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lunedì 10 ottobre 2022

Voci da Platì [di AA. VV. - 2022]

 


La pubblicazione di VOCI DA PLATÌ non sarebbe stata possibile senza il basilare contributo di Elisabetta Siotto redattrice e Irene Piras Art director.
TO BE PLAYED AT MAXIMUM VOLUME

giovedì 29 settembre 2022

U tempu da 'stati "a.k.a." SUMMERTIME [di David Lean - 1955]

U tempu da stati
“U tempu da ‘stati esti ‘nu bellu tempu:
I cotrareji jòcanu e non si faci friddu;
to’ patri è rriccu e to’ mamma è ‘na bellezza,
acchì matina i chisti
ti risbigghi e ti trovi cu’ l’ali ….”
 
“Ero più che adolescente quando Dominic Violi (pratioto puro sangue, figlio di miei parenti emigrati, ma nato e vissuto in America), occasionalmente a Platì in una delle sue prime rimptriate, mi tradusse estemporaneamente in perfetto dialetto platiese (rectius: pratiòto) un brano di Porgy and Bess di Gershwin. Si trattava dell’aria “Summertime”, che stavamo ascoltando insieme da un disco di Ella Fitzgerald”. Poiché non capivo un’acca di inglese, Dominic traduceva, canticchiando e seguendo la melodia”. Michele Fera
 
Summertime
Summertime,
And the livin' is easy
Fish are jumpin'
And the cotton is high
 
Oh, Your daddy's rich
And your mamma's good lookin'
So hush little baby
Don't you cry
 
One of these mornings
You're going to rise up singing
Then you'll spread your wings
And you'll take to the sky
 
But until that morning
There's a'nothing can harm you
With your daddy and mammy standing by
 
Summertime,
And the livin' is easy
Fish are jumpin'
And the cotton is high
 
Your daddy’s rich
And your mamma's good lookin'
So hush little baby
Don't you cry

Tempo d'estate
Tempo d’estate,
e vivere è facile:
i pesci stanno saltellando
e il cotone è alto.
 
Oh, il tuo papà è ricco
e la tua mamma è bellissima:
quindi stai zitto, piccolino,
non piangere.
 
Una di queste mattine
ti alzerai dal letto cantando;
poi spiegherai le tue ali
e andrai in cielo.
 
Ma fino a quella mattina
non c’è niente che possa farti male
con il tuo papà e la tua mamma che ti assistono.
 
Tempo d’estate
e vivere è facile:
i pesci stanno saltellando
e il cotone è alto.
 
Oh, il tuo papà è ricco
E la tua mamma è bellissima:
quindi stai zitto, piccolino,
non piangere.
 
Il brano in inglese è di DuBose Heyward e Ira Gershwin, Porgy and Bess di George Gershwin è del 1935
originale e traduzione sono qui:
https://lyricstranslate.com/it/summertime-tempo-destate.html

Il testo di Michele Fera è contenuto nella rivista di Mimmo Marando PLATI’, novembre 1996.

Nella foto d’apertura zia Amalia e zia Gemma con le cugine Tripepi arrivate da Mishawaka IN nei primi anni ’60 del passato secolo.

Ecco ora a voi la divina Ella,
a seguire la versione, sempre verde, di Janis Joplin:

 

 

sabato 23 luglio 2022

Piccola Posta [di Steno, 1955]

Vita politica a Platì
 
Platì, 21 giugno
(M. F.) — Nella nuova piazza Ventiquattro Maggio, in locali quasi contigui a quelli della Confederazione Sindacati Liberi, è sorta in questi giorni la sede dell'A.C.L.I..
La formazione di quest'organo nel nostro centro riveste una enorme importanza, sia dal punto di vista sindacale, che da quello politico. Non sappiamo se sia una pura coincidenza il fatto che quasi contemporaneamente all'istituzione di quest'organo la fontana della vaschetta situata nella Piazza 24 Maggio, abbia ripreso dopo un lungo periodo di inerzia a zampillare
 
 
Cantieri scuola a Platì
 
Platì, 21 giugno
(M. F.) — In questi giorni saranno istituiti nel nostro centro due cantieri di lavoro, il cui compito sarà la riparatone e la ricostruzione di strade comunali.
 
 
Nell'Ufficio PP.TT. a Platì
 
(M. F.) — I nuovi locali che ospitano gli Uffici Poste e Telegrafi del nostro centro, sono, in verità bellissimi e centralissimi, e rispondono in pieno alle esigenze della popolazione.
Mancano però, dell'anticamera dei locali medesimi, delle panche su cui il pubblico possa trovare posto nelle giornate di punta, in attesa del turno
GAZZETTA DEL SUD 22 giugno 1956
 
 
Nuovo asilo infantile a Platì
 
Platì, 22 giugno
(M. F.) — L'Asilo Infantile «Maria di Loreto» sarà in questa settimana trasferito nel nuovi moderni e bellissimi locali che sono stati ultimati e rifiniti «ad unguem» nella via Piroselli del nostro centro.
Il nuovo edificio, che sorga in un'area vastissima e centrale, sarà dotato di tutti i «conforts», e ospiterà circa centocinquanta bambini.
GAZZETTA DEL SUD 23 giugno 1956
 
