiunta nel lavoro del regista: la vita di una famiglia di Gioia Tauro; a Chiara; la sopravvivenza, l’epilogo. Ciò che non convince è proprio l’epilogo con “la svolta narrativa poco probabile”. Carpignano con un procedere che riporta alla lezione di Roberto Rossellini ci mostra la vita di una tipica famiglia calabrese di neo arricchiti.  Il suo quotidiano, come quello di una qualsiasi famiglia sulla terra, è crescere i figli nel modo migliore possibile, anche se esse sono tutte ragazze: la scuola, l’apparecchio odontoiatrico, la palestra, gli amici, i selfie, i diciotto anni della maggiore di esse, il trend che a volte emerge come kitsch. Chiara scoprirà presto che tutto questo ha un prezzo. Crescere ha un costo. Il segmento centrale citato: è il momento decisivo per Chiara, quasi una sorta di limite tra l’adolescenza e le future sofferte scelte, qui rivediamo Pio Amato passare dalla ciambra alla maturità, alla consapevolezza di sé, ad un futuro responsabile.

domenica 19 giugno 2022

L'istruttoria è chiusa: dimentichi [di Damiano Damiani 1971]

Don't you believe in medicine, Doctor?
Do you believe in justice, Judge?
René Claire, And Then There Were None (Ten Little Indians Went Out To Dine …), 1945


Solo io posso giudicarmi. Io so il mio passato, io so il motivo delle mie scelte, io so quello che ho dentro, io so quanto ho sofferto … io nessun altro. Oscar Wilde
Potranno tagliare tutti i fiori ma non fermeranno mai la primavera. Pablo Neruda
La cultura rende un popolo facile da guidare, ma difficile da trascinare. Facile da governare, ma impossibile a ridursi in schiavitù. Henry Brouham
Varie e molteplici sono le citazioni a cui ricorre Antonio Papalia (classe 1975), dalle Sacre Scritture a William Shakespeare ad André Gide, dentro il suo ultimo lavoro letterario e visivo: Stanze chiuse riflessioni dall’oscurità, 2000, BookSprint Edizioni*. I lettori platiesi, urbi et orbi, l’hanno ignorato preferendo i facili titoli da caffè. Un po' filosofo, un po' sognatore, fervente religioso. Dentro l’Istituzione che lo detiene, in solitudine e per necessità, corrisponde con il Cielo ed i terreni mortali da Sant’Agostino a Rutka Laskier, ad Alan Kurdi, spesso con il proprio figlio, il proprio padre. Tempo e spazio, infinito il primo, esiguo il secondo: la cella, "l'aria", la biblioteca. Dentro quest'ultima comincia la sua rinascita. “Iniziai a leggere qualche libro, o almeno tentavo,. Non capivo e non ricordavo nulla di quello, che leggevo, e allora cominciavo daccapo lo stesso libro, lo stesso capitolo, la stessa pagina, fino a quando non avevo compreso una piccola parte di quello che leggevo. Le prime volte era come se la testa dovesse scoppiarmi, ma poi, passo dopo passo quando chiudevo il libro e iniziavo a ricordare qualcosa, in qualche modo ero felice … Non mi importava cosa leggevo, anche perché non potevo avere chissà quale imbarazzo di scelta circa gli autori o le cose in genere… A arte il fatto che di autori non conoscevo alcuno, non avendo mai sino ad allora letto un libro”. A seguito dell’accanita lettura nasce l’esigenza dello studio, licenza di scuola media inferiore, diploma e studi universitari, questi ultimi non del tutto portati a termine. Da qui la consapevolezza di essere qualcuno, seppur vittima di un sistema che ignora i diritti umani. C’è da rilevare che il lavoro editoriale, su cui uno scrittore fa sempre affidamento, è a dir poco scadente essendo mancate da parte della casa editrice la revisione e una giusta presentazione, per non tacere sul lavarsi le mani in sede di responsabilità che non impegnano l’editore, lasciando all’autore le opinioni come nuove possibili sanzioni da Giudice Istruttore.


