lunedì 10 ottobre 2022
Voci da Platì [di AA. VV. - 2022]
giovedì 29 settembre 2022
U tempu da 'stati "a.k.a." SUMMERTIME [di David Lean - 1955]
I cotrareji jòcanu e non si faci friddu;
to’ patri è rriccu e to’ mamma è ‘na bellezza,
acchì matina i chisti
ti risbigghi e ti trovi cu’ l’ali ….”
“Ero più che adolescente quando Dominic Violi (pratioto puro sangue, figlio di miei parenti emigrati, ma nato e vissuto in America), occasionalmente a Platì in una delle sue prime rimptriate, mi tradusse estemporaneamente in perfetto dialetto platiese (rectius: pratiòto) un brano di Porgy and Bess di Gershwin. Si trattava dell’aria “Summertime”, che stavamo ascoltando insieme da un disco di Ella Fitzgerald”. Poiché non capivo un’acca di inglese, Dominic traduceva, canticchiando e seguendo la melodia”. Michele Fera
Summertime
Summertime,
And the livin' is easy
Fish are jumpin'
And the cotton is high
Oh, Your daddy's rich
And your mamma's good lookin'
So hush little baby
Don't you cry
One of these mornings
You're going to rise up singing
Then you'll spread your wings
And you'll take to the sky
But until that morning
There's a'nothing can harm you
With your daddy and mammy standing by
Summertime,
And the livin' is easy
Fish are jumpin'
And the cotton is high
Your daddy’s rich
And your mamma's good lookin'
So hush little baby
Don't you cry
Tempo d'estate
Tempo d’estate,
e vivere è facile:
i pesci stanno saltellando
e il cotone è alto.
Oh, il tuo papà è ricco
e la tua mamma è bellissima:
quindi stai zitto, piccolino,
non piangere.
Una di queste mattine
ti alzerai dal letto cantando;
poi spiegherai le tue ali
e andrai in cielo.
Ma fino a quella mattina
non c’è niente che possa farti male
con il tuo papà e la tua mamma che ti assistono.
Tempo d’estate
e vivere è facile:
i pesci stanno saltellando
e il cotone è alto.
Oh, il tuo papà è ricco
E la tua mamma è bellissima:
quindi stai zitto, piccolino,
non piangere.
Il brano in inglese è di DuBose Heyward e Ira Gershwin, Porgy and Bess di George Gershwin è del 1935
originale e traduzione sono qui:
https://lyricstranslate.com/it/summertime-tempo-destate.html
Nella foto d’apertura zia Amalia e zia Gemma con le cugine Tripepi arrivate da Mishawaka IN nei primi anni ’60 del passato secolo.
sabato 23 luglio 2022
Piccola Posta [di Steno, 1955]
La formazione di quest'organo nel nostro centro riveste una enorme importanza, sia dal punto di vista sindacale, che da quello politico. Non sappiamo se sia una pura coincidenza il fatto che quasi contemporaneamente all'istituzione di quest'organo la fontana della vaschetta situata nella Piazza 24 Maggio, abbia ripreso dopo un lungo periodo di inerzia a zampillare
Mancano però, dell'anticamera dei locali medesimi, delle panche su cui il pubblico possa trovare posto nelle giornate di punta, in attesa del turno
GAZZETTA DEL SUD 22 giugno 1956
Il nuovo edificio, che sorga in un'area vastissima e centrale, sarà dotato di tutti i «conforts», e ospiterà circa centocinquanta bambini.
GAZZETTA DEL SUD 23 giugno 1956
(M. F.) - È stato trasferito l'ufficio postale del nostro centro, dall'angusto locale della lontana Piazza Duomo, In un moderno e arioso edificio di via XXIV Maggio. Il nuovo locale, oltre ad essere più ampio del precedente, più centrale e quindi più accessibile ai cittadini.
Anche i mobili dell'arredamento che prima erano costituiti da vecchio ciarpame antirazionale ed antiestetico, sono stati sostituiti con mobili nuovi fiammanti e di stile novecento.
Siamo grati all'Amministrazione Provinciale delle Poste e Telegrafi per questi tanto attesi provvedimenti.