 
Nuovo ufficio PP. TT. a Platì
 
Platì, 25 giugno
(M. F.) - È  stato trasferito l'ufficio postale del nostro centro, dall'angusto locale della lontana Piazza Duomo, In un moderno e arioso edificio di via XXIV Maggio. Il nuovo locale, oltre ad essere più ampio del precedente, più centrale e quindi più accessibile ai cittadini.
Anche i mobili dell'arredamento che prima erano costituiti da vecchio ciarpame antirazionale ed antiestetico, sono stati sostituiti con mobili nuovi fiammanti e di stile novecento.
Siamo grati all'Amministrazione Provinciale delle Poste e Telegrafi per questi tanto attesi  provvedimenti.
MICHELE FERA
GAZZETTA DEL SUD 26 giugno 1956
 

Forse è già stato detto: le corrispondenze da Platì di Michele Fera pubblicate sulla Gazzetta del Sud dal 1955 al 1959 riemergono oggi come una cronaca minimalista della vita cittadina. Non che sullo stesso quotidiano in quei tempi non siano apparse notizie di tutt’altro genere, per quei tipi di cronistorie c’erano diversi corrispondenti provenienti da altre zone. Erano gli anni a ridosso del doppio diluvio, 1951 e 1953, il paese cercava di risorgere dalle catastrofi, tentava contatti col mondo esterno sia attraverso i sindacati, i partiti, gli studenti come anche attraverso i fuggiti in cerca di lavoro. Il futuro era incerto, all’incertezza si associava lo sbarramento, le negazioni che ancora oggi soffocano chi ha scelto con coraggio di rimanere. Per chi in quei tempi era adolescente le redazioni di Michele Fera diventano nostalgia, per chi è venuto dopo una scoperta. L’occasione di oggi è anche un momento per ricordare don Ferdinando Zappia il quale oltre a distribuire la luce elettrica distribuiva servizi postali ed era il proprietario del sito su cui sorgerà il nuovo asilo infantile.


domenica 17 luglio 2022

Il concorso [di Philippa Lowthorpe, 2020]

Concorso fotografico del giugno locrese


(F.T.) Locri 7 giugno
Il terzo concorso fotografico bandito dalla Foto Attualità «Polifroni», nel quadro delle manifestazione del Giugno Locrese ha ottenuto, quest'anno, un successo pieno.
Ben 22 sono stati i concorrenti con almeno 200 lavori, per cui difficile è stato il compito della Commissione giudicatrice, composta dal Giudice dr. Mario Marvasi - Presidente; prof. Gaudio Incorpora, prof. Giuseppe Galasso, rag. Riccardo Montano, fotografo Giuseppe Polifroni.
Il primo premio per il ritratto è stato aggiudicato alla fotografia «Na vuci, na chitarrae na... spera e suli», eseguita dal prof. dr. Alfredo Gasparro da Siderno.
Il primo premio per la Natura morta alla foto «Vecchi pupazzi in soffitta» eseguita dal geom. Armando Cardo da Locri; il primo premio per la figura ambientata viene assegnato alla fotografia contrassegnata con il motto «Vecchi di San Luca».
La Commissione ha altresì deciso di segnalare i seguenti altri lavori: «II viandante» di Arnaldo Scarfò, «Finestra calabrese» di Michele Fera e «Piccole anfore e conchiglie» di Armando Cardo.
Esprimiamo al nostro Pepè Polifroni il più affettuoso compiacimento per la riuscita della manifestazione artistica da lui voluta ed organizzata con encomiabile zelo.
Siamo certi che anche l'anno prossimo il concorso fotografico sarà organizzato e riscuoterà un nuovo meritato successo.
GAZZETTA DEL SUD 8 giugno 1956
 
In apertura la vincitrice per la figura ambientata «Vecchi di San Luca».

 

mercoledì 13 luglio 2022

La valle della sete [di Edward F. Cline, 1935]



UNA SITUAZIONE INSOSTENIBILE
Manca l’acqua a Senoli di Platì
E dire che a 200 metri dall’abitato il prezioso liquido scende abbondante nelle tubazioni dell’acquedotto di Ardore