-*disponibile presso la tabaccheria di Gelsomino Barbaro a Platì.

lunedì 18 aprile 2022

Il fiore delle mille e una notte [di Pier Paolo Pasolini - 1974]



IN PROSSIMITÀ DELLA STATALE 106
La raccolta dei gelsomini
nella Valle di Bruzzano Zeffirio
È un lavoro veloce e delicato che dev'essere svolto con calma
Tra un coro e l'altro le belle giovani sognano ad occhi aperti
 
Bruzzano Zeffirio, 2 dicembre
II viandante notturno che da Reggio Cal.., percorrendo la statale 106 che guarda gli incanti dello Ionio, si sposti verso Catanzaro e voglia fermarsi nel tratto di strada che tra i paesi di Brancaleone e di Ferruzzano costeggia contrada Manzo appartenente al comune di Bruzzano Zeffirio, vedrà una vallata di alberi ed arbusti appena chiazzata dalle diafane luci delle stelle, maliziosamente accarezzata dal murmure delle onde che fomitano sulla soffice sabbia il tormento di antichi eroi Omerici che ancora gli irati Dei costringono ad errare di scogliera in scogliera per l'eternità.
Udrà un canto aleggiare fra gli arbusti, sperdersi in dolce armonia con un profumo meraviglioso verso le stelle, ed avrà l'impressione di sognare. Crederà per un attimo che le sirene, stanche di attirare sulle scogliere gli incauti naviganti, dopo avere abbandonato i dolci lidi, si siano trasferite a cantare la loro fatalità sulla terraferma, all'ombra di alberi ed arbusti. In quel grandioso giardino dove a migliaia crescono i gelsomini, questi strani minuscoli fiorellini bianchi dal suadente profumo.
Ma chi, verso l'alba e quando il sole dopo essere filtrato attraverso il rosso candore che in lunghe strisce si adagia al di sopra del mare in quell'ora maliosa, voglia sostare a lungo perché stanco del cammino o perché attratto da qualcosa d'insolito, vedrà una sterminata pianura di verdeggianti, filari cosparsi di bianchi fiorellini e tante donne, piccole e grandi, dai lunghi stivali e dai fazzoletti variopinti come vuole la tradizione più antica della Calabria, allungare vorticosamente le mani in un carosello che ha del miracoloso, strappare due, cento, mille fiorellini, riporli con cura nel sacchetto che ognuna tiene appeso alla cintola.
In quel luogo, per tutto il periodo estivo e sino all'ottobre inoltrato, si svolge la raccolta dei gelsomini, è un lavoro veloce e delicato perché  si deve pensare a raccogliere quanti fiorellini è più possibile e nello stesso tempo badare a non rovinare le piante che sono di una delicatezza estrema.
Le principianti dopo un lavoro di sei e sette ore riescono appena a raccogliere tre chili; ma le anziane, forti dell'elasticità acquisita in anni di esperienza, raccolgono anche sette e più chili.
Il lavoro viene svolto con calma e con gioia, e tra un coro e l'altro, le belle fioraie hanno tutto il tempo di sognare, là che il murmure del mare e la suadente bellezza del cielo cosparso di stelle invitano ai sogni, il loro principe azzurro.
Il maggior contributo di donne alla raccolta viene dato dal paese di Bruzzano che si trova a pochi km. di distanza, nell'interno, e precisamente nella tremenda vallata che guarda il grigio Scapperrone, i monti di Bova e le rosse timpe di Ferruzzano.
A Bruzzano, ogni notte, quando l'orologio della torre Civica tuona fortemente il rintocco delle ore piccole, deboli lumi si accendono nelle case e il silenzio delle vie viene rotto dal tonfo misurato degli stivali e dalle voci delle amiche che invitano alla sveglia le più pigre.
All'uscita del paese attende un rombante camion, e come ogni notte, come sempre e da anni ormai, non appena l'ultima donna è salita, parte ver so il luogo del lavoro.
Naturalmente non si marcia in silenzio perché il fatale mistero della Calabria, questa terra antica e favolosa che ama fomitare tutt'intorno da ogni albero, da ogni zolla e da ogni creatura, la sua pietà e la sua forte malinconia, spinge tutte le donne al canto; ed un sol coro si eleva allora verso il cielo in un'ansiosa ricerca di felicità e di bene, svolge lentamente, pacatamente, l'antico dramma di questa terra.
Sul luogo del lavoro, intanto, con altri mezzi sono giunte le donne di Brancaleone, civettuole e vanitose di quella vanità che è propria di chi vive nella marina; quelle di Razzà, serie e composte; quelle di Platì, silenziose ed austere; ed allora, tutte insieme, si dà inizio alla raccolta.
Compostamente, due per filare, incominciano a spogliare gli arbusti, alti qualche metro, dei bianchi leggerissimi fiori.
Cosi, per ore, immerse nel chiarore vellutato di queste notti d'estate piene dì stelle e di lucciole, raccolgono la loro vita, il pane quotidiano; e cantano canzoni vecchie quanto i tempi che i padri hanno ereditato dai padri e tramandato ai figli in questa fuga verso l'eterno che la Calabria nemmeno avverte, immersa com'è nel suo fatale lento cammino sulle stesse zolle di ieri e di sempre.
Quando la raccolta è finita e soltanto il verde dei filari chiazza la vallata, le donne ridendo e scherzando si recano nello stabilimento per la lavorazione per consegnare, dopo averlo pesato e fatto registrare, il bianco raccolto.
Il giorno più bello è quello del pagamento: allora la dolce fioraia che ha finalmente vinta la riluttanza dei familiari, riunitisi per l'occasione in serie e dignitosa assemblea, magari con la complice parola del fratello che andato a fare il soldato in regioni evolute ha visto e conosce il mondo, potrà finalmente tagliarsi i capelli ed affidarli alla corrente elettrica per una meravigliosa ricciolatura.
Per il vestito da indossare in occasione della prossima festa c'è tempo per l'altro pagamento.
Le anziane pensano alle scarpe da comperare alla figlia maggiore che va a sarta e deve figurare ed al problema del vettovagliamento che impone la sua ferrea legge specialmente quando lo sposo per mancanza di lavoro riscalda i marciapiedi del paese.
Ed ogni notte ritornano al lavoro, felici in quella pianura piena di fiori, di stelle e di lucciole, e cantano la profumata canzone della loro quotidiana fatica.
BILL MODAFFERI
GAZZETTA DEL SUD, 3 settembre 1956

