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lunedì 10 gennaio 2022

La costa del sole [di John Sayles - 2002]

SI ESTENDEVA DAL FIUME HOLEX A CAULON
L'antica regione della Locride
Oggi costituisce una delle zone più depresse della Calabria, malgrado
che un tempo sia stata fiorente, piena di vita e di intensa civiltà
 
La regione della locride si estendeva dal fiume Holex (attuale Amendolea), che segnava il confine del territorio reggino da quello locrese, al territorio di Caulon, nei pressi dell'attuale Marina di Monasterace, occupando quasi tutta la fascia litoranea dell'attuale provincia di Reggio Calabria bagnata dal glauco Jonio.
Una leggenda vuole che le cicale sulla sponda sinistra dell'Holex, in territorio locrese, fossero canore, mentre sulla sponda destra, in territorio reggino, fossero mute. Si spiegava il curioso episodio col fatto che Ercole, giunto esausto sulla sponda destra del fiume e non potendo prender sonno perché disturbato dal canto delle cicale, pregò ed ottenne da Giove che divenissero mute. Un'altra versione attribuisce alla maledizione lanciata da S. Paolo l'afonia delle cicale del territorio reggino, perché disturbato dal loro canto mentre predicava.
In vicinanza dello stesso fiume era Peripoli, colonia locrese messa a guardia del confine, non lontana dall'attuale Melito Portosalvo, cara alla storia del Risorgimento per il leggendario sbarco di Garibaldi nel 1860 e per quello del 1862, che ebbe per doloroso epilogo lo scontro fratricida di Aspromonte. Vi è ancora sotto le acque della rada di Melito la carinea del piroscafo «Torino» affondato dalle cannonate delle navi borboniche «Aquila» e «Fulminante», le quali inutilmente tentarono di ostacolare lo sbarco del 1860 e il corso della nuova storia.
Nei pressi di Melito, l'attenzione è attratta dalla caratteristica roccia di Pentidattilo, fantasiosamente illustrata in copertina da Sìmbari, una roccia gigantesca che si staglia nel cielo, a 400 metri di altezza, come una colossale mano dalle dita aperte, alla base del quale sono abbarbicati i ruderi di un vecchio castello medioevale, che ricorda le tragiche lotte tra le famiglie Alberti ed Abenavoli.
Lungo la linea ferroviaria Reggio-Catanzaro, che corre parallela alla statale 106 e vicinissima al mare, si allineano numerosi i nuovi paesi, lindi e civettuoli, scesi dalla marina alle colline retrostanti, attratti dalle nuove esigenze e dai nuovi mezzi del progresso umano.
Il capo Bruzzano (Zephyrlum promontonum), che si prolunga nel mare descrivendo un ampio arco con l'altra estremità di punta Stilo, ci ricorda lo sbarco in questa località dei primi coloni e la loro primitiva sede, prima di prendere dimora definitiva sul monte Epopis e fondare, nel VII secolo a. C, la città di Locri.
In alto, a circa 20 Km. a nord del capo Bruzzano, quasi al centro dell'ampio golfo, si erge maestosa l'amba conchiglifera sulla quale è ubicata Gerace, dominatrice delle ampie vallate dei fiumi Novito e S. Paolo. Vero baluardo naturale, Gerace, difesa a monte dal munitissimo castello, i cui resti testimoniano le vicende bizantine e normanne della gloriosa città, deve il suo nome alla voce greca «ieròs», sacro (città santa) o, secondo altri, a «ièrax», sparviero. Infatti, uno sparviero, o meglio un'aquila ad ali spiegate, è lo stemma del Comune. Vuole la leggenda che i profughi locresi, guidati dal volo di uno sparviero, si rifugiassero sulla rupe inaccessibile per sfuggire alle continue invasioni e razzie dei Saraceni. Quantunque in posizione ritenuta inespugnabile, venne tuttavia saccheggiata più volte dai Saraceni che, nel 952, inflissero ai Bizantini una grave sconfitta. La città conserva tuttora la struttura di una munita fortezza bizantina dell'alto medioevo e vi si accede ancora attraverso le porte del Borghetto e delle Bambarde per le strade irte e selciate, ai cui lati sono allineati vecchi palazzi, alcuni con bifore. La Basilica-Cattedrale stessa, vista dalla parte esterna delle tre absidi, ha il severo aspetto di una fortezza e le strette e lunghe finestre gotiche somigliano a vere e proprie feritoie.