Platì, 10 giugno
Arriviamo a Senoli di Platì verso le otto del mattino, e ci accoglie il suono di un corno da caccia. Ma non è Diana Cacciatrice a dargli fiato, bensì un insegnante elementare che con quel mezzo chiama a raccolta dall'immensa campagna bruciata, gli alunni per le ultime lezioni dell'anno.
Questo ce lo spiega una donna: un bellissimo rudere di venticinque anni, come ce ne sono a decine nella zona. A guisa di rampicante, l'ultimo nato le sta attaccato al seno avvizzito. Non riusciamo a scoprire il misterioso tritone, e non ce ne diamo pena.
Senoli di Platì consta di vari gruppi di casette, ostilmente dislocate a centinaia di metri le une dalle altre; si che a volerle visitare tutte, ce ne sarebbe per mezza giornata. D'altronde, non vale la pena di farlo: sono tutte identiche. Bambini sporchi sostano senza allegria nel letame, tra porci galline e vecchi. Ci sarà dell'altro nelle sordide casupole di gesso; ma scene come questa che vi si presenta subito appena arriva-
ti, vi levano la voglia di indagare oltre nella vita senolese.
Deserto senza oasi, sotto il sole estivo, l'abitato di Senoli. Le pietre calcificate ai abbagliano; gli oleandri vi mostrano la loro meravigliosa fioritura distrutta da una coltre di polvere. E mosche, api, zanzare, calabroni, vi ronzano introno in un nugolo instancabile.
A Senoli di Platì non c'è acqua. Non c'è acqua per la terra, e non c'è acqua per gli uomini.
Bisogna andarla a prendere a quattro o cinque chilometri di distanza nell'aperta campagna, a un ruscelletto anemico che dura fino a mezza estate; poi i chilometri da percorrere per il rifornimento diventano sette, da Senoli a Natile Nuovo. Per chi non ha la forza di percorrere giornalmente questa «via crucis», ci sono i fossi acquitrinosi che stagnano qua e, là, carichi di malaria e di tifo.
Un contadino di trent'anni, invecchiato nel fiore della giovinezza, ci accompagna al ruscello «vicino»; il sole comincia a bruciare maledettamente, e il nostro passo deve per forza accorciarsi, sulla sabbia sdrucciolevole della salita.
Camminiamo in fila indiana per un sentiero incassato tra due file di cespugli, il contadino, noi, e l’ing. Rossetti, che da vari mesi, dirigendo i lavori per la costruzione di una stradicciola carraia da Senoli alla S.S. 112, ha imparato a conoscere i problemi della popolazione del luogo.
Davanti a noi cammina una vacca. Intorno, il solito nugolo di insetti. 
La vacca esce a un tratto dal sentiero infilandosi a capofitto nella siepe; la vediamo rientrare per lo stesso mezzo un po' più a monte, e quindi ripetere alcune altre volte la strana operazione. Mentre ci chiediamo incuriositi cosa possa significare questo strano «slalom», ci accorgiamo di essere ricoperti di tafani. Sono quelli stessi di cui la vacca si è liberata un attimo fa con l’intelligente sistema.
Potremmo seguirne l’esempio adesso, ma ci rinunziamo. Dopotutto noi non siamo mucche e i poveri tafani, delusi, ci lasciano «sua sponte».
Arriviamo così al ruscello, che si versa in un rustico fondale di cemento. Vorremmo levarci la sete, ma dobbiamo sputare disgustati: ci pare di avere ingerito del latte di calce: E' questa, dunque l’acqua di Senoli?
Una vecchia, mentre aspetta pazientemente che la sua brocca si riempie, ci guarda. Ha il collo grosso come quello di un pugile a causa delle vegetazioni adenoidi favorite dalla scarsezza di jodio nell’acqua Non si lancia fotografare.
Incontriamo altre tre o quattro vecchi ridotti nelle sue medesime condizioni; una di essi anzi, sembra avere attaccate al collo due grosse noci di cocco. Solo un intervento chirurgico lo libererà della strana deformazione, ma questa si rinnoverà dopo le prime bevute.
Tutto questo, mentre, a duecento metri circa dall'abitato di Senoli scorre l'acqua fresca e leggera dell'Aspromonte.
Scorre, ben s'intende, nelle grosse tubazioni dell’acquedotto che alimenterà il centro di Ardore.
Un filo di quell'acqua, e i cittadini di Senoli sarebbero salvi.
Ma quell'acqua è «Tabù».
Le numerose istanze della Amministrazione Comunale di Platì si sono infrante davanti al ferreo «non possumus» dei su dirigenti il consorzio per l’acquedotto medesimo.
MICHELE FERA
GAZZETTA DEL SUD, 11 giugno 1957

La foto d’apertura è dello stesso Michele Fera: "un contadino di Senoli appoggiandosi alla lunga pertica, contro le asperità del terreno che deve affrontare, va a riempire il secchio d’acqua che tiene bilanciato sul manico della scure".

L’abbandono di Platì da parte di Michele Fera è oggi un vuoto tra i più profondi vista la spinta in avanti che avrebbe potuto dare alle future generazioni dei suoi tempi, e di domani.

giovedì 16 giugno 2022

Scarpe grosse [di Dino Falconi 1940]



