TURI, LA MANDRIA E IL CONTO APERTO
Platì, 1831. Nonostante i soli ventiquattro anni,
ormai da tempo Turi era garzone al servizio di don Giosefatte, e ne aveva
contate di pecore e capre! Per colpa dei lupi sempre il garzone aveva fatto, e
ora, ogni notte che udiva gli ululati dei due capibranco provenienti dalla
sommità delle rocce d’Aspromonte, proferiva ogni sorta di bestemmia e
maledizione. Era stata quella creatura famelica a complicargli maledettamente
la vita e a fargli perdere il rispetto dei compaesani quando in una notte gli
scannò le sole tre pecore che era riuscito ad avere, dopo anni di duro lavoro
alle dipendenze di don Giosefatte. Ecco perché riteneva di avere un conto
aperto con il lupo d’Aspromonte.
Da don Giosefatte
Così, era tornato insieme a Tito, fedele cane da
pastore silano, entrambi con la coda in mezzo alle gambe a chiedere un nuovo
impiego al don che non perse l’occasione di ricordargli la sua condizione: «Chi
nasce garzone non muore massaro. Ricordatelo, Turi!». Il garzone non osò
replicare e mestamente si sistemò con i pochi abiti ancora nella stanza vicino
alla mandria, fatta di tavolacci e frasche all’interno del recinto – da lui
stesso costantemente ordinato per impedire ai lupi di fare banchetto – che
abbracciava tutta la masseria del barone. Lì, nell’ampio serro di Santa Barbara
dove nessuno poteva essere colpito dai fulmini schivati dalla fede nella Santa,
nel tempo della transumanza capre e pecore potevano liberamente brucare.
Quell’anno i lupi avevano invaso quasi tutte le mandrie, tralasciandone poche
tra le quali quella di don Giosefatte, barone ricco e anche fortunato. Ma in
una notte di settembre accadde. Era quella la notte precedente alla
monticazione, il trasferimento del gregge in montagna, notte di acquazzoni
ininterrotti, di tuoni e lampi; come era solito fare, Turi contò le pecore per
tre volte uscendo sempre lo stesso numero: trentatré. Per fortuna non ne
mancavano e zuppo di pioggia rincasò sotto la protezione della Santa che lo
preservò dalle saette piovute dal cielo.
L’assalto al gregge
Il giovane, accigliato nella sua solita stanza, cadde
in un sonno profondo tanto da non sentire quello che successe alle capre: i
lupi scesero dai costoni rocciosi, riuscirono a violare l’altezza del recinto e
a conquistare la mandria, sgozzando le trentatré pecore, recidendone la
carotide ad ognuna. Il garzone non sentì nulla della cruenta lotta tra Tito,
custode di greggi e il branco di lupi, bramosi di sangue. Alle prime luci
dell’alba, Turi fu svegliato da Tito che al debole ringhiare accompagnava il
graffio sull’uscio della stanza a richiamare il padrone. Si precipitò fuori il
garzone, spettatore di raccapricciante tragedia nel vedere pecore e agnelli
accatastati, come a formare una piccola piramide.
La fine di Tito
Con occhi disperati e interrogativi cercò quelli di
Tito e solo allora si accorse che il muso del cane era unto di sangue. Lo
sgomento e la rabbia pervasero l’animo del garzone che riteneva il suo fido
colpevole di quella mattanza; si infuriò così tanto da percorrere Tito a
bastonate, fino a finirlo. Don Giosefatte, che seppe subito, non tardò ad
arrivare e senza degnare di uno sguardo Turi, ordinò a un suo servo di
sgomberare gli animali morti: sotto la piccola piramide delle pecore giacevano
due lupi, sgozzati da Tito che, se non riuscì a salvare il gregge, rimase
fedele al padrone. Il sangue delle pecore che Turi trovò a terra non fu lavato
nemmeno dalle piogge autunnali che seguirono, e lì nel serro di Santa Barbara
quel luogo divenne per tutti “la mandria del lupo” mentre il giovane garzone,
fucile a tracolla, passò la vita a regolare i conti con il nemico.
Michele Papalia, testo e foto
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