Questa costruzione chiesastica - la più grande della regione - ha la forma di un vasto rettangolo di circa metri 26x75, con l'altezza alla cupola di circa m. 25 e con un dislivello esterno a est di circa m. 6, dove è situata l'ampia cripta. L'inizio della costruzione si fa risalire ai primi decenni del secolo, mentre è sicura la data della sua consacrazione, 1045, come si rileva da una targa in piombo incastrata nella terza colonna in «corno Evangeli», esistente al tempo del vescovo Pasqua. Tra le costruzioni coeve occupa un posto importantissimo l'icnografia della basilica latina a tre navate, divisa da venti colonne greche di marmo scanalate o lisce, sormontati da capitelli di vario stile e da archi falcati in tufo; la presenza del transetto sporgente triabsidato e della cupola; la cripta suddivisa da 24 colonne di granito, provenienti, come quelle delle navate, dai templi della vicina Locri, sono elementi efficaci a dimostrare l'ardita e vasta concezione architettonica dell'opera, ideata e portata a termine da esperti architetti.
L'insigne archeologo Paolo Orsi, al quale tanto deve la nostra terra per le sue importanti scoperte archeologiche, la definì «la più importante e grandiosa costruzione della Calabria, il più sontuoso monumento della regione».
Nei recenti restauri e scavi nella cripta (1955), si è rinvenuta, tra l'altro, una primitiva sacra mensa e si è riscontrato che la costruzione dell'XI sec. è sorta con un preesistente complesso edilizio dei secoli VII e VIII.
Nei pressi della Basilica-Cattedrale sorge, più in alto, il castello (m. 480), costruito sulla viva roccia, tagliato particolarmente tutt'intorno per renderlo inaccessibile da tutti i lati. Un profondo fossato verso il lato est lo divideva dalla città alla quale era unito solo attraverso il ponte levatoio. Dalla sommità del castello, l'occhio spazia sul mare da capo Bruzzano a punta Stilo, dalle ampie vallate circostanti ai pianori della Milea, alle giogaie dell'Aspromonte.
In questo castello, ormai in gran parte distrutto, sotto la dominazione normanna, nella sala di Mileto, pare sia avvenuta la pacificazione tra il conte Ruggero e suo fratello Roberto.
Altri tesori d'arte contiene la vetusta città: la chiesa di San Francesco, in completo abbandono e quasi distrutta, in stile romanico - gotico, del 1252 dal bel portale ogivale a costoloni, con decorazioni di carattere arabo-normanno, e la piccola chiesa di S. Giovannello, dalle caratteristiche forme (abside semicircolare).
Gerace ebbe, nel passato, grande importanza politica, militare e religiosa, e durante la dominazione borbonica fu capoluogo del distretto e sede di tutti gli uffici. Nel 1847 ebbe luogo nel suo distretto l’insurrezione liberale, coordinata con i moti di Reggio e Messina; ma, fallito il moto, dopo sommario processo, nella sottostante piana della città, il 2 ottobre 1847, vennero fucilati: Michele Bello, Pietro Mazzoni, Domenico Salvatori, Gaetano Ruffo e Rocco Verduci, antesignani del Risorgimento della patria.
Ai piedi della rocca geracese appare, adagiata come in un sonno di secoli, la pianura, verdeggiante di ulivi e di pampini di vite, e le colline della Mannella, Abbadessa, Janchini e Patarriti, sulle quali sono vivi e parlanti gli avanzi di una città dalle tradizioni gloriose e millenarie, che dette al mondo occidentale il primo codice di leggi scritte: Locri.