MICHELE FERA
GAZZETTA DEL SUD 26 giugno 1956
Forse è già
stato detto: le corrispondenze da Platì di Michele Fera pubblicate sulla
Gazzetta del Sud dal 1955 al 1959 riemergono oggi come una cronaca minimalista
della vita cittadina. Non che sullo stesso quotidiano in quei tempi non siano
apparse notizie di tutt’altro genere, per quei tipi di cronistorie c’erano diversi
corrispondenti provenienti da altre zone. Erano gli anni a ridosso del doppio diluvio,
1951 e 1953, il paese cercava di risorgere dalle catastrofi, tentava contatti
col mondo esterno sia attraverso i sindacati, i partiti, gli studenti come
anche attraverso i fuggiti in cerca di lavoro. Il futuro era incerto,
all’incertezza si associava lo sbarramento, le negazioni che ancora oggi
soffocano chi ha scelto con coraggio di rimanere. Per chi in quei tempi era
adolescente le redazioni di Michele Fera diventano nostalgia, per chi è venuto
dopo una scoperta. L’occasione di oggi è anche un momento per ricordare don
Ferdinando Zappia il quale oltre a distribuire la luce elettrica distribuiva
servizi postali ed era il proprietario del sito su cui sorgerà il nuovo asilo infantile.
domenica 17 luglio 2022
Il concorso [di Philippa Lowthorpe, 2020]
Concorso fotografico del giugno locrese
Il terzo concorso fotografico bandito dalla Foto Attualità «Polifroni», nel quadro delle manifestazione del Giugno Locrese ha ottenuto, quest'anno, un successo pieno.
Il primo premio per il ritratto è stato aggiudicato alla fotografia «Na vuci, na chitarrae na... spera e suli», eseguita dal prof. dr. Alfredo Gasparro da Siderno.
Siamo certi che anche l'anno prossimo il concorso fotografico sarà organizzato e riscuoterà un nuovo meritato successo.
GAZZETTA DEL SUD 8 giugno 1956
In apertura la vincitrice per la figura ambientata «Vecchi di San Luca».
mercoledì 13 luglio 2022
La valle della sete [di Edward F. Cline, 1935]
giovedì 16 giugno 2022
Scarpe grosse [di Dino Falconi 1940]
mercoledì 11 maggio 2022
Il corpo della sposa [di Michela Occhipinti - 2019]
Platì, 19 gennaio
La strana conformazione della sua testa indusse i parenti a metterle il soprannome di «Testa di Jizzo».
Testa di lizzo non capì la profezia, né si preoccupò di farsela spiegare; lei, infatti, unica nel suo villaggio, disprezzava la Saggia Sibilla, venerata da tutti.
Il tempo passò, a poco a poco, e Testa di Jizzo si fece donna.
Un giorno la cicogna portò ai due coniugi un bambino, piccolo e grigio come un pezzo di ferro. La donna, ripensando con sospetto alla profezia della Saggia Sibilla, lo soffocò di notte, con un cuscino.
Il marito credette che il bambino fosse morto da solo, e non disse niente. L'anno dopo, però, ne nacque un altro; stavolta era verde come una foglia d'edera. La selvaggia donna non esitò a sopprimere anche lui.
Passò un altro anno e i due coniugi ebbero un terzo figlio. Questa volta, il marito, che si era insospettito, non permise alla moglie di restare sola col neonato, e così salvò quest'ultimo.
Testa di Jizzo non si diede per vinta. Quando il terzo figlio ebbe raggiunto l'età di dieci anni, lo portò con sé in montagna per abbandonarlo ai lupi, in mezzo alla neve. La Sibilla la vide mentre stava per attuare l'infame progetto e decise di salvare il piccolo.
Prese di peso la madre afferrandola dalla piccola testa, la scaraventò nei mari del Nord dove divenne un Iceberg.
E il piccolo, invece, fu salvato da un mulattiere che passava da quei paraggi e che, saputa la storia dalla Saggia Sibilla, la tramandò a noialtri.
Il resto della storia, cioè la fine che fece il piccolo non ce lo disse. Ma chi volesse saperla può andare a chiederla alla Sibilla, che, benché vecchia, tuttavia gestisce ancora, tra le grotte dell'Aspromonte, il suo ufficio informazioni.
MICHELE FERA
GAZZETTA DEL SUD, 20 gennaio 1956
giovedì 21 aprile 2022
La guerra continua [di Leopoldo Savona - 1962]
ora simu tutti disarmati;
eppuru Mussulini accussi dici
disarmau li greci e l’arbanesi
e si pigghiau puru li spiti.
