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lunedì 20 aprile 2020

Diaz - Non pulire questo sangue [di Daniele Vicari, 2012]

Il transito dell’Eroe

DISCORSO

pronunziato dall' avv. ROSARIO FERA nella solenne Commemorazione del Maresciallo DIAZ il 4 marzo 1928
in Platì per invito della locale Sezione Combattenti.
  
Gerace - tipografia V. FABIANI - 1931 IX

Dal Brennero al Giuba, una selva tricolore di vessilli abbrunati fascia di gramaglie la Patria dolente, e i bronzi di tutte le torri che già squillarono gl'inni del trionfo, diffondono ora pei cieli grigi l'accorato singulto dei loro funebri rintocchi: dal cuore della Nazione, percosso e squarciato dal telo della Parca inesorabile, fiotti di sangue zampillano ed urli d'incontenibile dolore.
Sulli affusto d' un cannone una salma - che il Sovrano inginocchiato bagnò di lagrime nell'austera solennità della camera ardente - ascende il colle marmoreo del Vittoriano, dove nel sarcofago di granito bulica e rosseggia il sangue sempre vivo del Fratello ignoto.
Scortano il carro nel viaggio di gloria, le Ombre dei Caduti risorti dalle ferrigne necropoli del Trentino e del Carso e le dense legioni dei superstiti recanti nei corpi dilaniati le stimmate del sacrifizio e i Principi del sangue e gli alti dignitari dello Stato e il popolo compatto, piangenti insieme sulla sventura che è di tutti.      
Il Maresciallo DIAZ è morto.
È morto nel vigore della sua robusta virilità, imminente il decimo annuale della Vittoria, da Lui, con somma sapienza, adamantina tenacia, indomite ardimento voluta e conquistata; è morto quando ancora la Patria poteva contare sul suo genio di Condottiero e sul suo braccio di paladino.    
Il Maresciallo DIAZ e morto e giace immoto per sempre nel sacro sudario della sua bandiera, contesta col candore immacolato della sua fede e i verdi lauri delle sue vittorie e il sangue ardente delle sue ferite
La sua grande anima s' e dipartita per raggiungere nell’Empireo gli altri Artefici del nostro Riscatto, lasciando a noi sacro retaggio il ricordo imperituro delle sue virtù e le sue ceneri che saranno per i venturi fonte perenne ed inesauribile d’ispirazione e d'eroismo.
Signori,
l'Uomo che la grande famiglia italiana piange nelle cento città della Metropoli, nelle Colonie fiorenti e sui campi internazionali del lavoro consacrò fin dalla prima giovinezza la sua vita in servizio della Patria.
Nacque a Napoli nel 1861 ereditando dagli Avi, che s’erano battuti da bravi ufficiali nelle armate del Corso, la vocazione alle armi. Si ebbe la prima educazione nel Collegio militare della citta nativa, passando poi all’ Accademia Militare di Torino e uscendone sottotenente nel 1881. Entrò nello Stato Maggiore nel 1894 e vi rimase diciassette anni conquistandosi, per tenacia cultura energia, la fama di ottimo ufficiale.
Durante la campagna libica, colonnello del 93° Fanteria combatté da prode a Zanzur, rimanendo gravemente ferito e rivelando le più belle doti di stratega e quando nel maggio storico, l’eloquenza formidabile d’un Tribuno e la facondia travolgente d’un Poeta, spezzando gli ormeggi della viltà, spinsero tra i gorghi sanguigni della grande guerra la nave delle patrie fortune. Egli è a fianco di Cadorna e di Porro collaboratore prezioso e contribuisce validamente ai successi della Campagna.
Comandante di Divisione al declinare del 1915 e poi del 23° Corpo d’Armata, operò brillantemente sotto  l’alto comando di Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, nella gloriosa Terza Armata a cui i titanici battaglioni  della Fedelissima e la Brigata magnifica dei Granatieri di Sardegna e i Fanti di cento reggimenti, in una superba gara d’eroismo e di martirio, meritarono il titolo d’Invitta.
Ma la rivelazione vera dell’Eroe si verificò nell’ora più triste della Patria, allorché la valanga austro tedesca precipitando dalla breccia di Caporetto sulle nostre linee le travolse ricacciandole al Piave.
In quel tragico frangente Chi sapeva e poteva, chiamò DIAZ al Comando Supremo, e DIAZ, conscio di se stesso, accettò. “M’hanno dato una spada rotta, ebbe a dire, ma io combatterò lo stesso”.
La vita della Patria era legata indissolubilmente all' incrollabilità del Grappa e del Piave e bisognava resistervi a ogni costo per poi - ricostituito l'esercito - slanciarsi alla riscossa.
Contro Lui, dalla frontiera svizzera al mare, stavano, formidabili di mezzi offensivi ed inebriate di successo, le Armate di Hoetzendorf, Krobatin, Below e Boroevic sotto gli ordini di un geniale Condottiero il Mackeusen.
