Piano dello Zillastro, 4- 8 settembre
1943
Luigi
stava sudando copiosamente. Scarpinava da ore. Il 185° Reggimento Divisione
Nembo aveva appena lasciato alle spalle Bagaladi e San Lorenzo, dopo un
estenuante combattimento contro gli Alleati sbarcati in Calabria. Erano stati
chiamati a sostegno del 502° battaglione, dislocato sulle coste, ma gli Alleati
erano numericamente superiori. Gli altri battaglioni dei paracadutisti, il II e
l'XI, erano stati costretti a battere in ritirata verso il nord della regione,
mentre l’VIII, cui faceva parte guidato dal capitano Conati, stava ripiegando sull'impervio
dorsale dell'Aspromonte.
Da
diverse notti dormivano all'addiaccio, sotto un’insistente pioggia che stava
cadendo fitta sulle montagne, rendendo viscido il percorso sui tratturi. Dopo
tre giorni di dura marcia, i paracadutisti attraversarono l’ultimo tratto che
univa Platì a Oppido Mamertina, tallonati senza tregua dal Reggimento New
Scotland e dal Reggimento Edmond.
Sul finire
di quel terzo giorno il reparto raggiunse il Piano dello Zillastro, e bivaccò
nella faggeta Matrogianni, ignari che
alle loro spalle i nemici ii avevano preceduti e si erano accampati nello
stesso luogo.
All'alba
dell'8 settembre, al grido di incitamento del capitano Conati all'attacco Nembo, quattrocento parà italiani
contro cinquemila anglo-canadesi si scontrarono senza tregua. Luigi e i suoi
compagni combatterono fino all'esaurimento delle munizioni, poi la lotta si
tramutò in un corpo a corpo con i nemici.
II
capitano Conati cadde prigioniero nelle mani degli alleati. Tra i fanti
italiani ci fu un memento di disorientamento, ma il capitano Diaz, subentrato
al comando dei paracadutisti e uno dei pochi superstiti del battaglione, prese
in mano la situazione e la battaglia prosegui fino all'indomani.
Tuttavia
la capitolazione italiana fu definitiva. I superstiti dell’VIII battaglione si
ritirarono a Platì, sede del Comando di Reggimento, dove appresero, con
sgomento e incredulità, che l’Italia aveva firmato l’armistizio con gli alleati
da ormai cinque giorni. Il governo italiano era passato dall'altra parte, senza
che loro avessero subodorato nulla!
Luigi
fu uno dei pochissimi sopravvissuti della battaglia sullo Zillastro. Ferito al
braccio, da cui perdeva sangue copiosamente, aveva perso conoscenza. Una
circostanza fortunata. Gli anglo-canadesi lo avevano creduto morto e l’avevano
lasciato lì a sanguinare nella faggeta Mastrogianni.
Quando
si riprese, il buio ammantava ogni cosa e neanche lo spicchio di luna in un
cielo stellato riusciva a penetrare tra il fitto folto degli alberi. Luigi fu
travolto da un dolore immane, profondo, che lacerò la sua anima. Avverti un
senso di disorientamento che gli annebbiò la mente, la capacità di prendere decisioni.
Che
cosa doveva fare, ora? Luigi fu conscio che d'ora in poi la sua salvezza
dipendeva dalla capacità di fuggire tra quei monti ostili e non farsi catturare
dai nemici.
Abbozzò
un piano di fuga. Guardò su in cielo. Tra la Costellazione dell’Orsa Maggiore e
Cassiopea individuò la Stella Polare. Cautamente, con il favore del buio e
strisciando tra gli alberi, guardandosi continuamente alle spalle, tagliò per
il Nord. Doveva raggiungere Platì.
All'alba
del mattino successivo, sfinito dalla stanchezza, mentre stava percorrendo
l'ultimo tratto del dorsale dell’Aspromonte, in prossimità di Platì, incrociò
un contingente della 26° Divisione Panzergranedier, in ritirata verso
settentrione. Credendoli amici Luigi diede le sue credenziali, ma la loro immediata
reazione lo lasciò perplesso.
I
tedeschi, rabbiosi e infuriati, gli puntarono contro i fucili. «Traditore.»
Senti dire da uno dei soldati tedeschi, il viso contorto da un’espressione di
evidente disprezzo misto a odio. Luigi trasecolò. Non aveva la minima idea di
cosa parlasse quel tedesco.
«Voi italiani avete firmato l’armistizio
con gli Alleati. Ci avete tradito!» Gli fu rudemente spiegato da un ufficiale.
Luigi
non ebbe il tempo cli capacitarsi del cambiamento cli rotta da parte del suo
stesso Governo che un colpo secco del calcio cli un fucile colpi la sua tempia,
tramortendolo gravemente. Luigi perse i sensi. Quando rinvenne, alcune ore dopo,
realizzò con orrore di essere un prigioniero.
Una
sottile forma cli paura e terrore serpeggiò dentro cli lui. Per la prima volta
nella sua vita sperimentò sulla propria pelle l’umiliazione, l’insulto, la
denigrazione, ma nulla, tuttavia, a confronto cli quello che avrebbe provato
negli anni a venire.