ANTICHI COSTUMI CALABRESI
La calandreia

Platì, 31 maggio
«Undi staci “u calandreiotu?» Così mi abbordò un contadino di Natile, chiedendomi dove abitasse il venditore delle «calandreie».
La calandreia (non aggrottino le ciglia i lettori per la stranezza del termine), è, anzi era, il tipico calzare calabrese; dico «era», perché adesso e quasi del tutto caduta in disuso.
Esiste solo una esigua percentuale di fedelissimi alla foggia del secolo scorso, che la calza con disinvoltura tuttora; per essere sinceri si tratta di una fedeltà dovuta a ragioni di economia e di praticità. Infatti la calandreia si adatta benissimo alla vita dei campi per la sua resistenza e per la sua forma; dura generalmente per due o tre anni e molti che la calzano abitualmente nelle loro mansioni di coltivatori o di pastori, nei momenti di riposo, cioè durante gli «otia litteraria» della domenica, calzano scarpe normali come gli altri.
Derivata probabilmente dalle «Caligae» romane la calandreia nacque col pittoresco costume dei «massari» e si estese in un tempo successivo all’uso generale; molti dicono, invece che la calandreia era il calzare comune a tutti i costumi calabresi, e col tempo fu usata anche indipendentemente dal costume stesso.
E un’ipotesi probabile anche questa; comunque bisogna ricordare che sono esistiti vari tipi di calandreia, secondo la dignità della persona che la calzasse.
Quella del «massaro» ad esempio era costituita da un largo pezzo di cuoio, piegato ai lati e con una terminazione a punta all'estremità anteriore del piede, dove le falde del cuoio erano tenute insieme da un pezzo di filo di ferro; alcune stringhe lunghissime di pelle la tenevano aderente al piede che era fasciato da pezze di orbace o di lana grezza, attorcigliandosi lungo il polpaccio.
Tutti gli altri tipi di calandreia, sebbene abbiano conservato la stessa forma, differiscono dalla calandreia del «massaro» perché costruite in materia meno nobile del cuoio, per esempio in gomma ricavata da vecchi copertoni di ruote di automobili.
L’idea fu lanciata non molto tempo fa, subito dopo l’ultima guerra, quando la necessità costrinse ad utilizzare i residuati bellici; ma l’esperimento riuscì benissimo, perché le calandreie di gomma, si dimostrarono migliori e meno costose di quelle di cuoio, e soppiantarono del tutto queste ultime.
Un particolare curioso della calandreia è questo: che copre solo la parte anteriore del piede lasciando scoperto tutto il calcagno. Ma ad un osservatore attento non sfuggirà la grande importanza tecnica che questo particolare riveste. Per camminare agevolmente nei campi, infatti, e per correre appresso alle vacche per pendii scoscesi, occorre camminare in punta di piedi, facendo come se il calcagno non esistesse addirittura; se tutta la pianta del piede si appoggiasse sulle irregolarità del terreno, specialmente quando si corre, il corpo si strapazzerebbe moltissimo e il piede andrebbe incontro a molti incidenti.
«Undi staci “u calandreiotu?» “U calandreiotu” è uno dei pochissimi venditori di calandreie che esistono in Calabria: compra gomme di automobile vecchie e le rivende a spezzoni a quelli che ne hanno bisogno; è mio amico, e accompagnai io stesso da lui il cliente.
Dopo che questi ebbe scelto e comperato il pezzo di gomma che gli sembrò più conveniente chiesi al «calandreiotu» come se la passasse a vendere quella roba.
I tempi sono duri, mi rispose, ora tutti comprano scarpe; e mi indicò in un angolo un enorme deposito di ruote di automobili che aveva comprato dall'anno scorso e che ancora non era riuscito a vendere.
E aggiunse sospirando e guardando con dispetto un contadino che passava elegantissimo a cavallo di un muletto: Il progresso mi ha fregato!
Michele Fera
GAZZETTA DEL SUD - 1 Giugno 1955

L'immagine in apertura è di zio Peppino, u mutu i barva.



mercoledì 11 maggio 2022

Il corpo della sposa [di Michela Occhipinti - 2019]

DIVAGAZIONI DI CASA NOSTRA
Antiche leggende calabresi
 
Platì, 19 gennaio
In un tempo molto antico quando i mulattieri facevano il nodo meglio dei migliori marinai nacque una bambina. Era minuta minuta, e aveva una gran fame, tanto che sua madre, per nutrirla, doveva fare largo uso di galattofori; la parte più piccola del suo corpo era la testa.
A furia di succhiare continuamente, dalla mattina alla sera, il labbro inferiore le si era allargato come il gozzo di un pellicano, e il labbro superiore le si era allungato spropositatamente, fino a che la sua bocca assunse la forma di un becco di tordo.
La strana conformazione della sua testa indusse i parenti a metterle il soprannome di «Testa di Jizzo».
Quando fu all'età di nove anni, la Saggia Sibilla, che abitava a Polsi, predisse alla bambina che nella sua vita avrebbero predominato due colori: il grigio e il verde.
Testa di lizzo non capì la profezia, né si preoccupò di farsela spiegare; lei, infatti, unica nel suo villaggio, disprezzava la Saggia Sibilla, venerata da tutti.
Il tempo passò, a poco a poco, e Testa di Jizzo si fece donna.
Nonostante la sua bruttezza, ci fu un uomo che la sposò. Il poveretto se ne pentì amaramente, perché la brutta sposa non lo degnava neanche di uno sguardo; anzi non lo poteva soffrire.
Un giorno la cicogna portò ai due coniugi un bambino, piccolo e grigio come un pezzo di ferro. La donna, ripensando con sospetto alla profezia della Saggia Sibilla, lo soffocò di notte, con un cuscino.
Il marito credette che il bambino fosse morto da solo, e non disse niente. L'anno dopo, però, ne nacque un altro; stavolta era verde come una foglia d'edera. La selvaggia donna non esitò a sopprimere anche lui.
Passò un altro anno e i due coniugi ebbero un terzo figlio. Questa volta, il marito, che si era insospettito, non permise alla moglie di restare sola col neonato, e così salvò quest'ultimo.
Testa di Jizzo non si diede per vinta. Quando il terzo figlio ebbe raggiunto l'età di dieci anni, lo portò con sé in montagna per abbandonarlo ai lupi, in mezzo alla neve. La Sibilla la vide mentre stava per attuare l'infame progetto e decise di salvare il piccolo.
Prese di peso la madre afferrandola dalla piccola testa, la scaraventò nei mari del Nord dove divenne un Iceberg.
E il piccolo, invece, fu salvato da un mulattiere che passava da quei paraggi e che, saputa la storia dalla Saggia Sibilla, la tramandò a noialtri.
Il resto della storia, cioè la fine che fece il piccolo non ce lo disse. Ma chi volesse saperla può andare a chiederla alla Sibilla, che, benché vecchia, tuttavia gestisce ancora, tra le grotte dell'Aspromonte, il suo ufficio informazioni.
MICHELE FERA
GAZZETTA DEL SUD, 20 gennaio 1956

Nessun tracciato per la foto in apertura.

