L’ultima confessione
L’uomo claudicante che ogni giorno sostava davanti la piazza
adiacente, finalmente finì di tentennare e a fatica si recò dentro la splendida
e ordinata chiesa matrice in cerca di un prete. Da giorni combatteva con sé
stesso sentendosi ora soddisfatto per aver superato la riluttanza causata
dall’aspett0 trascurato. La sua lunga e folta barba era stata tagliata in
occasione dell’ultima festa della Madonna di Loreto, nove mesi prima; la giacca
e i pantaloni laceri che indossava nonché le scarpe rotte, i pezzi del suo
guardaroba, erano divenuti rispettivamente covo ideale per i pidocchi e deposito
di fango.
Invero, era stata la morte, sgradita consigliera, ogni notte
la sentiva sussurrargli all’orecchio, a spingerlo alla sua ultima confessione.
Oltre alla dolorosa anchilosi al ginocchio destro, presumeva di essere affetto
da una grave sindrome, in termini scientifici non meglio identificata, ma di
sicuro patologia incurabile benché sebbene nessun medico l’avesse mai
diagnosticata, veniva rafforzata a ogni pubblica occasione, promanata dalla
bocca fresca e igienizzata di politici e magistrati, e dalla autorevole penna
di giornalisti ed esperti di ogni genere.
Ma tant’e: “Quando
arriva l’ora...”, le ultime rassegnate riflessioni dell’uomo sul sagrato
della chiesa; oltre a ciò, la spinta decisiva a entrare nelle casa di Dio era frutto
di un ragionamento induttivo che d’improvviso li lo colse: anche a voler
escludere la malattia, incombevano la sorte e la morte che, vista l’età
avanzata, certamente lo avrebbero presto consegnato al camposanto.
All’interno della matrice oltre il sagrestano solamente due
donne, Bettina e sua madre, devotissime del Santo Rosario. Don Malatesta, uomo
calvo di mezza età, prete da poco destinato in quella parrocchia, attendeva i
pochi fedeli al confessionale e vedendo l’uomo avvicinarsi gli fece un cenno ad
invito, indicando il posto a lui di fronte. Prima ancora che al peccatore si
chiedesse conto dei peccati, il prete vollle sapere del suo aspetto e della sua
vita.
“Di cosa vivi? Sono
stato un bracciante a giornata, nei campi. Ora vivo di un piatto caldo che i
miei figli, a turno, mi porgano a ogni mezzogiorno.
Per questo le tue mani
sono casi decrepite? Si. Sono mani indurite e callose, esposte al sole e al
vento. Mani che hanno raccolto olive e mietuto grano, mani di villano, di
contadino e massaro. H0 avuto una vita di duro lavoro.
Chi sono i tuoi figli?
Sono anime in pena, colpevoli per causa mia, per i nomi che portano e per il mio
passato. Alcuni non sono riuscito ad educarli, perdendoli, perdendoli. I più
vivono una quotidianità stentata. Altri ancora non li ho più rivisti, mi hanno
lasciato giovani, facendosi adottare da altre terre, parlando oggi lingue a me
incomprensibili.
A queste ultime parole il prete capi di avere davanti un
peccatore singolare e curiosamente chiese: “Ne
hai tanti di figli? Migliaia. Se avete il tempo di aspettare li conto e saprò
dirvi il numero esatto”.
"No, no”,
preoccupato Don Malatesta della piega che stava prendendo la confessione, si
avviò alla conclusione: “E ora dimmi,
quali i tuoi peccati? Nel mio passato ho molto peccato. Ho infranto nove dei
dieci comandamenti, rispettandone solo il quarto, onorando il padre e la madre.
E perciò ora chiedo al Signore nostro Dio umilmente perdono. Chiedo soprattutto
che Egli voglia stendere mani pietose verso di me e i miei figli smarriti.
