Pasquale Miceli
Tra le vecchie notizie concernenti il
territorio di Platì viene segnalato in rosso l’anno 1848. Le cronache
dell’epoca – oggi polvere all’Archivio di Stato di Reggio Calabria – riportano
l’episodio dei Piani della Corona, coinvolti centinaia di braccianti,
mulattieri e foresi, alcuni pagarono solo per aver espresso vicinanza ai moti,
la polizia borbonica di Pasquale Miceli ne fece agnello sacrificale.
Figlio di mulattiere, da bambino aveva
perso il padre per il morso di una vipera, crebbe analfabeta come tutti gli
appartenenti al suo ceto, ma sapeva fare di conto grazie al prete che gli
impartiva la benedizione e pure le tabelline.
Ai Piani della Corona tra faggeti e
pinete una fiumana di persone si dava convegno a parlamentare di rivoluzione e
ad attendere Agostino Plutino e Casimiro De Lieto, fautori in Calabria del
rovesciamento di regime nel costituire il provvisorio governo antiborbonico. Le
milizie borboniche però seppero, della presenza di Miceli e di altri accoliti.
Le indagini fecero appurare dello spirito utopistico e demagogico
dell’indagato, anche della venuta di Agostino Plutino a Platì, proprio nella
casa della sorella di Miceli, dove ricevette pranzo e ristoro.
Il resto lo fecero i notabili di Platì,
rispettando la massima dalla notte dei tempi che vuole i delitti risolti con la
delazione, su carta scritta informarono l’Intendenza; dismisero guardinghi la
camicia borbonica per indossare la giacca dei liberali, le camice, quelle con
il giglio al petto simbolo della casa reale sostarono negli armadi per anni, le
restaurazioni consigliavano tenersi pronti per i ritorni al passato.
Cospirazione contro il governo reale e
discredito contro la persona di sua Maestà, la Gran Corte Speciale si pronunciò
con una pena di diciannove anni, Miceli ne scontò otto nel carcere di Procida
per aver gridato in Piazza San Nicola testualmente: “Viva la Repubblica, viva
il governo provvisorio, si fotta il Re”.
Pasquale Miceli dalla Gran Corte
Criminale venne condannato a diciannove anni e trasferito da Reggio alla penombra
delle celle di Procida, qui incontra Carlo Poerio, Antonio Garcea, i fratelli
Palermo da Grotteria, Silvio Spaventa che lo farà più ricco insegnandogli
lettura e scrittura.
Negli otto anni trascorsi in catene non
un giorno senza sevizie, al mattino colpito alla natica con un bastone a cui
erano legate corde di cuoio, al paese intanto perdeva due dei sette figli che
aveva lasciato smarriti e lui lo appurava con mesi di ritardo, a giorni alterni
i carcerieri cambiavano il lato della natica. Tornato in paese grazie
all’amnistia concessa con decreto reale da re Franceschiello, i signorotti ne
attesero la carrozza all’ingresso del paese, lo riabbracciarono per primi
quelli che lo avevano denunciato, Don Ciccio Oliva colui che lo prenderà in
carico, il risarcimento per l’ingiusta detenzione glielo offrì lui stesso tra
le mura della casa comunale: il più alto possibile, otto anni di Procida per
balzare al vertice della scala politica, Pasquale Miceli mulattiere
pregiudicato eletto sindaco alle elezioni del 1860. Infine muore due
volte, la prima nell’aprile del 1866, la seconda definitiva morte l’alluvione
del 1951 che si prende anche la sua tomba.
MICHELE PAPALIA, maggio 2023
A discapito dell’immagine d’apertura, laddove lo
zio Mimì, anch’egli Miceli, è con sua sorella Cristina, il volto di Pasquale
Miceli mi piace immaginarlo con il cipiglio irish
di Sean Connery del film in apertura. Del resto la prosa disumana di Michele Papalia
ben si addice ai cospiratori, siano essi irlandesi o pratioti.
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