Quando i crepuscoli del sole morente mandano i loro ultimi pallidi
bagliori, e la sera invita il tardo passeggero, che da lassù apparisce, ad
affrettare il passo alla volta del suo ricovero; e l’ala stridente del falco o
del nero corvo, che vi passa vicino, rapida fende l’aria, e raccoglie il volo
sopra qualche rupe inaccessibile; quando l’ululo del gufo e il sinistro
squittire della civetta, fosca abitatrice delle fessure di quelle muraglie, risuona,
ad intervalli, lamentoso, il luogo diventa addirittura tragico.
L’ombra crescente, a misura che rende più indistinti i profili di quei
vecchi avanzi, fa apparire più tenebrosi i recessi, ed in quelle cave sembra
maturarsi qualche cosa di cupo e sinistro da agenti tenebrosi. Il lieve
stormire delle foglie sembra il passo misterioso di qualcheduno che s’avvicini,
e comunica brividi. Vaghi profili si disegnano nell’oscurità, e in mezzo a
quelle ombre fosche l’occhio allucinato vede delinearsi una bianca veste
verginale, slanciata e flessuosa che sorge da una tomba, mentre una testa
nascosta da lunghissime chiome scomposte, che scendono fluttuanti fino al
suolo, si disegna meglio.
Due mani stecchite allontanano lentamente il volume di capelli che
nascondono il volto, ed apparisce una faccia pallidissima, di una vaporosa
bellezza, i cui occhi sembrano di poco a poco svegliarsi da un sonno
lunghissimo, e fissarvi con una espressione indefinibile, sinistra e tragica,
mentre la bianca tunica, aprentesi d’improvviso, vi mostra un seno esuberante,
su cui rosseggia una lunga striscia di sangue che stilla lentamente fino al
suolo.
Vi sentireste tentati, vincendo lo stupore, d’interrogare quella strana
vergine, bella di una eterea bellezza, ma la vostra voce non otterrebbe
risposta alcuna; la vostra invocazione verrebbe accolta da un silenzio superbo.
L’aspetto di quell’apparizione ha parlato troppo, e nessuna umana
favella potrebbero rendervi il senso profondo della sublime tragedia compitasi,
più di trecento anni fa, lì, in quel luogo, dove un’anima nobilissima, una
candida vergine, rapita all’affetto dei suoi cari dall’amore prepotente del
signore di quel forte antico, si trapassava il seno con un coltello, anziché
cedere all’amplesso tirannico.
E quella pallida ombra, ogni notte, a quell’ora, suole mostrare quivi
il suo dolente aspetto, sorgendo dall’avello, che fra quelle mura medesime
ergevale l’innamorato e pentito suo tiranno, tardo ammiratore di inaudita
virtù.
E’ irriverenza disturbare quel sublime dolore; esso non vuole la parola
umana incapace di descriverlo; il silenzio profondo e riverente del cuore è
accettato meglio.
Ed ella si dilegua, mentre gemiti lugubri e repressi le tengono dietro,
come di persona che la seguisse, di un altro fantasma che implorasse un perdono
chiesto da secoli, e non mai concesso.
E’ verità? È leggenda, a prescindere dalla verità storica, pur vi può
rappresentare, sebbene con più pallidi colori, la verace anima del passato.
Domenico Giampaolo,Un viaggio al Santuario di Polsi in
Aspromonte, prima edizione 1913, ristampa, Grafiche Marafioti, Polistena
1976
Nota
Questa non è letteratura che si addice, o meglio, che può nascere da penna
calabrese o nazionale, solo un visionario come Edgar Allan poteva riuscirvi. Né tanto meno può essere apprezzata
dai nativi sanluchesi, meno tra tutti poteva essere gradita a Stefano De Fiores,
eterno, contorto, mariologo. Eppure Domenico Giampaolo riuscì di trasfigurala
sulle rive del Bonamico come Roger Corman trasfigurava, per conto dell’American International Pictures,
Edgar Allan con i colori di Floyd Crosby. E vi dico, che certi passaggi di
Domenico Giampaolo - rapito, prematuramente, all’affetto dei suoi cari dall’amore prepotente della Morte - li preferisco a interi racconti di Alvaro.
Concordo su tutto...
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