Io ti assolvo dai tuoi
peccati nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”, Don
Malatesta diede tempo al penitente di segnarsi con la mano, decidendosi che
nessun altro parrocchiano avrebbe per quel giorno chiesto perdono. E tuttavia,
a proposito del vecchio appena assolto, una domanda, troppa curiosità per non
porla, lo seguiva.
Il vecchio, meditabondo sulle preghiere di espiazione, si
alzo per andare e - schiusa la porta della chiesa dalla quale entrò un timido
fascio di luce solare – senti domandarsi dal prete quale fosse il suo nome. “Plati” rispose altero il vecchio e a
udire quel nome il prelato sbrigativamente scomparve dietro il buio della
sacrestia.
Trascorse una serata di preghiere e di speranza e una notte
dove la morte non riuscì a perforare i timpani. Sarebbe passato a miglior vita
con la convinzione che Dio lo avrebbe perdonato. Si assopì.
L’indomani Platì venne prelevato nella pubblica piazza e
trascinato con una catena ai piedi nel vicino penitenziario. Si disse e si
scrisse che grazie a una articolata e lunga indagine era stato assicurato alla
giustizia uno dei pin pericolosi criminali, da sempre iscritto ai primi posti
nelle liste di proscrizione: si trattava per giunta di un malato incurabile di
‘ndrangheta, capace di infettare chiunque e che nessun antibiotico poteva
guarire. Si continuo a dire e a scrivere — servisse da monito a quanti avevano
avuto a che fare con Platì, presto sarebbero stati trafitti da apposita lancia
scagliata dalla dea Giustizia — che, un esempio su tutti, a un macellaio,
onest’uomo e padre di famiglia erano state messe le manette, consistendo la sua
colpa nell’aver un giorno venduto carne di capra a Platì.
Difatti Platì fu messo in quarantena e i suoi occhi smisero
di essere quelli della ragione. Oggi è ancora agonizzante ma vivo, sotto processo
per gravi misfatti, sarà giudicato in contumacia. In molti - non solo i rapaci
necrofagi ma anche i lupi, le iene, le volpi e ogni altro animale carnivoro e opportunista
che gira alle falde dell’Aspromonte - attendono la sua condanna a morte per
farne scempio.
Turbate dalla notizia, le due donne, madre e figlia,
immancabili, si recarono in chiesa per adempiere al loro atto di fede con le
quotidiane quattro poste di rosario da raccomandare all’uomo incarcerato.
Presto si accorsero dell’assenza di Don Malatesta, ingiustificata anche per il
sagrestano.
A Bettina, guardando gli occhi del giudice inquisitore
ripreso in primo piano dalla rete televisiva nazionale, sembrò, anzi ne era sicura,
di vedere quelli di Don Malatesta. Il prete, da quel giorno diventato il diavolo
nei pensieri della ragazza smarrita, non mise più piede in quella parrocchia e
la relativa comunicazione del vescovo: “Partito
per ordini superiori da Roma”, non tacitò né lei né gli altri parrocchiani,
da quel giorno diffidenti e malpensanti.
Michele Papalia
11 febbraio 2016
Se continua così don Michelino si avvia a diventare il più grande scrittore sorto sulle rive del fiume Ciancio. Con questo racconto, apparso sul mensile in Aspromonte nel mese di marzo dell'anno corrente, egli stacca un ulteriore passo in avanti sulla via della maturità artistica, facendo ben sperare in opere di più ampio respiro. Ecco di cosa ha bisogno il paese, non soltanto di un sindaco ma di un numero sempre crescente di narratori che guardano al passato prossimo platiota al fine di reinterpretarlo per le generazioni future ma anche per quelli di oggi che conoscono una verità distorta dalla propaganda, la verità vista con gli occhi degli altri, che non hanno cuore, per citare Ian Curtis.
Per parte mia, da subito, ho visto in Michele Trimboli, alias Giamba, il volto che spetta al desolato vecchio del racconto.
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