Vi pregu amici mei non v’affriggiti
ca cu lu parmu chi misuramu simu misurati;
lu merlu e la marvizza chi dici?
Ora cazzi ca mi sparati:
mi mangiu ‘a livi e nenti mi faciti.
Puru lu lepru cu’ li ricchi tisi
ora li poti levari smandalati.
Oramai lu popolu borghisi
si trovanu tutti quanti disarmati
se lu ppura la gurpi apoi viditi
li gajini sunnu tutti sterminati.
La gurpi é latra, chi vui lu sapiti,
si fa patruna di li cerdinati.
Se lu ’ppura lu lupu chi diciti
si mangia li pecuri e puru li crapi.
E li pasturi vogghiu mu avvertiti
nt’e casetti nommu dorminu squatati.
Il testo riportato è conservato, senza titolo, nell’archivio personale di Ernesto Gliozzi il vecchio. Mimmo Marando sulla rivista PLATI’, gennaio ’98, lo attribuisce ad un anonimo platiese, anno 1943 e con il titolo Storia d’i scupetti (1945), un po' diverso nell’incipit e senza nessun commento. È probabile che, come molti altri testi pubblicati da Mimmo, fosse appartenuto alla famiglia di Michele Fera. Secondo un esperto di poesia calabrese a cui è stato inoltrato, il carattere cantilenante dell’opera è tipico dei primi anni del millenovecento nella poesia dialettale calabrese.
In
apertura la Valle del Bonamico con sullo sfondo Pietra Cappa in uno scatto di Giuseppino,
dottor, Mittiga, dei primi anni ‘20
giovedì 31 marzo 2022
Addio vecchia città [di Edgar Reitz - 1975]
BOZZETTO CALABRESEPOTAMIA
LA CITTA' FRA I DUE FIUMIrivive
nelle vecchie leggende calabresi Platì, 30 dicembre.Poco
lontano da San Luca, su un’altura, si trovano i pochi ruderi rimasti
dell’antica città di Potamia, il luogo e solitario, di tanto in tanto frequentato
da qualche pastore che vi porta il gregge.Potamia
derivò il suo strano nome dall’Essere posta tra due fiumi; ma non per questo bisogna
confonderla con la Mesopotamia. Questa infelice posizione determinò la sua immatura
fine. Immatura, certo, perché stando alle testimonianze degli storici, Potamia ebbe
solo dieci secoli di vita: pochini per una città. Ma in
Calabria non bisogna lamentarsi; i paesi calabresi, infatti, sono destinati a
fare prima o poi, la medesima fine di Potamia, grazie alle azioni coordinate
delle alluvioni e della incuria dei governi. Eppoi, Pandore, l’altra antica
città calabrese, non visse soltanto tre secoli e mezzo!La
tecnica che i due fiumi seguirono per levare di mezzo Potamìa fu semplice e tradizionale:
scavare lentamente alla base il monte su cui era posata la città; le frane, a
poco a poco, ridussero questa un mucchio di pittoresche rovine.Un
tentativo di estremo salvataggio i Potamioti
lo fecero, prima di abbandonare le proprie case: cercarono di tirarsele
altrove per mezzo di corde; ma le corde erano di lana e si rompevano prima che
la casa si muovesse dalla sua posizione.Questo,
naturalmente, lo dice la leggenda. Potamia era una graziosa cittadina, fornita
di sindaco e di assessori municipali. Il sindaco era, a detta di tutti, una
gran testa; ma neanche gli assessori scherzavano.Un bel
giorno di aprile dell'anno 1543 (ma può darsi che sia stato anche l'anno 1654,
o l’anno 1948) il sindaco e gli assessori si riunirono nel palazzo del Comune,
per prendere gravi decisioni. Fu una seduta laboriosa; noi lo abbiamo appurato
attraverso un nostro conterraneo che aveva il nonno del nonno di suo nonno che
esercitava a quei tempi la professione di Testimone Oculare.Tra
gli altri provvedimenti presi, fu in particolare stabilito: di nominare un