La lavorazione del gelsomino per anni ha costituito un importante risorsa economica per le popolazioni della locride; anche molte donne e ragazze di Platì, come nel caso già riportato delle raccoglitrici di olive, vi hanno contribuito per aiutare le famiglie onde procastinare l'esodo verso altre terre.

Il documentario di Giuseppe Lisi del 1957, in edizione integrale, ricalca, sebbene con altri toni, il testo di Bill Modafferi.

giovedì 13 gennaio 2022

Matrimonio in famiglia [di Rick Famuyiwa - 2010]



DIVAGAZIONI IN CASA NOSTRA
Il rito nuziale
negli usi calabresi
Ad Africo, la cittadina dell'ultima punta
della Penisola, il matrimonio assume la più
vasta eccezione alla semplicità dei popoli
 
Africo 19 gennaio
Ad Africo la citta più strana dell'ultima, punta dì Calabria il rito del matrimonio non poteva che assumere la più vasta eccezione alla semplicità dei popoli rivieraschi. Nella compagine della città chimerica, che vive appollaiata sul cocuzzolo di un monte, come il purgatorio dantesco, distaccata quasi del tutto dalla gente, i matrimoni avvengono solo tra parenti ed addizionano, così, i difetti secondo una autorevole teoria fisiologica — niella scala delle generazioni, tramandando ai nascituri tare ed infermità. Sono i parenti a disporre delle parentele e così, in segreto che i soggetti da convogliare a nozze neppure lo sanno. Cosi come nel Sesto di S. Martino a Firenze nel 300, gli sponsali servivano ad integrare i rapporti di parentela, ugualmente ad Africo, le nozze non volgono che a colmare partite vuote nei bilanci famigliari della gente più in vista. Solo più tardi i designati s'incontreranno nella loro qualità di fidanzati, che vale soprattutto a stabilire in rapporti di reciproca suggestione da intensificare in un certo qual modo l’amore attraverso gli sguardi ansiosi dei futuri fidanzati. Poi un distacco reciso, fin tanto che i parenti non avranno sistemato le loro faccende, certamente più serie. Quando è stabilito il giorno delle nozze la vicinanza dei parenti s'intensifica ed i loro cori di gioia, si faranno sentire più da vicino. Viene così stabilito da certi decreti intimi il giorno delle nozze ed in tal giorno, le donne, completeranno nell'interno delle case agghindate a festa, l'abbigliamento della sposa; mentre gli uomini, fuori estraggono con mossa fulminea delle tasche castagnole ben dosate per scaraventarle con tutta forza contro le mura che custodiscono il loro amato bene e le gravi detonazioni faranno trasalire la verginità inquietante della sposa. I più vecchi scaricano di tanto in tanto in aria vecchi archibugi dalle polveri antiquate ma efficienti, mentre i sumpesseri, (i genitori dei rispettivi sposi), eseguono in aria lanci di confettini variopinti e con la verga bastoneranno di santa ragione i monelli che non vogliono allontanarsi.
Il corteo sfila davanti alla Chiesa. In testa la sposa col velo bianco e le donne; dietro lo sposo con la sempreviva al petto, e gli uomini. Al ritorno le madri spargeranno con solerte premura il grano sulla soglia di casa, prima dell'ingresso dei nuovi arrivati. Quindi i baci ed i convenevoli.
Ma, a sera, quando fa buio tutto tace, la sposa entrerà di soppiatto nella casa del tuo uomo e li riceverà ti bacio del primo incontro. Fuori, intanto, fervono le feste danzanti. Una gran torcia arde nei cortili che richiama tutto il vicinato. La serata è ad ingresso libero. La torcia, fatta di resina indiana e che l'uso popolare chiama Leda, sprigiona nuove fiamme rischiarando i volti degli intervenuti accoccolati intorno al fuoco, talvolta con aria stanca, se le libazioni della giornata sono stati abbondanti. Poi intorno all'allegra fiammata si snoderà la tarantella.
ARTURO GIURLEO
Foto e testo: GAZZETTA DEL SUD 20 gennaio 1957
 