Da Locri si scorge il caratteristico castello di Roccella con torre di vedetta, armato con artiglierie e caposaldo di resistenza nell'ultima guerra mondiale; sia la torre, però, che il castello sono in pessime condizioni di staticità e quasi distrutti. Il castello subì vari assedi da parte dei Saraceni, il cui capo, Dragut, invano lo assali, rinunziando all'impresa quando ebbe colpite diverse navi dalle colubrine del castello.
Chiude l'ampio golfo l'estremità di Punta Stilo (il Concyntum promontorium degli antichi), sotto il cui faro sono visibili i resti di tempio dorico.
In alto, alle spalle del Faro, sulla vasta e brulla montagna del Consolino, sorge abbarbicata alla roccia la storica cittadina di Stilo, della quale l’insigne archeologo Paolo Orsi scrisse: «Stilo, annidata sulle rocciose pendici del monte Consolino, sbarrando la pittoresca e storica vallata sottostante, che poi si serra e sale erta e rapida alla regione centrale e appenninica, selvaggia e ricca di selve secolari, Stilo così piena di ricordi bizantini e normanni e patria del fiero e turbolento monaco Tommaso Campanella, che nel secolo XVII con le sue ardite teorie politiche e sociali mise a soqquadro il Mezzogiorno, è tutta dominata da questa piccola gemma dell'arte bizantina - la Cattolica - incastonata su un brevissimo risalto dell'Aspromonte. Ed è oggi entro la piccola città l'unico e prezioso avanzo superstite della bizantinìtà, che altri e certo pregevoli monumenti sono tutti scomparsi, travolti dalle tristi vicende, che per quasi un millennio attraversò Stilo, ultimo il sacco e l'incendio perpetrato dai Francesi nel 1804».
La Cattolica, bellissima piccola chiesa bizantina dalle linee caratteristiche orientali, vero gioiello d'arte pervenuto fino a noi quasi intatto, riproduce un tipo di chiese spesso ripetute in Georgia, in Armenia e nel Peloponneso. Costruita sopra un limitato ed angusto ripiano del monte, domina la città di Stilo; è una costruzione quadrata sormontata da cinque basse cupole con tre absidette volte ad oriente. L'interno, di appena sei metri di lato, è diviso da quattro colonne in tre piccole navate o nove quadrati uguali: le colonne, due di cipollino, una di granito ed una di marmo bianco, provengono da templi antichi e sono dotate di capitelli diversi. Importantissima la prima colonna a destra, sulla quale è scolpita una greca iscrizione, che tradotta, dice: «Dio è il Signore apparso a noi».Paolo Orsi, che vivamente si interessò per i restauri, efficacemente coadiuvato dai mezzi finanziari concessi dalla sensibilità della Regina Margherita, la definisce «...insigne monumento bizantino, il più bello, il più completo della Calabria; malgrado la sua piccola mole, anzi appunto per essa in particolare, desta l'ammirazione degli studiosi».
La plaga descritta, che è tutta la costa jonica della provincia, è una delle contrade più depresse della regione calabrese, malgrado che nell'antichità sia stata fiorente, piena di vita e di intensa civiltà.
Deleteria azione degli agenti atmosferici e tellurici, incuria di uomini, hanno trasformato gran parte di questa terra in brulle colline argillose e in aridi terreni. Solo nella fascia costiera, dove la tenacia dell'uomo ha conteso palmo a palmo l'humus all'avverso destino, la terra è coltivata ad ulivi ed agrumi.
Con l'avversità degli elementi e la incomprensione dell'uomo fanno stridente contrasto le bellezze naturali della regione: i panorami paradisiaci, il cielo di cobalto, i purpurei tramonti, la tradizionale ospitale cortesia del calabrese, il profumo della zagara che si sposa a quello del gelsomino, la mitezza del clima, rendono la nostra terra un giardino sempre fiorito.
U. Sorace Marasca
Gazzetta del sud 17 gennaio 1956


In apertura l'ingresso della prigione dei cinque martiri di Gerace

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