Non disperò e, quasi privo di Artiglierie, tenne duro coi macigni del Grappa e i flutti del Piave e il petto dei suoi Fanti e respinse gli attacchi più rabbiosi riuscendo nel giro di un mese a consolidarsi in un fronte infrangibile da Asiago al mare.
Poté così, dietro la formidabile barriera, prepararsi alacre e tranquillo alle future operazioni, mentre temporeggiava con azioni di dettaglio, per migliorare sempre più le nostre difese.
Anche i nemici si preparavano e, nel giugno del 1918, crollati definitivamente i fronti russo e rumeno, l'Austria si abbatteva sul Piavon tutto il peso del suo esercito.
Fu apocalittica la mischia.
Due turbini di fuoco si scontrarono, due popoli in armi, due civiltà, due proposti disperati di sopraffarsi, il martire e il boia all’all’ultimo duello. Nembi di scintille sprizzavano su tutte le trincee, rombi e schianti di granate laceravano l'aere incandescente e polverizzavano la terra contesa su cui le Brigate eroiche dei nostri fanti morivano, senza crollare d' un centimetro.
Il Piave, tronfio di sangue, sembrava l'Arteria recisa d’un mostro favoloso, il Montello, fulcro della battaglia, sommerso a metà dalle truppe dell’Arciduca, sembrava - ed era! -- la pietra fumante del domestico focolare difesa dai nostri a prezzo d' intere divisioni.
A bassa quota – sull’ali che ondeggiavano sulla zuffa come una bandiera -- trasvolava Francesco Baracca mitragliando da vicino e falciando i rincalzi nemici.
Sette giorni imperversò la battaglia - senza tregua, serrata, micidiale - finché al tramonto del 22 giugno, sterminate dai cannoni, dissanguate dalla baionetta, torturate dai velivoli, riarse dalla sete e fiaccate dalla stanchezza le masse nemiche improvvisamente ripiegarono.
E allora le nostre artiglierie stesero sulle acque ribollenti una cortina d' acciaio e smantellarono i ponti
e squarciarono le zattere e si saziarono di strage.
Più di centomila cadaveri i nemici lasciarono sui nostri valli e il carnaio gravò sulla bilancia del destino, facendone oscillar l’ago decisamente in nostro favore.
Ancora pochi mesi di preparazione e poi la spada possente di ARMANDO DIAZ, prostrerà. per sempre a Vittorio Veneto, l’orgoglio e la potenza del secolare nemico e celebrerà l'anniversario del disastro con la più strepitosa delle vittorie.
E i Fanti che lo avevano profondamente amato - ed è virtù dei grandi capitani farsi adorare dai gregarii - inalberando il tricolore sul castello del Buon Consiglio e sulla torre di S Giusto, attesero dal suo labbro la ricompensa.
E dal suo labbro l'epinicio più sublime nell’ultimo bollettino di guerra che spazia nell’azzurro cielo di Clio, sull’ali eterne dell’epopea: ” ... I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza”.
É il metro d' Omero che freme e lampeggia nello stile lapidario del soldato.
Così la guerra fu vinta e la patria riscattata, ma la folla bolscevica ruggì minacciosa intorno alla Vittoria per strangolarla.
Allora il Generalissimo scudò la Vittoria col suo cuore per consegnarla poi al figlio primogenito di Roma, al Duce dell’Italia risorta, che ricondusse il popolo smarrito alla riconquista delle sue mete fatali.
E nell' ottobre del 1922 quando le nere falangi, entrando vittoriose nell' Urbe riaccesero il sacro fuoco sull' ara di Vesta, DIAZ, reduce dalla sua missione d’italianità nelle Americhe e Duca della Vittoria, collaboro col Duce quale Ministro della guerra.
Egli non aveva davanti a sé che uno scopo: servire fedelmente il suo Re e la sua Patria e l'elogio migliore di lui sta nelle parole con cui lo commemorò alla Camera il Capo del Governo: “La sua vita con una sola parola potrebbe essere esaltata e conchiusa: dovere. Questa parola religiosa e guerriera fu per Lui norma ed ideale.”
Tale fu l'uomo, o Signori, che oggi commemoriamo e che dette alla sua Patria e alla civiltà la più grande battaglia, la più difficile vittoria e il più sublime inno di trionfo.
Genuflessi intorno alla sua bara innalziamo riverenti il nostro pensiero a tutt' i Caduti per la causa Comune.
Noi non sapremo giammai dimenticarli perché essi vivon e vivranno eterni nel nostro cuore e in quello dei nostri figliuoli.
O donne, o bimbi d’Italia, vecchie madri e spose derelitte od orfani ignari, o vegliardi declinanti, affisate nel cielo le vostre pupille velato di pianto e guardate; i nostri Eroi sono là beati nella gloria imperitura e vi sorridono.
Essi non morirono.
Essi non morranno.
Essi avranno onore di pianto. 
ove fia santo e lacrimato il sangue
per la, patria, versato, e finché il sole
risplenderà su le sciagure umane.
Platì (Reggio Calabria) 4 Marzo 1928 - VI

Documento conservato presso la Biblioteca Comunale "Pietro De Nava" di Reggio Calabria.

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