Il testo di Arturo Giurleo è un piccolo tesoro di scrittura che riporta alla luce tradizioni ormai sepolte, anche tra i fogli di giornali di provincia, che diventano patrimoni di cultura. Dell'autore, come di tanti altri che hanno scritto sulla locride nella Gazzetta del Sud, le tracce si perdono negli archivi dello stesso giornale. 

lunedì 10 gennaio 2022

La costa del sole [di John Sayles - 2002]

SI ESTENDEVA DAL FIUME HOLEX A CAULON
L'antica regione della Locride
Oggi costituisce una delle zone più depresse della Calabria, malgrado
che un tempo sia stata fiorente, piena di vita e di intensa civiltà
 
La regione della locride si estendeva dal fiume Holex (attuale Amendolea), che segnava il confine del territorio reggino da quello locrese, al territorio di Caulon, nei pressi dell'attuale Marina di Monasterace, occupando quasi tutta la fascia litoranea dell'attuale provincia di Reggio Calabria bagnata dal glauco Jonio.
Una leggenda vuole che le cicale sulla sponda sinistra dell'Holex, in territorio locrese, fossero canore, mentre sulla sponda destra, in territorio reggino, fossero mute. Si spiegava il curioso episodio col fatto che Ercole, giunto esausto sulla sponda destra del fiume e non potendo prender sonno perché disturbato dal canto delle cicale, pregò ed ottenne da Giove che divenissero mute. Un'altra versione attribuisce alla maledizione lanciata da S. Paolo l'afonia delle cicale del territorio reggino, perché disturbato dal loro canto mentre predicava.
In vicinanza dello stesso fiume era Peripoli, colonia locrese messa a guardia del confine, non lontana dall'attuale Melito Portosalvo, cara alla storia del Risorgimento per il leggendario sbarco di Garibaldi nel 1860 e per quello del 1862, che ebbe per doloroso epilogo lo scontro fratricida di Aspromonte. Vi è ancora sotto le acque della rada di Melito la carinea del piroscafo «Torino» affondato dalle cannonate delle navi borboniche «Aquila» e «Fulminante», le quali inutilmente tentarono di ostacolare lo sbarco del 1860 e il corso della nuova storia.
Nei pressi di Melito, l'attenzione è attratta dalla caratteristica roccia di Pentidattilo, fantasiosamente illustrata in copertina da Sìmbari, una roccia gigantesca che si staglia nel cielo, a 400 metri di altezza, come una colossale mano dalle dita aperte, alla base del quale sono abbarbicati i ruderi di un vecchio castello medioevale, che ricorda le tragiche lotte tra le famiglie Alberti ed Abenavoli.
Lungo la linea ferroviaria Reggio-Catanzaro, che corre parallela alla statale 106 e vicinissima al mare, si allineano numerosi i nuovi paesi, lindi e civettuoli, scesi dalla marina alle colline retrostanti, attratti dalle nuove esigenze e dai nuovi mezzi del progresso umano.
Il capo Bruzzano (Zephyrlum promontonum), che si prolunga nel mare descrivendo un ampio arco con l'altra estremità di punta Stilo, ci ricorda lo sbarco in questa località dei primi coloni e la loro primitiva sede, prima di prendere dimora definitiva sul monte Epopis e fondare, nel VII secolo a. C, la città di Locri.
In alto, a circa 20 Km. a nord del capo Bruzzano, quasi al centro dell'ampio golfo, si erge maestosa l'amba conchiglifera sulla quale è ubicata Gerace, dominatrice delle ampie vallate dei fiumi Novito e S. Paolo. Vero baluardo naturale, Gerace, difesa a monte dal munitissimo castello, i cui resti testimoniano le vicende bizantine e normanne della gloriosa città, deve il suo nome alla voce greca «ieròs», sacro (città santa) o, secondo altri, a «ièrax», sparviero. Infatti, uno sparviero, o meglio un'aquila ad ali spiegate, è lo stemma del Comune. Vuole la leggenda che i profughi locresi, guidati dal volo di uno sparviero, si rifugiassero sulla rupe inaccessibile per sfuggire alle continue invasioni e razzie dei Saraceni. Quantunque in posizione ritenuta inespugnabile, venne tuttavia saccheggiata più volte dai Saraceni che, nel 952, inflissero ai Bizantini una grave sconfitta. La città conserva tuttora la struttura di una munita fortezza bizantina dell'alto medioevo e vi si accede ancora attraverso le porte del Borghetto e delle Bambarde per le strade irte e selciate, ai cui lati sono allineati vecchi palazzi, alcuni con bifore. La Basilica-Cattedrale stessa, vista dalla parte esterna delle tre absidi, ha il severo aspetto di una fortezza e le strette e lunghe finestre gotiche somigliano a vere e proprie feritoie.
