Faccia a faccia [di Sergio Sollima - 1967]
IL PASSERO
A
Vocale era andato a cercarlo e poi al passo della Cerasara, nelle foreste della
Ruffa e tra le pareti incassate del Duverso. Finalmente l'aveva preso.
Con i
ceppi ai polsi lo portava verso il paese mentre la nebbia salendo dal Buonamico
rendeva Pietra Longa come un punto esclamativo in un mare di nuvole.
Il
Passero era un temibile ladro. Intere mandrie di pecore e capre sparivano tra
le grotte di Calivia ed i fianchi di Pietra Cappa. Il versante orientale
dell'Aspromonte era una groviera. Non si trovava traccia. Da solo teneva a bada
branchi di cani selvaggi. Era imprendibile. I pastori lo scambiavano per il
lupo Cola e gli lanciavane tizzoni ardenti quando si avvicinava agli stazzi. Con
i ceppi ai polsi sperava ancora di farla franca. Verso i piani di Carrà, il
sentiero diventava stretto, tortuoso e tra gli arbusti di erica arborea
s'intravedevano le donne sul greto bianco del torrente a raccogliere legna.
Sembravano
tante formiche. Ad un certo punto il Passero disse: «Brigadiè, io soffro di vertigine.
Ho paura del vuoto. Fatemi passare dall'altra parte». Fu subito accontentato.
Ad un certo punto dove il pendio era più ripido, con un balzo felino diede uno
strattone al brigadiere. Ed avvinti finirono in fondo al burrone. Massaro Peppe
restò stordito e contuso. Il Passero prese il volo, convinto che il brigadiere fosse
morto.
E
giunto sul ciglio del burrone gli gridò; «ora si ca tu 'mbarri 'u pani du
guvernu! (Ora si che t'abbuffi del pane dello Stato)». Il Passero prese la via,
per Natile a cercare Beniamino lo zoppo nella vecchia forgia di novello
Vulcano. Liberò il Passero dai ceppi mettendolo in libertà provvisoria. A San
Luca arrivarono decine di carabinieri. Ed il medico Fera con l'arciprete Giorgi
si trasferì in caserma più per l'immancabile tressette che per le cure
dell'ammalato. Massaro Peppe, pesto ed ammaccato, trascorreva le giornate in
caserma a guardare lo sterminato greto della fiumara di Buonamico che spuntava
dietro la collina del Saracino. Mangiava poco. E la fidata Caterina quando sentiva
il banditore che annunziava la vendita di carne a basso macello perché una
vacca era caduta in un burrone, si precipitava dal Puglisi. I cani randagi
stavano acciambellati davanti alla porta balzando ogni volta che qualche lembo
di carne si liberava dai fili di ginestra dove era legato. Non c'era carta da
avvolgere. Molti pastori con la scusa di parlare di armenti si attardavano
nella macelleria del Puglisi per avere notizie del Massaro Peppe. Ed il
macellaio in un dialetto forestiero si abbandonava ad espressioni
tranquillizzanti. «Non mangia nenti. 'Ncuna nticchia i ficatu. E malanova mavi.
Chimmu moriva! (Non mangia niente. Un pò di fegato. Che avesse maledizione.
Dovrebbe morire)». Era la fibbia o l’imbasciata per i latitanti che potevano
rientrare in paese per un pò di riposo.
Massaro
Peppe sapeva tutto e dal terrazzo mandava in aria ampie volute di fumo
dall'immancabile pipa. Erano segnali di guerra.
La
sera di Natale il Passero forte delle notizie avute dal Puglisi era alle prese
con una montagna di maccheroni avvolti da ricotta salata. Dal vico della Pivula
si udì il suono di una zampogna. Quando lo zampognaro fu davanti all'uscio del Passero
modulò le prime note della novena di Natale. L'uscio si apri ed il boccale di
vino apparve la Colt.
«Cicco,
andiamo» - disse Massaro Peppe.
«Aspettate
che finisca i maccheroni», fu la risposta.
Il
Passero fu accontentato!
Testo e foto di Antonio
Delfino
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