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lunedì 14 novembre 2016

La tomba di Ligeia (reg. Roger Corman - 1964)


Quando i crepuscoli del sole morente mandano i loro ultimi pallidi bagliori, e la sera invita il tardo passeggero, che da lassù apparisce, ad affrettare il passo alla volta del suo ricovero; e l’ala stridente del falco o del nero corvo, che vi passa vicino, rapida fende l’aria, e raccoglie il volo sopra qualche rupe inaccessibile; quando l’ululo del gufo e il sinistro squittire della civetta, fosca abitatrice delle fessure di quelle muraglie, risuona, ad intervalli, lamentoso, il luogo diventa addirittura tragico.
L’ombra crescente, a misura che rende più indistinti i profili di quei vecchi avanzi, fa apparire più tenebrosi i recessi, ed in quelle cave sembra maturarsi qualche cosa di cupo e sinistro da agenti tenebrosi. Il lieve stormire delle foglie sembra il passo misterioso di qualcheduno che s’avvicini, e comunica brividi. Vaghi profili si disegnano nell’oscurità, e in mezzo a quelle ombre fosche l’occhio allucinato vede delinearsi una bianca veste verginale, slanciata e flessuosa che sorge da una tomba, mentre una testa nascosta da lunghissime chiome scomposte, che scendono fluttuanti fino al suolo, si disegna meglio.
Due mani stecchite allontanano lentamente il volume di capelli che nascondono il volto, ed apparisce una faccia pallidissima, di una vaporosa bellezza, i cui occhi sembrano di poco a poco svegliarsi da un sonno lunghissimo, e fissarvi con una espressione indefinibile, sinistra e tragica, mentre la bianca tunica, aprentesi d’improvviso, vi mostra un seno esuberante, su cui rosseggia una lunga striscia di sangue che stilla lentamente fino al suolo.
Vi sentireste tentati, vincendo lo stupore, d’interrogare quella strana vergine, bella di una eterea bellezza, ma la vostra voce non otterrebbe risposta alcuna; la vostra invocazione verrebbe accolta da un silenzio superbo.
L’aspetto di quell’apparizione ha parlato troppo, e nessuna umana favella potrebbero rendervi il senso profondo della sublime tragedia compitasi, più di trecento anni fa, lì, in quel luogo, dove un’anima nobilissima, una candida vergine, rapita all’affetto dei suoi cari dall’amore prepotente del signore di quel forte antico, si trapassava il seno con un coltello, anziché cedere all’amplesso tirannico.
E quella pallida ombra, ogni notte, a quell’ora, suole mostrare quivi il suo dolente aspetto, sorgendo dall’avello, che fra quelle mura medesime ergevale l’innamorato e pentito suo tiranno, tardo ammiratore di inaudita virtù.
E’ irriverenza disturbare quel sublime dolore; esso non vuole la parola umana incapace di descriverlo; il silenzio profondo e riverente del cuore è accettato meglio.
Ed ella si dilegua, mentre gemiti lugubri e repressi le tengono dietro, come di persona che la seguisse, di un altro fantasma che implorasse un perdono chiesto da secoli, e non mai concesso.
E’ verità? È leggenda, a prescindere dalla verità storica, pur vi può rappresentare, sebbene con più pallidi colori, la verace anima del passato.

Domenico Giampaolo,Un viaggio al Santuario di Polsi in Aspromonte, prima edizione 1913, ristampa, Grafiche Marafioti, Polistena 1976

Nota
Questa non è letteratura che si addice, o meglio, che può nascere da penna calabrese o nazionale, solo un visionario come Edgar Allan poteva riuscirvi. Né tanto meno può essere apprezzata dai nativi sanluchesi, meno tra tutti poteva essere gradita a Stefano De Fiores, eterno, contorto, mariologo. Eppure Domenico Giampaolo riuscì di trasfigurala sulle rive del Bonamico come Roger Corman trasfigurava, per conto dell’American International Pictures, Edgar Allan con i colori di Floyd Crosby. E vi dico, che certi passaggi di Domenico Giampaolo - rapito, prematuramente, all’affetto dei suoi cari dall’amore prepotente della Morte - li preferisco a interi racconti di Alvaro.




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