Questa costruzione chiesastica - la più grande della regione - ha la forma di un vasto rettangolo di circa metri 26x75, con l'altezza alla cupola di circa m. 25 e con un dislivello esterno a est di circa m. 6, dove è situata l'ampia cripta. L'inizio della costruzione si fa risalire ai primi decenni del secolo, mentre è sicura la data della sua consacrazione, 1045, come si rileva da una targa in piombo incastrata nella terza colonna in «corno Evangeli», esistente al tempo del vescovo Pasqua. Tra le costruzioni coeve occupa un posto importantissimo l'icnografia della basilica latina a tre navate, divisa da venti colonne greche di marmo scanalate o lisce, sormontati da capitelli di vario stile e da archi falcati in tufo; la presenza del transetto sporgente triabsidato e della cupola; la cripta suddivisa da 24 colonne di granito, provenienti, come quelle delle navate, dai templi della vicina Locri, sono elementi efficaci a dimostrare l'ardita e vasta concezione architettonica dell'opera, ideata e portata a termine da esperti architetti.
L'insigne archeologo Paolo Orsi, al quale tanto deve la nostra terra per le sue importanti scoperte archeologiche, la definì «la più importante e grandiosa costruzione della Calabria, il più sontuoso monumento della regione».
Nei recenti restauri e scavi nella cripta (1955), si è rinvenuta, tra l'altro, una primitiva sacra mensa e si è riscontrato che la costruzione dell'XI sec. è sorta con un preesistente complesso edilizio dei secoli VII e VIII.
Nei pressi della Basilica-Cattedrale sorge, più in alto, il castello (m. 480), costruito sulla viva roccia, tagliato particolarmente tutt'intorno per renderlo inaccessibile da tutti i lati. Un profondo fossato verso il lato est lo divideva dalla città alla quale era unito solo attraverso il ponte levatoio. Dalla sommità del castello, l'occhio spazia sul mare da capo Bruzzano a punta Stilo, dalle ampie vallate circostanti ai pianori della Milea, alle giogaie dell'Aspromonte.
In questo castello, ormai in gran parte distrutto, sotto la dominazione normanna, nella sala di Mileto, pare sia avvenuta la pacificazione tra il conte Ruggero e suo fratello Roberto.
Altri tesori d'arte contiene la vetusta città: la chiesa di San Francesco, in completo abbandono e quasi distrutta, in stile romanico - gotico, del 1252 dal bel portale ogivale a costoloni, con decorazioni di carattere arabo-normanno, e la piccola chiesa di S. Giovannello, dalle caratteristiche forme (abside semicircolare).
Gerace ebbe, nel passato, grande importanza politica, militare e religiosa, e durante la dominazione borbonica fu capoluogo del distretto e sede di tutti gli uffici. Nel 1847 ebbe luogo nel suo distretto l’insurrezione liberale, coordinata con i moti di Reggio e Messina; ma, fallito il moto, dopo sommario processo, nella sottostante piana della città, il 2 ottobre 1847, vennero fucilati: Michele Bello, Pietro Mazzoni, Domenico Salvatori, Gaetano Ruffo e Rocco Verduci, antesignani del Risorgimento della patria.
Ai piedi della rocca geracese appare, adagiata come in un sonno di secoli, la pianura, verdeggiante di ulivi e di pampini di vite, e le colline della Mannella, Abbadessa, Janchini e Patarriti, sulle quali sono vivi e parlanti gli avanzi di una città dalle tradizioni gloriose e millenarie, che dette al mondo occidentale il primo codice di leggi scritte: Locri.