 

giovedì 21 aprile 2022

La guerra continua [di Leopoldo Savona - 1962]



Perdimmu la guerra cu’ li nglesi
ora simu tutti disarmati;
eppuru Mussulini accussi dici
disarmau li greci e l’arbanesi
e si pigghiau puru li spiti.
Vi pregu amici mei non v’affriggiti
ca cu lu parmu chi misuramu simu misurati;
lu merlu e la marvizza chi dici?
Ora cazzi ca mi sparati:
mi mangiu ‘a livi e nenti mi faciti.
Puru lu lepru cu’ li ricchi tisi
ora li poti levari smandalati.
Oramai lu popolu borghisi
si trovanu tutti quanti disarmati
se lu ppura la gurpi apoi viditi
li gajini sunnu tutti sterminati.
La gurpi é latra, chi vui lu sapiti,
si fa patruna di li cerdinati.
Se lu ’ppura lu lupu chi diciti
si mangia li pecuri e puru li crapi.
E li pasturi vogghiu mu avvertiti
nt’e casetti nommu dorminu squatati.

Il testo riportato è conservato, senza titolo, nell’archivio personale di Ernesto Gliozzi il vecchio. Mimmo Marando sulla rivista PLATI’, gennaio ’98, lo attribuisce ad un anonimo platiese, anno 1943 e con il titolo Storia d’i scupetti (1945), un po' diverso nell’incipit e senza nessun commento. È probabile che, come molti altri testi pubblicati da Mimmo, fosse appartenuto alla famiglia di Michele Fera. Secondo un esperto di poesia calabrese a cui è stato inoltrato, il carattere cantilenante dell’opera è tipico dei primi anni del millenovecento nella poesia dialettale calabrese.

In apertura la Valle del Bonamico con sullo sfondo Pietra Cappa in uno scatto di Giuseppino, dottor, Mittiga, dei primi anni ‘20 

giovedì 31 marzo 2022

Addio vecchia città [di Edgar Reitz - 1975]

Non è il passato che ci domina, sono le immagini del passato. George Steiner

 BOZZETTO CALABRESE
POTAMIA LA CITTA' FRA I DUE FIUMI
rivive nelle vecchie leggende calabresi
 
