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sabato 11 settembre 2021

Faccia a faccia [di Sergio Sollima - 1967]


IL PASSERO

A Vocale era andato a cercarlo e poi al passo della Cerasara, nelle foreste della Ruffa e tra le pareti incassate del Duverso. Finalmente l'aveva preso.
Con i ceppi ai polsi lo portava verso il paese mentre la nebbia salendo dal Buonamico rendeva Pietra Longa come un punto esclamativo in un mare di nuvole.
Il Passero era un temibile ladro. Intere mandrie di pecore e capre sparivano tra le grotte di Calivia ed i fianchi di Pietra Cappa. Il versante orientale dell'Aspromonte era una groviera. Non si trovava traccia. Da solo teneva a bada branchi di cani selvaggi. Era imprendibile. I pastori lo scambiavano per il lupo Cola e gli lanciavane tizzoni ardenti quando si avvicinava agli stazzi. Con i ceppi ai polsi sperava ancora di farla franca. Verso i piani di Carrà, il sentiero diventava stretto, tortuoso e tra gli arbusti di erica arborea s'intravedevano le donne sul greto bianco del torrente a raccogliere legna.
Sembravano tante formiche. Ad un certo punto il Passero disse: «Brigadiè, io soffro di vertigine. Ho paura del vuoto. Fatemi passare dall'altra parte». Fu subito accontentato. Ad un certo punto dove il pendio era più ripido, con un balzo felino diede uno strattone al brigadiere. Ed avvinti finirono in fondo al burrone. Massaro Peppe restò stordito e contuso. Il Passero prese il volo, convinto che il brigadiere fosse morto.
E giunto sul ciglio del burrone gli gridò; «ora si ca tu 'mbarri 'u pani du guvernu! (Ora si che t'abbuffi del pane dello Stato)». Il Passero prese la via, per Natile a cercare Beniamino lo zoppo nella vecchia forgia di novello Vulcano. Liberò il Passero dai ceppi mettendolo in libertà provvisoria. A San Luca arrivarono decine di carabinieri. Ed il medico Fera con l'arciprete Giorgi si trasferì in caserma più per l'immancabile tressette che per le cure dell'ammalato. Massaro Peppe, pesto ed ammaccato, trascorreva le giornate in caserma a guardare lo sterminato greto della fiumara di Buonamico che spuntava dietro la collina del Saracino. Mangiava poco. E la fidata Caterina quando sentiva il banditore che annunziava la vendita di carne a basso macello perché una vacca era caduta in un burrone, si precipitava dal Puglisi. I cani randagi stavano acciambellati davanti alla porta balzando ogni volta che qualche lembo di carne si liberava dai fili di ginestra dove era legato. Non c'era carta da avvolgere. Molti pastori con la scusa di parlare di armenti si attardavano nella macelleria del Puglisi per avere notizie del Massaro Peppe. Ed il macellaio in un dialetto forestiero si abbandonava ad espressioni tranquillizzanti. «Non mangia nenti. 'Ncuna nticchia i ficatu. E malanova mavi. Chimmu moriva! (Non mangia niente. Un pò di fegato. Che avesse maledizione. Dovrebbe morire)». Era la fibbia o l’imbasciata per i latitanti che potevano rientrare in paese per un pò di riposo.
Massaro Peppe sapeva tutto e dal terrazzo mandava in aria ampie volute di fumo dall'immancabile pipa. Erano segnali di guerra.
La sera di Natale il Passero forte delle notizie avute dal Puglisi era alle prese con una montagna di maccheroni avvolti da ricotta salata. Dal vico della Pivula si udì il suono di una zampogna. Quando lo zampognaro fu davanti all'uscio del Passero modulò le prime note della novena di Natale. L'uscio si apri ed il boccale di vino apparve la Colt.
«Cicco, andiamo» - disse Massaro Peppe.
«Aspettate che finisca i maccheroni», fu la risposta.
Il Passero fu accontentato!
Testo e foto di Antonio Delfino

 


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