Da Locri si scorge il caratteristico castello di Roccella con torre di vedetta, armato con artiglierie e caposaldo di resistenza nell'ultima guerra mondiale; sia la torre, però, che il castello sono in pessime condizioni di staticità e quasi distrutti. Il castello subì vari assedi da parte dei Saraceni, il cui capo, Dragut, invano lo assali, rinunziando all'impresa quando ebbe colpite diverse navi dalle colubrine del castello.
Chiude l'ampio golfo l'estremità di Punta Stilo (il Concyntum promontorium degli antichi), sotto il cui faro sono visibili i resti di tempio dorico.
In alto, alle spalle del Faro, sulla vasta e brulla montagna del Consolino, sorge abbarbicata alla roccia la storica cittadina di Stilo, della quale l’insigne archeologo Paolo Orsi scrisse: «Stilo, annidata sulle rocciose pendici del monte Consolino, sbarrando la pittoresca e storica vallata sottostante, che poi si serra e sale erta e rapida alla regione centrale e appenninica, selvaggia e ricca di selve secolari, Stilo così piena di ricordi bizantini e normanni e patria del fiero e turbolento monaco Tommaso Campanella, che nel secolo XVII con le sue ardite teorie politiche e sociali mise a soqquadro il Mezzogiorno, è tutta dominata da questa piccola gemma dell'arte bizantina - la Cattolica - incastonata su un brevissimo risalto dell'Aspromonte. Ed è oggi entro la piccola città l'unico e prezioso avanzo superstite della bizantinìtà, che altri e certo pregevoli monumenti sono tutti scomparsi, travolti dalle tristi vicende, che per quasi un millennio attraversò Stilo, ultimo il sacco e l'incendio perpetrato dai Francesi nel 1804».
La Cattolica, bellissima piccola chiesa bizantina dalle linee caratteristiche orientali, vero gioiello d'arte pervenuto fino a noi quasi intatto, riproduce un tipo di chiese spesso ripetute in Georgia, in Armenia e nel Peloponneso. Costruita sopra un limitato ed angusto ripiano del monte, domina la città di Stilo; è una costruzione quadrata sormontata da cinque basse cupole con tre absidette volte ad oriente. L'interno, di appena sei metri di lato, è diviso da quattro colonne in tre piccole navate o nove quadrati uguali: le colonne, due di cipollino, una di granito ed una di marmo bianco, provengono da templi antichi e sono dotate di capitelli diversi. Importantissima la prima colonna a destra, sulla quale è scolpita una greca iscrizione, che tradotta, dice: «Dio è il Signore apparso a noi».Paolo Orsi, che vivamente si interessò per i restauri, efficacemente coadiuvato dai mezzi finanziari concessi dalla sensibilità della Regina Margherita, la definisce «...insigne monumento bizantino, il più bello, il più completo della Calabria; malgrado la sua piccola mole, anzi appunto per essa in particolare, desta l'ammirazione degli studiosi».
La plaga descritta, che è tutta la costa jonica della provincia, è una delle contrade più depresse della regione calabrese, malgrado che nell'antichità sia stata fiorente, piena di vita e di intensa civiltà.
Deleteria azione degli agenti atmosferici e tellurici, incuria di uomini, hanno trasformato gran parte di questa terra in brulle colline argillose e in aridi terreni. Solo nella fascia costiera, dove la tenacia dell'uomo ha conteso palmo a palmo l'humus all'avverso destino, la terra è coltivata ad ulivi ed agrumi.
Con l'avversità degli elementi e la incomprensione dell'uomo fanno stridente contrasto le bellezze naturali della regione: i panorami paradisiaci, il cielo di cobalto, i purpurei tramonti, la tradizionale ospitale cortesia del calabrese, il profumo della zagara che si sposa a quello del gelsomino, la mitezza del clima, rendono la nostra terra un giardino sempre fiorito.
U. Sorace Marasca
Gazzetta del sud 17 gennaio 1956