Platì, 30 dicembre.
Poco lontano da San Luca, su un’altura, si trovano i pochi ruderi rimasti dell’antica città di Potamia, il luogo e solitario, di tanto in tanto frequentato da qualche pastore che vi porta il gregge.
Potamia derivò il suo strano nome dall’Essere posta tra due fiumi; ma non per questo bisogna confonderla con la Mesopotamia. Questa infelice posizione determinò la sua immatura fine. Immatura, certo, perché stando alle testimonianze degli storici, Potamia ebbe solo dieci secoli di vita: pochini per una città.
Ma in Calabria non bisogna lamentarsi; i paesi calabresi, infatti, sono destinati a fare prima o poi, la medesima fine di Potamia, grazie alle azioni coordinate delle alluvioni e della incuria dei governi. Eppoi, Pandore, l’altra antica città calabrese, non visse soltanto tre secoli e mezzo!
La tecnica che i due fiumi seguirono per levare di mezzo Potamìa fu semplice e tradizionale: scavare lentamente alla base il monte su cui era posata la città; le frane, a poco a poco, ridussero questa un mucchio di pittoresche rovine.
Un tentativo di estremo salvataggio i Potamioti lo fecero, prima di abbandonare le proprie case: cercarono di tirarsele altrove per mezzo di corde; ma le corde erano di lana e si rompevano prima che la casa si muovesse dalla sua posizione.
Questo, naturalmente, lo dice la leggenda. Potamia era una graziosa cittadina, fornita di sindaco e di assessori municipali. Il sindaco era, a detta di tutti, una gran testa; ma neanche gli assessori scherzavano.
Un bel giorno di aprile dell'anno 1543 (ma può darsi che sia stato anche l'anno 1654, o l’anno 1948) il sindaco e gli assessori si riunirono nel palazzo del Comune, per prendere gravi decisioni. Fu una seduta laboriosa; noi lo abbiamo appurato attraverso un nostro conterraneo che aveva il nonno del nonno di suo nonno che esercitava a quei tempi la professione di Testimone Oculare.
Tra gli altri provvedimenti presi, fu in particolare stabilito: di nominare un vice-sindaco che sapesse fare la firma con lo svolazzo, giacché quello in carica riusciva a malapena a disegnare le “o”- col bicchiere.
Di dimezzare lo stipendio allo spazzino comunale, poiché aveva preso moglie ed era pertanto diventato “la metà” di questa.
- Di costringere gli abitanti a trovare amici presso le città vicine, in modo da rinsanguare l’erario (si sapeva anche allora che chi trova un amico trova un tesoro).
- Di sovvenzionare un viaggio del sindaco e degli assessori, che dovevano andare in missione segretissima presso la vicina città di X. E con quest’ultima conclusione, la seduta si sciolse.
Il giorno dopo, il sindaco e gli assessori partirono per la loro missione segretissima;
la popolazione pianse un po' di commozione, e qualcuno fece un breve elogio funebre, giacché, si sa, “partire è un poco morire”.
Ma i nostri eroi, inforcarono fieramente gli scalpitanti ronzini, e si avviarono giù per la vallata.
Sulle montagne c’era un metro e mezzo di neve; ma gli amici si erano premuniti e avevano lasciato a casa i mantelli e i maglioni, dopo aver bene ascoltato le previsioni del tempo, alla radio. Non si venga ad obiettare che a quei tempi radio non ne esistevano; abbiamo detto, infatti che la vicenda si poté svolgere anche nel 1948.
Durante il viaggio, ognuno taceva e badava a battere i denti dal freddo (si intende, che ognuno batteva i propri).
A un tratto, il più piccolo di tutti, Levantino, ruppe il silenzio per chiedere a Donizò, assessore anziano:
- “Comparuccio, mi spiegate un pò le ragioni di questa missione?”
- Non l’avesse mai mai detto; gli rispose un tale coro di zittii, che l’asino, imbizzarrito, per poco non lo scaraventò a terra.
- “Scemo” - gli urlò sottovoce Donizò - “se noi sapessimo le ragioni di questa missione, essa non sarebbe più segreta e potremmo tomarcene a casa. Tu vorresti tomare a casa, dì?”
-  Ma nemmeno per sogno, compare” - si affrettò a chiarire il malcapitato - “se tomo a casa perdo l'indennità di trasferta!
E la comitiva riprese in silenzio il suo cammino.
Dopo alcune ore di marcia, i potamioti sentirono un urlo di dolore, lacerare l’aria: era caduta la sera. Tentarono premurosamente di rialzarla, ma non ci riuscirono e stabilirono di trovare un luogo dove passare la notte.
Per fortuna erano arrivati davanti alla porta della città X.
Qui il sindaco si fece anzitutto un dovere d'informare gli assessori che la missione era troppo segreta, perché si potesse sapere la ragione della sua fine. Levantino tacque pienamente convinto.
Ora bisognava accamparsi per trascorrere la notte; ma dove?
Entrare nella città non si poteva perché la grande porta era stata chiusa; gli assessori si rivolsero al sindaco per avere il suo parere; il sindaco non li deluse. Stabilì infatti, che stare da una parte o dall`altra della porta della città era la medesima cosa; bastava solo immaginare che l'esterno fosse dalla parte opposta.
Gli assessori seguirono il consiglio e, coricatisi ai piedi della porta della città di X, immaginarono che l'interno fosse dalla loro parte, e l'esterno dall’altra.
I nostri assessori, dunque, stavano saporitamente dormendo, quando si accostò a loro un bello spirito che, dopo averli osservati un pò, si divertì a rifare loro i connotati con l’aiuto di un pezzo di carbone. Figurarsi quando, la mattina, i nostri amici si svegliarono!
- “Tu non sembri più tu; devi essere qualche altro”, - disse il sindaco a ciascun assessore. E ognuno di questi a sua volta, fu concorde nell'affermare che il sindaco non doveva essere lui.
Ebbero un bel consultare le rispettive carte d'identità; non ci si raccapezzarono più.
Come fare per sapere se erano ancora loro, o non fossero diventate altre persone?
C’era un solo modo: chiederlo ai Potamioti. E così decisero di fare. Tomarono sui propri passi, finché  arrivarono ad una collina donde si scorgeva il paese e li si misero a urlare con quanto fiato avevano in gola:
- “Oh gente di Potamia!” -
I Potamioti udirono il richiamo e si affacciarono sulla piazzetta del paese:
- “Che volete? Che volete? “  - risposero.
- “Il sindaco e gli assessori sono costà?” - urlarono di rimando i nostri eroi.
- “Gnura no, gnura no! !”
Fu la risposta, (signornò, signornò).
- “Ah, Formaggio! (era il protettore del paese) - Allora siamo noi!” esclamarono rinfrancati il sindaco e gli  assessori; e se ne tomarono a zonzo per il mondo.
Quando la sera cadde di nuovo, si rifugiarono in una caverna per dormire. In questa caverna ebbero la ventura di trovare un sacco; tutti vi infilarono le gambe e si addormentarono beati.
Quando la mattina dopo si svegliarono, in mezzo a tutto quel groviglio di gambe, ognuno stentava a riconoscere le sue; e stava per succedere un parapiglia quando, per fortuna, passò di lì un boscaiolo. Avvicinatosi e saputa la ragione della disputa, si fece da parte e tirò sul sacco una gran bastonata.
- “Ah!” - urlò uno della comitiva. E tirò subito fuori le proprie gambe.
Il boscaiolo continuò a tirare bastonate sul sacco; e, a mano a mano, ognuno ritirava le proprie gambe. A poco a poco con si efficace metodo, fu appianata la controversia. E gli amici ringraziarono di cuore il boscaiolo prima di rimettersi in cammino.
Mentre camminavano, (o, per meglio dire, mentre i poveri ronzini camminavano e loro stavano a cavallo), smarrirono la strada.
I Potamioti non si scoraggiarono. Abbordarono una donna che passava. 
- “Ehi, buona donna, sapete indicarci la strada?”
- “Dove dovete andare?” - chiese di rimando l’interrogata.
- “Dobbiamo andare a Zonzo” - la informò il sindaco. 
La donna si strinse nelle spalle e confesso di non conoscere tale città. La stessa risposta, gli amici, l’ebbero da decine e decine di persone. Infine decisero di trarsi d'impaccio, affidandosi all'esperienza e alla accortezza dei loro ronzini.
Si accomodarono quindi in sella e abbandonarono le briglia. 
I ronzini capirono l'antifona e scattarono come frecce verso le stalle di Potamia; vi arrivarono in men che non si dica, che la fame gli spingeva e li faceva camminare come refoli. Fu così che il sindaco e gli assessori del Comune di Potamia poterono rivedere la loro patria; e se ne allontanarono di nuovo solo quando le frane lo resero necessario. 
Questa è la leggenda che racconta le gesta della gente di Potamia. 
Michele Fera
GAZZETTA DEL SUD - 30 dicembre 1955
e successivamente, PLATI’, rivista di Mimmo Marando, nov. 1996
Le foto in apertura sono una cortesia di Rosa Cusenza che ringrazio.