La
Divisione Tedesca marciò per giorni, fino a ricongiungersi con altri contingenti
verso Taranto. Da qui Luigi fu caricato su un carro bestiame, pigiato,
schiacciato insieme con altri deportati italiani rastrellati in vari campi di battaglia.
Per
Luigi iniziò una lunga, lenta e penosa marcia verso le terre fredde. Un
calvario che durò trenta giorni, dove molti suoi connazionali persero
ignominiosamente la vita per inedia. Il carro merci sostò in diverse località,
anche per giorni interi. Ai deportati fu negata ogni parvenza di dignità umana,
privati di cibo e acqua, senza alcuna possibilità di respirare aria fresca o di
espletare i propri bisogni fisiologici.
A fine
settembre la tradotta tedesca giunse nel primo campo di smistamento. Qui, nel
Durchgangslagen-Dulag, il fante Luigi Colinni perse la sua identità. Fu
schedato e identificato con il numero 54367. Poi i prigionieri furono fatti risalire
nuovamente sui carri merci, smistati verso i campi di internamento dislocati
nei territori occupati dalla Germania, Francia e Polonia.
Ai
primi di ottobre Luigi giunse nello Stalag III (Kriegsgefangenfager), situato ad Alt Drewizt, quartiere periferico
di Kustrin a cento chilometri da Berlino, dove gli fu riferito, non senza una
nota di disprezzo, che era un IMI, acronimo di Itaiianesche Militar Internierte. Su richiesta del Fuhrer, Keitel,
capo del comando supremo della Wermacht, i prigionieri italiani sarebbero stati
considerati, da quel momento in poi, internati militari italiani e privati,
dunque, dei diritti sanciti dalla Convenzione di Ginevra del 1929. E pure con
il beneplacito di Mussolini.
Tuttavia
venne offerto loro una via d'uscita. Alcuni giorni dopo il suo arrivo al campo,
Luigi, insieme ad altri prigionieri, fu convocato da un certo Anfuso,
ambasciatore italiano di Berlino, per conto cli Mussolini. Gli fu chiesto di
arruolarsi nell’esercito della nascente Repubblica di Salò, in cambio di cibo e
di uno stipendio. L'offerta era allettante.
Luigi fu
tentato dalla prospettiva di poter uscire incolume da quel luogo orribile, di
ritornare dalla sua Anna, la sua ancora di salvezza, terraferma stabile in cui
ormeggiare la barca e tenerla lontana dalle onde trascinanti della follia e dalle
brutture di quel lager. Poi il suo pensiero corse ai suoi amici cli battaglia,
uccisi sul Piano dello Zillastro.
No,
meglio rifiutare l’ignominia, l’infamia; meglio morire che essere disprezzato
per codardia, meglio la fame, il freddo, i pidocchi, che tradire i suoi
connazionali deportati insieme con lui in quello che era l'ultimo pesto
dimenticato da Dio.
Il suo
rifiuto gli costò le peggiori umiliazioni. Le guardie tedesche non posero
limite alia crudeltà, alle perversità, alle torture. Gli appelli, le Appellplatz, del mattino e della sera erano
massacranti. In piedi per ore, sotto la pioggia, le gelide sterzate del vento e
la fitta neve, i prigionieri tremavano al freddo gelido. E la paura. Si
insinuava nelle viscere, quando un medico tedesco decretava la fine di una
vita. Guai a chi cadeva sette il brutto tiro della malattia, guai a chi si
rivelava poco produttivo nel campo di lavoro, guai a chi rallentava la produzione!
E allora l'essere bollato come inabile al lavoro, era una sicura condanna a morte.
Due mesi
dopo Luigi fu mandate in un Arbeftskommando,
nei pressi di Berlino, e utilizzato nello sgombero delle macerie degli edifici
distrutti dai bombardamenti delle truppe alleate. Luigi divenne uno dei tanti
invisibili sklaven di Hitler, uno stucken, une schiavo, partorito
dall‘idea del machiavellico Spazt, primo Ministro degli Armamenti, che propose
l’utilizzo della manodopera degli internati italiani nelle industrie belliche a
costo zero. Successivamente Luigi fu trasferito in una fabbrica belligerante e
costretto a lavorare dodici,
quattordici ore, ininterrottamente, frustrato, dalle crudeli SS, con inaudita
violenza a ogni cenno di stanchezza. E il tutto per una ridicola e offensiva
carta moneta, la Kriegsgefangeneng
Lagergeld, che era buona solo per uno scambio di merce inutile spendibile
all’interno del campo. Lo scambio di merce inutile spendibile all’interno del
campo. Le razioni del cibo, ridotte al minimo, non erano che una sporca brodaglia
con qualche rimasuglio di rapa marcia.
«Tieni, falla durare almeno una
settimana!» Sbraitava il sorvegliante con una grassa risata, lanciando quello
che sembrava essere un tozzo di pane raffermo e ammuffito.
Alla
fame si aggiunsero la sporcizia, i pidocchi, le cimici, la difterite, la
gastroenterite, la tubercolosi.
Era
quello che i tedeschi definivano la strategia di annientamento dell’essere umano, fortemente auspicata da Hitler.
Ben
presto il processo di annullamento colpi inesorabilmente e senza pietà Luigi
Colinni, che diventò l’ombra di sé stesso.
Patrizia
Orato, La notte dei sospetti, 2018