Ricordo di un ottobre
funesto del 1951 nel piccolo centro aspromontano
Quell’alluvione che
segnò Platì
I servizi degli
inviati del tempo che fecero riscoprire agli italiani la montagna reggina -
Arrivarono i soccorsi dopo una gara di solidarietà umana ma la stranezza di
alcuni indumenti smessi fece arrivare in anticipo un ben strano Carnevale –
tremila persone verso l’Australia in pochi anni: un’emorragia umana di
dimensioni bibliche – Un articolo di Corrado Alvaro nel 1953 – Una relazione
geologica di Alberto Ducci
di Antonio Delfino
"Per farsi una idea dei disastri che l’alluvione ha prodotto
in Calabria, bisogna andare a Platì. Non è facile raggiungere Platì, un piccolo
presepio di seimila anime a 300 metri sul mare, e annidato in una gola di
montagna, ma e interessante andarvi, prima perché, come vi dicevo, i danni
dell’alluvione sono stati, in questa zona, enormi, e poi perché in questi
paesini di montagna, che vivono sempre nel tragico presentimento di una
sciagura, si trova la Calabria, la più semplice e la più rude, quella che in
fondo è la più vera e dove il tempo pare si sia fermato in una estetica, contemplazione degli avvenimenti i quali si susseguono per loro conto senza che
queste popolazioni si affatichino a rincorrerli".
Cosi iniziava il suo servizio Vittorio Ricciuti il 9 novembre
del 1951 sul -Mattino- di Napoli. In quell'ottobre funesto io frequentavo la
seconda classe del Liceo Classico di Locri e bloccato dalle frane a Platì, mi
misi a raccogliere gli articoli più significativi di quell'evento calamitoso
che aveva portato devastazioni e morte. Sono andato a sfogliarli. “Il fango ha
inghiottito tutto: agrumeti, frantoi, un oleificio di cui non si vede più nulla: anche una piccola centrale elettrica, che era stata
costruita ad opera di un privato è andata distrutta ed il paese è rimasto al
buio. Tra qualche ora, mentre le ultime luci avranno abbandonato la valle,
Platì non avrà più nulla che ricordi la vita. Anche il sonno dei morti –
conclude Rizzuti - a Platì non è stato rispettato: il mostro delle acque ha
attraversato li cimitero, lo ha sommerso e quando l’acqua si e ritirata si sono
visti tibie, femori, crani che la corrente portava alla deriva, e i vecchi
resti umani si mescolavano ai morti recenti. Questa è la tragica sorte di Platì, un povero paese
destinato a sparire dalla faccia della terra perché sotto di lui il terreno
frana e slitta verso una corsa paurosa alla morte”.
E Filippo Sacchi il 28 marzo del 1952 scriveva sulla “Nuova
Stampa”: “Le scuole di Platì! Una casupola di tango, a cui si arriva
ciampicando per una viuzza che è tutta una fetida pozzanghera, piena di bucce, di
detriti e di spurghi. Si sale scaletta, e sopra, nell’unico piano, ci sono le
aule, tre stanzini soffocati, che quasi si tocca con la testa, senza vetri alle
finestre (erano giorni freddissimi), con i pavimenti divelti, naturalmente
senza luce, e già alle tre del pomeriggio quasi non si vedeva. Pigiati a cinque
e cinque stavano gli scolaretti nel rozzi e miseri banchi. Era la mostra della
denutrizione. La maestrina, me li chiamava fuori uno ed uno, bimbette e
ragazzi, perché vedessi meglio da vicino quei visini patiti, quelle braccine,
quel piedini nudi e scarni incrostati di mota. Non mi diceva niente, solo li
chiamava fuori a uno a uno per nome, cosi semplicemente come se fosse la
presentazione dei modelli.”
L’Aspromonte veniva riscoperto. In passato, per i briganti
ed i terremotati, ora, per le alluvioni. Arrivarono i primi soccorsi. Fu una
gara di solidarietà umana con sottoscrizioni e raccolte di fondi. Il sud doveva
essere assistito. Interi camion riversarono sulla piazza dei paese indumenti
smessi che crocerossine con tocchi di civetteria elargivano a tutti. Quell'anno
il carnevale arrivò in anticipo. Rocco P., un anziano contadino padre di dieci figli
all'ennesima distribuzione arrivò in ritardo. Era rimasto un vecchio frac dalle
code lise e stazzonate che mi ricordavano i camerieri della Nuova Messina a
Locri. Nel mesi estivi sotto un sole cocente indossò il frac per zappare sulla
fiumara asciutta che mesi prima aveva portato lutti, e cercando di ricavare una
“fiumarina”, un pezzo d'orto per sfamare i figli. Gli interventi furono d’assistenza.