 

mercoledì 9 marzo 2022

Ninfa plebea [di Lina Wertmüller - 1996]



BOZZETTO CALABRESE

La ninfa del bosco Acone


Platì, 21 maggio
Mico si accese la pipa e aperse la bocca in atto di parlare. L'uditorio divenne attentissimo, ma Mico, imperterrito apri la bocca ancora un pò, poi la spalancò del tutto e infine la rinchiuse, tacendo. Aveva semplicemente fatto uno sbadiglio. Ciccio Donarom si stizzì e mise subito in atto il suo metodo infallibile per far parlare il vecchio. Gli diede una martellata su un ginocchio, e, in atteggiamento michelangiolesco, gli gridò- «E perché non parli?»
- «Va al diavolo!» — ribatté Mico, ma incominciò subito il suo racconto (Inutile dire che l'aveva appreso dai libri della Saggia Sibilla, di cui si vanta d'essere stato, l'ultimo
segretario).
— «La più bella ninfa del bosco di Acone era Anna. Il suo sorriso si comunicava a tutta la natura. Nella zona non si trovava più un salice piangente: quei pochi che c'erano s'erano riconfortati alla sua vista e non facevano che ridere e cantare. Fu in quel periodo che nacquero gli Ippocastani, quei bellissimi alberi s'erano fino allora chiamati «Ippobiondi», ma decisero di cambiar nome per intonarlo al colore dei capelli della ninfa. Avevano un bel da fare gli astronomi di quel tempo, per osservare le comete che navigavano nello spazio: alla vista di Anna, quegli astri si mettevano ad agitare la propria coda in segno di saluto, proprio come cagnolini affezionati..»
Qui ci parve che Mico cominciasse ad esagerare; cercammo allora di interromperlo, perché, se il racconto prendeva quella piega, chissà dove si sarebbe andati a finire.
— «Alle corte » — gli chiese a bruciapelo Ciccio Donarom, agitando il martello, — « qual è il fatto che volevi narrarre?»
Mico parve imbarazzato. Con voce più cauta ci confidò: «Quando le ninfe sparirono dai boschi, Anna promise alla natura, sua amica, che sarebbe tornata. Ebbene, voi non ci crederete, ma la ninfa, dopo tanti secoli, ha mantenuto la promessa. Me ne sono accorto iersera, quando ho visto la cometa
«H» muovere la coda in segno di saluto...»
Decisamente Mico non era in vena che di raccontar balle. Lo mandammo a quel paese in termini più che poveri, e uscimmo all'aperto.
Fuori c'era un'inondazione di sole. Guardammo instintivamente il vecchio salice piangente, in un angolo del giardino: l'albero era scosso dalla brezza e tra le sue foglie fremeva una interminabile risata d'argento.
MICHELE FERA

GAZZETTA DEL SUD, 22 maggio 1957


 

giovedì 10 febbraio 2022

L'anguilla [di Imamura Shohei - 1997]

