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giovedì 23 aprile 2020

Un padre, una figlia [di Cristian Mungiu, 2016]

CENTESIMO ANNO 

di Bettina Gliozzi di Giuseppe

Queste parole mi sono state estorte con una minaccia, ve lo dico subito.
Per me, “Non mi devi deludere!” è peggio di una pistola puntata sul cuore. Ma è lì che ha mirato Ginocugino quando, giorni fa, mi ha chiamato per ricordarmi quest’anniversario. Che io me lo ricordavo, ma me lo tenevo stretto. Le esibizioni plateali sono quelle che mi fanno distinguere quando c’è da indossare cappelli dalle forme più strane o collane dai colori sgargianti, oppure salire su un tavolo a leggere racconti epici di paese, anche se il fiato mi abbandona ogni tre parole, non quando devo raccontare di un pezzo di cuore. Che anche lì, certe volte mi viene pure bene, anche se poi chi mi ama sul serio mi richiama subito, per dirmi che i sentimenti non si espongono in pubblico e che chi legge potrebbe essere proprio chi mi ha fatto più male al mondo, quello che ha giurato su un letto di morte e poi ha voltato le spalle.
A me non importa. Io sono così. Perciò è da qui che voglio partire, per raccontare papà. Dal momento in cui se n’è andato dal mondo per entrarmi definitivamente nel cuore. Da quella settimana in cui, lentamente si è consumato, permettendoci di maturare il distacco, di desiderarlo quasi, come chiedeva lui al dottore che si avvicinava al suo letto d’ospedale. Fatemi morire, mi sono stancato. E resisteva.
Per chiedere una promessa che non è stata mantenuta.
E per regalarmi un sorriso che non era per me.
Ma che io mi porterò nel cuore per sempre.
Potevo evitare di raccontarvi questo dettaglio, adesso, lo so. Ma ve l’ho già detto che io sono così. Vado a ruota libera, quando scrivo, non seguo una traccia, soprattutto a comando. O se ho pistole puntate sul cuore.
Isabella me lo dice sempre: tu sei figlia di tuo padre!!! E per me non c’è cosa più bella! Perché io lo so che gli somiglio, mi rivedo nell’allargarmi con tutti, nel prendere le cose con leggerezza, nella platealità di certi gesti, nel gustare certi piatti, nella rotondità del corpo e, più che ogni altra cosa, nell’immensità delle orecchie, che sembrano due padelle! Le mie e le sue!
Sì, lo so che adesso tutti, dopo aver versato le dovute lacrime leggendo l’inizio, non vi capacitate che io vi stia mostrando questa fotografia. Eppure io le orecchie me le guardo ogni mattina e lo vedo che diventano sempre più grandi, andando avanti nell’età, esattamente come quelle di papà.
Il naso invece no.
Quando è nato Jacopo, Mimmuzzo, amorevolmente, fece uno strappo alla regola, me lo portò in camera che io ancora non mi ero svegliata dall’anestesia e voleva mettermelo in braccio: io lo guardai e inorridita dissi NO!!!! Ha il naso di papà, dello zio Ciccillo e della zia Rosina messi insieme!!! Mimmo, non capì cosa stessi dicendo e, immaginando che non fossi sveglia, si guardò bene dal mettermelo in braccio…. ma credetemi, io lo so di cosa stavo parlando e tutti i miei cugini che stanno leggendo, lo sanno allo stesso modo.
Non un naso: una campana al posto del naso!
E, infatti, lui mi cantava sempre una canzoncina e la suonava facendolo dondolare e soffiando….

Dormiti bella e facit’u sonnu (ndilin- ndilon) 
Se no vaju e vi chianu u Batitonnu (ndilin-ndilon) 
U Batitonnu non potìa veniri (ndilin-ndilon) 
Ca jiu u scangia cincucentu liri (ndilin-ndilon) 
E li tricentu si li tornaru farzi (ndilin-ndilon) 
E pe la pena si llordàu li carzi (ndilin-ndilon) 
Doppu d’i carzi, si llordau i mutanti (ndilin –ndilon) 
E ndeppi mu simmuccia ‘nto caccianti (ndilin –ndilon) 
Ma lu caccianti ndavìa jiutu fora (ndilin –ndilon) 
U cogghji na minestra di scalora (ndilin –ndilon) 
E c’a scalora fici na ‘nzalata (ndilin –ndilon) 
E la gugghjiu ‘nta na patamata (ndilin –ndilon) 
(ndilin –ndilon) 
(ndilin –ndilon) 

Sì, lo state immaginando anche voi che se le inventasse su due piedi queste rime becere, e che il ndilin-ndilon servisse a raccogliere i pensieri per la rima successiva, oltre che per l’improvvisato spettacolo del naso che suonava come una campana percossa dalle dita, perché non c’è traccia, nella letteratura di nessun popolo al mondo di una ninna nanna come questa. Eppure questo stornello impietoso e di sicuro poco adatto al sonno di una bambina era l’unica cosa che lui mi sapesse cantare come ninna nanna ed io non l’ho mai dimenticata oltre a non essermi mai addormentata, ascoltandolo.
Ma questo lui cantava.
E a me andava benissimo!


Nota (Gino) - Il 24 aprile del 1920 è la data di battesimo dello zio Pepé, il 24 di quel mese era anche il giorno in cui si festeggiava la sua venuta al mondo.

3 commenti:

  1. deve essere un'abilità di famiglia quella di mirare dritto al cuore

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  2. Che bei ricordi!!! Mi dispiace non averne tanti ma quello sicuro più chiaro che ho nella mente è:
    Lo zio Peppino, per me il grande uomo dai capelli argentati, i grandi occhiali neri, la voce pacata che distinguerei credo ancora e, visto che lo dici anche tu , le grandi padelle ed il grande naso fuori misura!!!😊 .
    Per il resto ho solo in mente le belle parole e l’immenso piacere dei miei nei suoi confronti , quando si veniva a trovarvi e quando si parlava di lui.
    Infondo è lo stesso piacere che provo io quando vedo te, bella Marilisa dalle grandi orecchie nascoste , fatte apposta per te per ascoltare 👂 tutto l’amore che hai intorno ed esternarlo come solo tu sai fare.
    Un grosso abbraccio. Carlo

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