vice-sindaco che sapesse fare la firma con lo svolazzo, giacché quello in
carica riusciva a malapena a disegnare le “o”- col bicchiere.Di
dimezzare lo stipendio allo spazzino comunale, poiché aveva preso moglie ed era
pertanto diventato “la metà” di questa.- Di
costringere gli abitanti a trovare amici presso le città vicine, in modo da
rinsanguare l’erario (si sapeva anche allora che chi trova un amico trova un
tesoro).- Di
sovvenzionare un viaggio del sindaco e degli assessori, che dovevano andare in missione
segretissima presso la vicina città di X. E con quest’ultima conclusione, la
seduta si sciolse.Il
giorno dopo, il sindaco e gli assessori partirono per la loro missione
segretissima;la
popolazione pianse un po' di commozione, e qualcuno fece un breve elogio
funebre, giacché, si sa, “partire è un poco morire”.Ma i
nostri eroi, inforcarono fieramente gli scalpitanti ronzini, e si avviarono giù
per la vallata.Sulle
montagne c’era un metro e mezzo di neve; ma gli amici si erano premuniti e avevano
lasciato a casa i mantelli e i maglioni, dopo aver bene ascoltato le previsioni
del tempo, alla radio. Non si venga ad obiettare che a quei tempi radio non ne
esistevano; abbiamo detto, infatti che la vicenda si poté svolgere anche nel
1948.Durante
il viaggio, ognuno taceva e badava a battere i denti dal freddo (si intende,
che ognuno batteva i propri).A un
tratto, il più piccolo di tutti, Levantino, ruppe il silenzio per chiedere a
Donizò, assessore anziano:- “Comparuccio,
mi spiegate un pò le ragioni di questa missione?”- Non
l’avesse mai mai detto; gli rispose un tale coro di zittii, che l’asino,
imbizzarrito, per poco non lo scaraventò a terra.- “Scemo”
- gli urlò sottovoce Donizò - “se noi sapessimo le ragioni di questa missione, essa
non sarebbe più segreta e potremmo tomarcene a casa. Tu vorresti tomare a casa,
dì?”- Ma nemmeno per sogno, compare” - si affrettò
a chiarire il malcapitato - “se tomo a casa perdo l'indennità di trasferta!E la
comitiva riprese in silenzio il suo cammino.Dopo
alcune ore di marcia, i potamioti sentirono un urlo di dolore, lacerare l’aria:
era caduta la sera. Tentarono premurosamente di rialzarla, ma non ci riuscirono
e stabilirono di trovare un luogo dove passare la notte.Per
fortuna erano arrivati davanti alla porta della città X.Qui il
sindaco si fece anzitutto un dovere d'informare gli assessori che la missione
era troppo segreta, perché si potesse sapere la ragione della sua fine.
Levantino tacque pienamente convinto.Ora
bisognava accamparsi per trascorrere la notte; ma dove?Entrare
nella città non si poteva perché la grande porta era stata chiusa; gli
assessori si rivolsero al sindaco per avere il suo parere; il sindaco non li
deluse. Stabilì infatti, che stare da una parte o dall`altra della porta della
città era la medesima cosa; bastava solo immaginare che l'esterno fosse dalla
parte opposta.Gli
assessori seguirono il consiglio e, coricatisi ai piedi della porta della città
di X, immaginarono che l'interno fosse dalla loro parte, e l'esterno dall’altra.I nostri
assessori, dunque, stavano saporitamente dormendo, quando si accostò a loro un
bello spirito che, dopo averli osservati un pò, si divertì a rifare loro i
connotati con l’aiuto di un pezzo di carbone. Figurarsi quando, la mattina, i
nostri amici si svegliarono!- “Tu
non sembri più tu; devi essere qualche altro”, - disse il sindaco a ciascun assessore.