In apertura l'ingresso della prigione dei cinque martiri di Gerace

sabato 1 gennaio 2022

La vita semplice [di Francesco De Robertis - 1945]



In tutta semplicità come è stata la sua vita
ci ha lasciati con tutta la sua memoria
CARLETTO ZAPPIA
di Pasquale e Caterina Lentini
25 novembre 1928 - 1 gennaio 2022
queste pagine e I LOVE PLATI'
a lui devono molto



domenica 12 dicembre 2021

Fiori nel fango [di Douglas Sirk - 1949]


 Cani di quagghjia, fa cani di caccia quagghjia,
la vurpi, li vurpigghji quandu figghjia;
viristi mai na cerza fari ‘a fagghjia*
e ra cinniri fari ‘a canigghjia;
Viristi mai nta giugnu nivicari
e supra ‘u mari u quagghjia ‘a nivi?
Cu voli u viri i chisti maravigghji
mu nesci jocu avanti ‘a cresiola
ca trova cani, lupi e vurpigghi
chi cu pecuri e gajini fannu scola.
 
fagghjia è il fiore del faggio, fagu

Anonimo platiese, contemporaneo



lunedì 9 agosto 2021

Il grande cocomero [di Francesca Archibugi - 1993]




DIVAGAZIONI SU DI UN FRUTTO DI STAGIONE

E’ giunto il tempo dei cocomeri

Si mangia si beve e ci si lava la faccia... gridano i venditori del saporoso mellone dinnanzì alle loro caratteristiche bancarelle su cui troneggiano grosse fette porporine



II cocomero pare che sia originario dell'India, ma noi lo avremmo preferito dell'Italia. E sapete perché? Perché ha la buccia verde e, tra questa e la polpa rossa, una striscia bianca, quindi i colori della bandiera italiana. Però possiamo essere contenti lo stesso, perché ne ha avuto la cittadinanza fin dai tempi più antichi; da quando cioè i romani cominciarono ad apprezzarlo per le sue buone qualità nutritive.
Parlare di questo gustosissimo frutto non guasta, anche perché è di stagione e ogni frutto che si rispetti è sempre il benvenuto, dopo che l'abbiamo atteso, e magari desiderato, per un anno intero. Infatti già lo vediamo rosseggiare invitante sulle bancarelle dei Moschetti allestiti a bella posta nelle vie cittadine.
Questo proletario cocomero è particolarmente gradito all'uomo, perché arriva proprio d'estate, a puntino per rabbonirgli l'ugola asciutta e dissetarlo con una succosa fetta zuccherina.
Di quella proprio gigante che pare una caravella di Colombo e che quando si mangia, lava la faccia, disseta e sazia ch'è un piacere...
Il cocomero, per le sue qualità zuccherine, diuretiche e nutritive, è diventato oggetto di vera e propria coltivazione su vasta scala, oramai tanto diffusa in Italia, da offrire un proficuo e attivo commercio.
Particolarmente poi in Calabria, per l'adattabilità del suo ottimo clima, vi sono estese e ricche coltivazioni che danno eccellenti frutti d’un bel rosso acceso, eccezionalmente grossi e saporosi. Infatti: Crotone, Curinga, S. Eufemia Lamezia, Rosarno, tanto per citarne alcuni, sono i centri maggiori di produzione dai quali i frutti vengono avviati in treno, o in autocarro sui vari mercati cittadini. Dove, come dicevamo più sopra, li vediamo sistemati a mucchi sulla paglia, o tagliati a fette falcate e fiammeggianti, bene allineate sulle bancarelle dei tipici cocomerai che si affannano a gridare la loro succosa e dolce mercanzia alla gente che passa: «... Scialativi u cori c'un muluni a prova, duci comu u zuccuru!...».
Questo «slogan» d'occasione, lo smaltiscono senza posa dalla mattina a notte fatta; vociando, scalmanandosi, scegliendo questo o quel cocomero da consigliare al cliente difficile e glielo palleggiano davanti agli occhi battendolo col palmo della mano, facendoglielo perfino crocchiare allo orecchio per garantirgli la perfetta maturazione del frutto...
Oppure tagliano «u tasseddu»  che pare un ombelico mostruoso, da dove però si può vedere il rosso fuoco dell'interno. E s'arrochiscono, gesticolano, sudando le famosissime sette camicie, fin quando non riescono a metterlo in bilancia. Allora con quella vittoria finale, si placano, soddisfatti...
A sentire loro fanno tutto ciò a fin di bene, per deliziare cioè i palati rinsecchiti della gente accaldata e arsa di sete... E forse non hanno torto...
Benvenuto, dunque, al dolce cocomero! Sopratutto perché, umile di nascita, si prodiga con particolare attenzione ad allietare l'umile, cioè il semplice lavoratore, che lo gusta non solo come un saporoso frutto provvidenziale, ma addirittura come se fosse un buon gelato, o che so io, un classico dissetante estivo...
Lo abbiamo definito umile, perché non sa distaccarsi dalla terra, sulla quale rimane adagiato, affezionato e buono, quasi a ripagarla con la sua compagnia per quello che gli dona. E mentre cresce, maturandosi, il pacioccone, fa lunghi colloqui, traendone.... «dolce» saggezza. Ama la terra che gli dà la vita ed essa lo ricompensa, con sincero e caldo amore di madre affettuosa; e lo nutrisce addolcendolo, e lo satura di umori preziosi, spennellandolo perfino, da insuperabile artefice, dei tre graditi colori: verde, bianco e rosso, colori che c'inducono ancora di più a guardarlo con simpatia.
GIUSEPPE CASCIANO
GAZZETTA DEL SUD 2 agosto 1956