Si costruì qualche muro d 'argine e la gente stanca di aspettare prese la nave
per l’Australia. Tre mila persone in pochi anni. Una emorragia umana senza
precedenti, da dimensioni bibliche. Mentre si curavano le prime ferite arrivò
l’alluvione del 1953. IL 24 ottobre del 1953, Corrado Alvaro pubblicava, sul
Corriere della Sera, un articolo sferzante per la classe politica. «E' la
stessa zona colpita due anni fa da una prima alluvione di meno orride
proporzioni, pochi giorni prima delle devastazioni del Polesine. Come allora,
su quei lutti, una amara ironia: si disse che la Calabria aveva avuto la
sventura d'un disastro come una buona occasione per attirare l'attenzione sui
suoi mali, ma, un'altra regione dei Nord ne aveva una più grande, concentrando
su di sé la solidarietà dei mondo. E, difatti, fino a ieri, arrivano in
Calabria gli ultimi scarti di vecchi panni, alcuni ponti erano ancora di legno,
e uno in costruzione, sul torrente più feroce che sbuca dalle gole
dell'Aspromonte e che ingoia annualmente giardini e vittime umane, il Bonamico,
era già crollato nuovamente. Il più moderno studio organico – prosegue Alvaro -
sulle condizioni della Calabria è del 1834, ed è una relazione del Governo
borbonico. I problemi che esso esamina sono ancora attuali, ma, bisogna aggiungervi,
per il secolo che è trascorso da allora, la distruzione che si è operata, da
speculatori senza cinismo e da municipi bisognosi e inesperti, del suo mantello
arboreo, cioè della sua difesa naturale. La furia delle acque sul versante più
spoglio, lo Jonio, allarga i letti dei torrenti d’anno in anno, divora ettari
di terra di colture ricche. Tali fenomeni non si registrano fino a quando le
alluvioni grandiose non compiono l’opera creando un cataclisma come quello attuale,
che muta addirittura la configurazione del terreno, spiana monti, copre valli
prepara il crollo dei paesi sulla pendici. Lo Stato interviene spendendo somme ingenti a fortificare i
paesi pericolanti. A distanza d pochi anni, le crepe già segnano e rompono I
bastioni che trattengono la terra”.
E mentre Corrado Alvaro scriveva queste cose, nel Polesine
la senatrice Lina Merlin (quella delle case chiuse) pretese che gli elicotteri
militari salvassero dalle acque migliaia di tacchini che la furia del Po aveva
spinti su strisce di terra e che sarebbero morti affogati. E quando intervenne
nella Commissione parlamentare per i provvedimenti straordinari a favore della
Calabria un mordace deputato commentò: Povera Calabria, che casino!
A distanza di oltre un secolo si ha la prima relazione
geotecnica su Platì. E' Alberto Ducci, insigne geologo a compilarla, affermando
che lo spettacolo che si offre è quello tipico di un fenomeno di grandiosa
erosione in fase di piena attività. E' un vero sfasciume geologico che dipende
- secondo Ducci - dallo stato di particolare e profonda fratturazione delle
rocce costituenti l'intero versante orientale dell'Aspromonte orientale,
dall'alterazione profonda dovuta a processi geo-chimici e dalla montagna in
rapida fase di sollevamento. Le argille divenute rocce metaforfiche sono
ritornate, per alterazione, argille. E dalle profonde rughe dell'Aspromonte
sgorgano colate imponenti come manifestazioni di un astro appena nato. Ecco
perché il problema di Platì si pone, passata la prima emergenza, in termini
drammatici. Platì rappresenta il polso impazzito di una montagna che erutta
argille. L’intero territorio va studiato da geologi. Allo stato attuale la
regione Calabria (unica in Italia) non dispone di un servizio geologico. L'on.
Pastore, nel 1961, invitato a Reggio Calabria dal presidente del Consiglio,
Fanfani, a dire le sua, sulla legge speciale per le Calabria disse che,
approvata nel 1955, divenne operante nel 1957 perché della Calabria mancavano
persino le carte geografiche e geofisiche.
A Platì questa volta, bisogna andare con le carte in regola.
E’ nell’interesse di tutti.
GAZZETTA DEL SUD,
Anno XXXIV – Martedì 29 gennaio 1985
Nota - Questo articolo, come quello citato di C. Alvaro, era apparso su
queste pagine il 7 ottobre 2011 come immagine, senza trascrizione ed un titolo diverso. Oggi, nel 67° anniversario di quel tragico evento, è un tributo alla penna di Antonio Delfino, che i pulinaroti si apprestano a commemorare. La foto, tramite Francesco di Raimondo, appartiene alla famiglia Delfino.
Scopro solo ora che i due inviati del "Mattino" di Napoli e "La Nuova Stampa" di Torino furono anche valenti critici cinematografici. Chissà quale film videro in quelle macerie!
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