E ognuno di questi a sua volta, fu concorde nell'affermare che il sindaco non doveva
essere lui.Ebbero
un bel consultare le rispettive carte d'identità; non ci si raccapezzarono più.Come
fare per sapere se erano ancora loro, o non fossero diventate altre persone?C’era
un solo modo: chiederlo ai Potamioti. E così decisero di fare. Tomarono sui
propri passi, finché arrivarono ad una
collina donde si scorgeva il paese e li si misero a urlare con quanto fiato
avevano in gola:- “Oh
gente di Potamia!” -I
Potamioti udirono il richiamo e si affacciarono sulla piazzetta del paese:- “Che
volete? Che volete? “ - risposero.- “Il
sindaco e gli assessori sono costà?” - urlarono di rimando i nostri eroi.-
“Gnura no, gnura no! !”Fu la
risposta, (signornò, signornò).- “Ah,
Formaggio! (era il protettore del
paese) - Allora siamo noi!” esclamarono rinfrancati il sindaco e gli assessori; e se ne tomarono a zonzo per il
mondo.Quando
la sera cadde di nuovo, si rifugiarono in una caverna per dormire. In questa
caverna ebbero la ventura di trovare un sacco; tutti vi infilarono le gambe e
si addormentarono beati.Quando
la mattina dopo si svegliarono, in mezzo a tutto quel groviglio di gambe, ognuno
stentava a riconoscere le sue; e stava per succedere un parapiglia quando, per fortuna,
passò di lì un boscaiolo. Avvicinatosi e saputa la ragione della disputa, si
fece da parte e tirò sul sacco una gran bastonata.- “Ah!”
- urlò uno della comitiva. E tirò subito fuori le proprie gambe.Il
boscaiolo continuò a tirare bastonate sul sacco; e, a mano a mano, ognuno
ritirava le proprie gambe. A poco a poco con si efficace metodo, fu appianata
la controversia. E gli amici ringraziarono di cuore il boscaiolo prima di
rimettersi in cammino.Mentre camminavano, (o, per
meglio dire, mentre i poveri ronzini camminavano e loro stavano a cavallo),
smarrirono la strada.I Potamioti non si
scoraggiarono. Abbordarono una donna che passava. - “Ehi, buona donna, sapete
indicarci la strada?”- “Dove dovete andare?” -
chiese di rimando l’interrogata.- “Dobbiamo andare a Zonzo”
- la informò il sindaco. La donna si strinse nelle
spalle e confesso di non conoscere tale città. La stessa risposta, gli amici,
l’ebbero da decine e decine di persone. Infine decisero di trarsi d'impaccio,
affidandosi all'esperienza e alla accortezza dei loro ronzini.Si accomodarono quindi in
sella e abbandonarono le briglia. I ronzini capirono l'antifona
e scattarono come frecce verso le stalle di Potamia; vi arrivarono in men che
non si dica, che la fame gli spingeva e li faceva camminare come refoli. Fu
così che il sindaco e gli assessori del Comune di Potamia poterono rivedere la loro
patria; e se ne allontanarono di nuovo solo quando le frane lo resero
necessario. Questa è la leggenda che
racconta le gesta della gente di Potamia. Michele FeraGAZZETTA DEL SUD - 30
dicembre 1955e successivamente, PLATI’,
rivista di Mimmo Marando, nov. 1996Le foto in apertura sono una cortesia di Rosa Cusenza che ringrazio.
mercoledì 9 marzo 2022
Ninfa plebea [di Lina Wertmüller - 1996]
BOZZETTO CALABRESE
La ninfa del bosco Acone
Platì, 21 maggio
Mico si accese la pipa e aperse la bocca in atto di parlare. L'uditorio
divenne attentissimo, ma Mico, imperterrito apri la bocca ancora un pò, poi la
spalancò del tutto e infine la rinchiuse, tacendo. Aveva semplicemente fatto
uno sbadiglio. Ciccio Donarom si stizzì e mise subito in atto il suo metodo
infallibile per far parlare il vecchio. Gli diede una martellata su un
ginocchio, e, in atteggiamento michelangiolesco, gli gridò- «E perché non parli?»
- «Va al diavolo!» — ribatté Mico, ma incominciò
subito il suo racconto (Inutile
dire che l'aveva appreso dai libri
della Saggia Sibilla, di cui si vanta d'essere stato, l'ultimo
segretario).
— «La più bella ninfa del bosco di Acone era
Anna. Il suo sorriso si comunicava a tutta la natura. Nella zona non si trovava
più un salice piangente: quei pochi che c'erano s'erano riconfortati alla sua
vista e non facevano che ridere e cantare. Fu in quel periodo che nacquero gli
Ippocastani, quei bellissimi alberi s'erano fino allora chiamati «Ippobiondi», ma
decisero di cambiar nome per intonarlo al colore dei capelli della ninfa.