In apertura ciurramiche angurie.
Tennessee Ernie Ford è stato un cantante di country & western, Leo Kottke è n maestro riconosciuto di fingerpicking

giovedì 8 luglio 2021

A braccia aperte [di J. Lee Thompson - 1964 ]


Antonio Catanzariti
di Paolo Francesco e Maria Portolesi
7 marzo 1946 - 7 luglio 2021

Chi scrive queste note piace ricordare 'Ntoni Catanzariti nella nobile arte di mastru da cardara*. Ma non era solo questo in quanto ha speso la sua breve vita tra la famiglia, numerosa, ed il lavoro. E’ stato, e tale rimarrà, un esempio di antico platiotu con le tradizioni da tramandare in seno alla famiglia. Nel poco tempo che gli rimase, come una premonizione, percorse in Australia con l’inseparabile sposa quello che sarà un viaggio di congedo dai propri cari che in quelle terre decisero di trapiantarsi, come cerzi aspromontani.



 https://iloveplati.blogspot.com/2016/01/pranzo-reale-reg-malcolm-mowbray-1984.html
 

giovedì 18 febbraio 2021

La rosa misteriosa [di Francis Ford -1914]


FRANCISCO XAVERIO MANGERUVA
EPISCOPO DESIDERATISSIOMO HJERACII
EXCIPE. QUI SUMMUM PASTOREM FORTITER ARDES,
VERSUS, QUOS ILLI CANDIDO AMORE SACRO


 
SAC. GIUSEPPE FERA-ITALIANI DA PALTI' (REGGIO CALABRIA)

 LEONE XIII
AD UNA ROSA PUDICA
RICORRENDO IL MESE DI OTTOBRE

Rosa pudìca, fra le spine nata,
Tu qui sul verde poggio sei ridente,
E come nell’aprile arrubinata!


Quando di autunno torbido e furente
Il vento spoglia agli alberi le fronde,
Euro sprezzi ridendo e Noto algente!


Dal semiaperto tuo sen si diffonde
Un odore bellissimo e fragrante,
Che siepi rende, o cara, e vie gioconde.


Non lascivo deturpi il tuo sembiante,
O con immonda mano e scelerata
Osi toccarti 'l fior tutto raggiante.


 Di rie sozzure giovana imbrattata,
 Del tuo Vermiglio fior non mai corona
 Sopra il suo biondo crin metta intrecciata!

 Nota Il sacerdote Giuseppe Fera, è stato il secondogenito di Francesco, speziale, e Giuseppa Italiani. Nipote di Michele, ferraro, e Candida Nirta, era nato a Platì il 5 marzo del 1845. Alla missione apostolica unì la passione per il bel poetare con il gusto neoclassico che andava in quei tempi. Di lui restano due Elegie in latino dedicate al vescovo Francesco Saverio Mangeruva ed un tempestivo poemetto intitolato Un sospiro su Casamicciola pubblicato nell’agosto 1883 a seguito del terremoto che colpì l’isola di Ischia e le zone circostanti nel luglio di quell’anno. A questa succinta biografia di don Giuseppe Fera possiamo solo aggiungere che fu nipote dell’arciprete rettore del Santuario di Polsi don Domenico Fera (1792-1856).

Il testo originale in apertura riportato lo devo a Francesco di Raimondo.