La macchina con dentro i pulinaroti si è mossa. Loro cozzano e si
scherniscono da platioti. La loro meta e che il 1°
Antonio Delfino tribute & award non vada sprecato.
mercoledì 26 settembre 2018
The Great Passage [di Yuya Ishii, 2013]
Non erano trascorsi che otto anni dall’inizio del nuovo millennio
quando Platì perse i suoi due ultimi figli più illustri: Antonio Delfino e
Ernesto Gliozzi il giovane; il braccio secolare e quello metafisico-religioso
di un paese altrimenti noto. Lo zio il giorno della candelora, Delfino
allo scoccare dell’equinozio d’autunno. Nei cicli ricorrenti dell'anno sono due momenti importanti, l'inizio del risveglio e l'inizio del riposo della natura, un grande passaggio, che non è dato a chiunque poter scegliere, solo a chi lo merita. Per un paese come il nostro è molto importante, visto che ancora il legame con la terra permane. Tutti e due ampiamente ricordati per
mezzo delle loro opere e giorni. Tutti e due con un background familiare
difficile da nascondere. Antonio Delfino era figlio, del secondo, cronologicamente, uomo più famoso
tra quelli che cavalcarono per le terre e le montagne di Platì: Giuseppe
Delfino, meglio noto con l’alias massaru
peppi; il primo era stato Ferdinando, Caci,
Mittiga. Come nei migliori John Ford, l’uomo della legge ed il bandito. Per
buona parte, la storia di Platì, quella ancora arcaica, la vissero loro due. Tra
gli intellettuali platioti Antonio, Totò, Totu Delfino è stato il più completo:
docente, politico, letterato, giornalista, fotografo e chissà quant’altro. Il
matrimonio lo condusse fuori dal paese ma non per questo lo perse, anche grazie
alla complicità della sua sposa. Platì e la Calabria, la loro gente e i luoghi,
le leggende e la storia furono il suo chiodo fisso, da proteggere, conservare,
tramandare. E questo fece, grazie anche alla sua dote di uomo sociale e ben
voluto, accettato nelle mense ludiche siano esse intellettuali che conviviali.
Ogni platioru ha un Totu Delfino suo, anche io ho il mio che non dimenticherò
mai: amico di papà, dello zio Ciccillo, dello zio Ernesto, dello zio Pepé. Una
sera dei miei anni di mezzo squilla il telefono, Ginu sugnu Totu Delfinu, ndi sperdimmu, chi ta passi? Oggetto della
telefonata era una cosa naturale per quegli anni: una raccomandazione agli
esami di licenza liceale. Io li avrei promossi tutti, ma, gli dissi, se la
doveva vedere con mia sorella, membro della commissione in un liceo messinese,
che era più irremovibile di me. Come finì non lo so, quello che mi rimane ancora
nelle orecchie è quella sua voce gioviale, smagliante. Non lo rividi mai, la
sua testimonianza rimane anche grazie a queste pagine in cui egli ritorna e
rinasce.
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