Avevano un bel da fare gli astronomi di quel tempo, per osservare le comete che
navigavano nello spazio: alla vista di Anna, quegli astri si mettevano ad
agitare la propria coda in segno di saluto, proprio come cagnolini affezionati..»
Qui ci parve che Mico cominciasse ad esagerare;
cercammo allora di interromperlo, perché, se il racconto prendeva quella piega,
chissà dove si sarebbe andati a finire.
— «Alle corte » — gli chiese a bruciapelo Ciccio Donarom, agitando
il martello, — « qual è il fatto che volevi narrarre?»
Mico parve imbarazzato. Con voce più cauta ci
confidò: «Quando le ninfe
sparirono dai
boschi, Anna promise alla natura, sua amica, che sarebbe tornata.
Ebbene, voi non ci crederete, ma la ninfa, dopo tanti secoli, ha mantenuto la promessa. Me
ne sono accorto
iersera, quando ho visto la cometa
«H» muovere la coda in segno di saluto...»
Decisamente Mico non era in vena che di raccontar balle. Lo mandammo a
quel paese in termini più che poveri, e uscimmo all'aperto.
Fuori c'era un'inondazione di sole. Guardammo instintivamente il
vecchio salice piangente, in un angolo del giardino: l'albero era scosso dalla brezza
e tra le sue foglie fremeva una interminabile risata d'argento.
MICHELE FERA
giovedì 10 febbraio 2022
L'anguilla [di Imamura Shohei - 1997]
RACCONTI CALABRESI
Per colpa di un'anguilla
Platì 17 febbraio
Raccolti in circolo
vicino alla gora, appoggiati con una mano sul fondo ghiaioso del canale, e
brandendo nell'altra una forchetta affilatissima, aspettavamo la preda
pazientemente. Sbucò quando meno ce l'aspettavamo, una enorme anguilla che
sferzava l'acqua facendola gorgogliare, nella corsa.
Passata a sorpresa,
Ciccio Donarom vibrò il primo colpo; era stato sempre un ottimo tiratore, ma
stavolta invece di colpire l'anguilla, colpì la mano di 'Ntoni Conio. Se ne
accorse subito e ritirò prontamente la forchetta; Anche l'altro se ne dovette
accorgere, però, a giudicare dall'urlo che cacciò e che disorientò la stessa
anguilla, mentre a noi fece perdere la bussola.
Fummo tutti intorno
al povero 'Ntoni, che agitava la mano in aria, e continuava a urlare come un
bue scannato.
In quel parapiglia,
l'anguilla pensò bene di filarsela verso altri lidi.
Una parte di colpa
nella faccenda che seguì, l’ebbe pure lei, l’anguilla, perché invece di farsi
prendere dagli altri cacciatori, appostati più a valle, avrebbe potuto filare
via verso il mare.
Ecco che non
sarebbe mai nata la questione che mutò in odio aperto, il leggero antagonismo che
esisteva da anni tra la squadra del Nord e la squadra del Sud, (corrispondenti rispettivamente
alla parte alta e alla parte bassa del paese).
Quando quelli del
nord vennero a mostrarcela, tutti felici e sorridenti, la riconoscemmo subito:
non capitava tutti i giorni di catturare un'anguilla di tal fatta! Provammo una
fitta di rimpianto e di invidia e tacemmo.
Ma accompagnato a
casa quell'animale di 'Ntoni, corremmo subito a fare valere i nostri diritti;
Ciccio Donarom capo della squadra del Sud, cercò di spiegare come era andata la
faccenda, e come l'anguilla spettava a noi perché avevamo speso due chili dì calce
per snidarla;
Avremmo consentito,
disse, anche a una spartizione dell'anguilla in parti uguali.
Giusi Toriv,
comandante in capo della squadra del Nord, lo lasciò parlare e quando finì gli
rise in faccia;
— «se l'anguilla
vi fa gola, disse, siamo disposti a cedervela, purché a vostra volta ci cediate
per un mese l'uso del «serro
avvelenato»; Ma se siete venuti
ad accampare diritti che non avete, potete anche risparmiare il fiato».
Questo disse, e lo disse con una tale arroganza, che davvero restammo senza fiato. Era un
sopruso, una ruberia!!