RACCONTI CALABRESI
Per colpa di un'anguilla

Platì 17 febbraio
Raccolti in circolo vicino alla gora, appoggiati con una mano sul fondo ghiaioso del canale, e brandendo nell'altra una forchetta affilatissima, aspettavamo la preda pazientemente. Sbucò quando meno ce l'aspettavamo, una enorme anguilla che sferzava l'acqua facendola gorgogliare, nella corsa.
Passata a sorpresa, Ciccio Donarom vibrò il primo colpo; era stato sempre un ottimo tiratore, ma stavolta invece di colpire l'anguilla, colpì la mano di 'Ntoni Conio. Se ne accorse subito e ritirò prontamente la forchetta; Anche l'altro se ne dovette accorgere, però, a giudicare dall'urlo che cacciò e che disorientò la stessa anguilla, mentre a noi fece perdere la bussola.
Fummo tutti intorno al povero 'Ntoni, che agitava la mano in aria, e continuava a urlare come un bue scannato.
In quel parapiglia, l'anguilla pensò bene di filarsela verso altri lidi.
Una parte di colpa nella faccenda che seguì, l’ebbe pure lei, l’anguilla, perché invece di farsi prendere dagli altri cacciatori, appostati più a valle, avrebbe potuto filare via verso il mare.
Ecco che non sarebbe mai nata la questione che mutò in odio aperto, il leggero antagonismo che esisteva da anni tra la squadra del Nord e la squadra del Sud, (corrispondenti rispettivamente alla parte alta e alla parte bassa del paese).
Quando quelli del nord vennero a mostrarcela, tutti felici e sorridenti, la riconoscemmo subito: non capitava tutti i giorni di catturare un'anguilla di tal fatta! Provammo una fitta di rimpianto e di invidia e tacemmo.
Ma accompagnato a casa quell'animale di 'Ntoni, corremmo subito a fare valere i nostri diritti; Ciccio Donarom capo della squadra del Sud, cercò di spiegare come era andata la faccenda, e come l'anguilla spettava a noi perché avevamo speso due chili dì calce per snidarla;
Avremmo consentito, disse, anche a una spartizione dell'anguilla in parti uguali.
Giusi Toriv, comandante in capo della squadra del Nord, lo lasciò parlare e quando finì gli rise in faccia;
— «se l'anguilla vi fa gola, disse, siamo disposti a cedervela, purché a vostra volta ci cediate per un mese l'uso del «serro avvelenato»; Ma se siete venuti ad accampare diritti che non avete, potete anche risparmiare il fiato».
Questo disse, e lo disse con una tale arroganza, che davvero restammo senza fiato. Era un sopruso, una ruberia!!
Girammo dignitosamente sui tacchi, e la sera stessa, senza perder tempo, la squadra del Sud si riunì sul «serro avvelenato», il quartiere generale. Eravamo in tutto circa un centinaio, mentre quelli del Nord erano più di duecento; Nonostante tutto, decidemmo all'unanimità di dichiarare la guerra. Le ostilità avrebbero avuto inizio il giorno dopo.
Avvertimmo alcuni nordisti che passavano, che dall'indomani, chiunque avesse osato portarsi nella nostra zona, vale a dire nella bassa del paese, l'avrebbe pagata cara.
Eravamo fiduciosi soprattutto nella energia e nella decisione del nostro capo che era di gran lunga più forte del loro: Ciccio Donarom, infatti, lanciava le pietre molto più lontano di Giusi Toriv.
Per molti giorni dalla dichiarazione di guerra, quelli del Nord non si fecero vedere nella nostra zona; Né noi, osavamo fare scorribande nel Nord; ci accampavamo la sera nel nostro quartier generale, e giocavamo ispirandoci alla guerra reale, quella di cui sentivamo le notizie alla radio «Tizio — comandava il capo — vai a bombardare Milano, Torino e Genova!».
Tizio apriva le braccia, metteva fuori un rombo prolungato, e decollava con le tasche piene di sassi. (I «bombardieri» avevano l'obbligo di tenere sempre le tasche piene di sassi; Una volta uno dei più quotati subì un grave castigo: era stato mandato a bombardare alcune zone, e si era fermato in volo, per giocare alle ghiande!! Fu declassato a caccia, senza pietà).
Ma torniamo alla nostra guerra; — Dopo molte sere, finalmente il capo dei nordisti si fece vedere, tronfio e baldanzoso, nella nostra zona, in segno di sfida. Fu subito spedita una spedizione di caccia a mitragliarlo. Noialtri ci fermammo sul ciglio della collina a goderci lo spettacolo. I caccia arrivarono rombando in zona di operazioni, e aprirono il fuoco con le fionde. Ma non appena furono partiti i primi colpi, sbucarono da ogni parte torme di nordisti, armati dì un'arma insolita; enormi fasci di ortiche, coi quali colpirono a lungo le gambe indifese dei nostri caccia. Quando finalmente, arrivammo noi sul campo, non c'era più nessuno: anche i caccia, avevano pensato bene di tornarsene a casa, anziché al campo.
Non ci restò che tornarcene al quartiere a meditare sul tradimento.
Giurammo di vendicarci: loro avevano adoperato le ortiche? ebbene, noi avremmo messo in atto, qualche altro «colpo basso».
Dopo due settimane di preparativi, una sera ci avviammo in schiera verso l'alto.
Arrivammo indisturbati fino alla casa di Giusi Toriv: A un cenno del capo i bombardieri partirono velocissimi, e scagliarono il loro carico sui vetri della casa del capo avversario, e di quelle vicine.
Successe un parapiglia: la squadra del Nord si mobilitò tutt'a un tratto, e d insegui fino al serro: (noi fingevamo di scappare, ma in realtà volevamo allontanarci dall'ira dei «grandi» a cui avevamo rotto i vetri, e attirare il nemico nel nostro campo).
Giunti al serro, a voltammo, repentinamente e facemmo roteare ì nostri bastoni sulle teste avversarie; i caccia ci giravano intorno, scagliando all'impazzata con le fionde i loro pezzetti di piombo; tanta che una buona metà dei proiettili ce li ricevemmo noialtri invece degli avversari.
E quella vittoria fu per noi peggio di una sconfitta: oltre alle randellate nemiche e alla mitraglia dei nostri caccia, buscammo un'altra dose di botte (botte vere, questa volta!) dai nostri familiari che il fragore della mischia aveva richiamato a frotte sul luogo.
Intanto le famiglie dei «bombardieri» dovettero pagare le spese dei vetri rotti alle famiglie bombardate; Un nostro carro armato stava perdendo un occhio a causa di un «autogol» di un nostro caccia; E per lungo tempo, le rispettive famiglie ci vietarono le riunioni sul serro. Tutto per colpa di un'anguilla.
Michele Fera
GAZZETTA DEL SUD, 18 febbraio 1956

Il testo è riproposto con la punteggiatura originale