Girammo
dignitosamente sui tacchi, e la sera stessa, senza perder tempo, la squadra del
Sud si riunì sul «serro avvelenato», il quartiere generale. Eravamo in tutto circa
un centinaio, mentre quelli del Nord erano più di duecento; Nonostante tutto,
decidemmo all'unanimità di dichiarare la guerra. Le ostilità avrebbero avuto
inizio il giorno dopo.
Avvertimmo alcuni
nordisti che passavano, che dall'indomani, chiunque avesse osato portarsi nella
nostra zona, vale a dire nella bassa del paese, l'avrebbe pagata cara.
Eravamo fiduciosi
soprattutto nella energia e nella decisione del nostro capo che era di gran
lunga più forte del loro: Ciccio Donarom, infatti, lanciava le pietre molto più
lontano di Giusi Toriv.
Per molti giorni
dalla dichiarazione di guerra, quelli del Nord non si fecero vedere nella
nostra zona; Né noi, osavamo fare scorribande nel Nord; ci accampavamo la sera
nel nostro quartier generale, e giocavamo ispirandoci alla guerra reale, quella
di cui sentivamo le notizie alla radio «Tizio — comandava il capo — vai a bombardare Milano, Torino e Genova!».
Tizio apriva le
braccia, metteva fuori un rombo prolungato, e decollava con le tasche piene di sassi. (I «bombardieri» avevano
l'obbligo di tenere sempre le
tasche piene di sassi; Una
volta uno dei più quotati subì
un grave castigo: era stato mandato a bombardare alcune zone, e si era fermato in volo, per
giocare alle ghiande!! Fu declassato a caccia, senza pietà).
Ma torniamo alla nostra guerra; — Dopo
molte sere, finalmente il capo dei nordisti si fece vedere, tronfio e
baldanzoso, nella nostra zona, in segno di sfida. Fu subito spedita una
spedizione di caccia a mitragliarlo. Noialtri ci fermammo sul ciglio della
collina a goderci lo spettacolo. I caccia arrivarono rombando in zona di
operazioni, e aprirono il fuoco con le fionde. Ma non appena furono partiti i
primi colpi, sbucarono da ogni parte torme di nordisti, armati dì un'arma
insolita; enormi fasci di ortiche, coi quali colpirono a lungo le gambe
indifese dei nostri caccia. Quando finalmente, arrivammo noi sul campo, non
c'era più nessuno: anche i caccia, avevano pensato bene di tornarsene a casa, anziché
al campo.
Non ci restò che tornarcene al
quartiere a meditare sul tradimento.
Giurammo di vendicarci: loro avevano
adoperato le ortiche? ebbene, noi avremmo messo in atto, qualche altro «colpo basso».
Dopo due settimane di preparativi, una
sera ci avviammo in schiera verso l'alto.
Arrivammo indisturbati fino alla casa
di Giusi Toriv: A un cenno del capo i bombardieri partirono velocissimi, e
scagliarono il loro carico sui vetri della casa del capo avversario, e di
quelle vicine.
Successe un parapiglia: la squadra del
Nord si mobilitò tutt'a un tratto, e d insegui fino al serro: (noi fingevamo di scappare, ma in realtà volevamo allontanarci dall'ira dei «grandi» a cui avevamo rotto i vetri, e
attirare il nemico nel nostro campo).
Giunti al serro, a
voltammo, repentinamente e facemmo roteare ì nostri bastoni sulle teste avversarie;
i caccia ci giravano intorno, scagliando all'impazzata con le fionde i loro pezzetti
di piombo; tanta che una buona metà dei proiettili ce li ricevemmo noialtri invece
degli avversari.
E quella vittoria
fu per noi peggio di una sconfitta: oltre alle randellate nemiche e alla mitraglia
dei nostri caccia, buscammo un'altra dose di botte (botte vere, questa volta!) dai
nostri familiari che il fragore della mischia aveva richiamato a frotte sul
luogo.
Intanto le famiglie
dei «bombardieri» dovettero pagare le spese dei vetri rotti alle famiglie bombardate; Un nostro carro armato
stava perdendo un occhio a causa di un «autogol» di un nostro
caccia; E per lungo tempo, le rispettive famiglie ci vietarono le riunioni sul
serro. Tutto per colpa di un'anguilla.
Michele Fera
GAZZETTA DEL SUD, 18 febbraio 1956
Il testo è riproposto con la punteggiatura originale