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domenica 1 maggio 2016

Io confesso (reg. Alfred Hitchcock - 1953)

L’ultima confessione

L’uomo claudicante che ogni giorno sostava davanti la piazza adiacente, finalmente finì di tentennare e a fatica si recò dentro la splendida e ordinata chiesa matrice in cerca di un prete. Da giorni combatteva con sé stesso sentendosi ora soddisfatto per aver superato la riluttanza causata dall’aspett0 trascurato. La sua lunga e folta barba era stata tagliata in occasione dell’ultima festa della Madonna di Loreto, nove mesi prima; la giacca e i pantaloni laceri che indossava nonché le scarpe rotte, i pezzi del suo guardaroba, erano divenuti rispettivamente covo ideale per i pidocchi e deposito di fango.
Invero, era stata la morte, sgradita consigliera, ogni notte la sentiva sussurrargli all’orecchio, a spingerlo alla sua ultima confessione. Oltre alla dolorosa anchilosi al ginocchio destro, presumeva di essere affetto da una grave sindrome, in termini scientifici non meglio identificata, ma di sicuro patologia incurabile benché sebbene nessun medico l’avesse mai diagnosticata, veniva rafforzata a ogni pubblica occasione, promanata dalla bocca fresca e igienizzata di politici e magistrati, e dalla autorevole penna di giornalisti ed esperti di ogni genere.
Ma tant’e: “Quando arriva l’ora...”, le ultime rassegnate riflessioni dell’uomo sul sagrato della chiesa; oltre a ciò, la spinta decisiva a entrare nelle casa di Dio era frutto di un ragionamento induttivo che d’improvviso li lo colse: anche a voler escludere la malattia, incombevano la sorte e la morte che, vista l’età avanzata, certamente lo avrebbero presto consegnato al camposanto.
All’interno della matrice oltre il sagrestano solamente due donne, Bettina e sua madre, devotissime del Santo Rosario. Don Malatesta, uomo calvo di mezza età, prete da poco destinato in quella parrocchia, attendeva i pochi fedeli al confessionale e vedendo l’uomo avvicinarsi gli fece un cenno ad invito, indicando il posto a lui di fronte. Prima ancora che al peccatore si chiedesse conto dei peccati, il prete vollle sapere del suo aspetto e della sua vita.
“Di cosa vivi? Sono stato un bracciante a giornata, nei campi. Ora vivo di un piatto caldo che i miei figli, a turno, mi porgano a ogni mezzogiorno.
Per questo le tue mani sono casi decrepite? Si. Sono mani indurite e callose, esposte al sole e al vento. Mani che hanno raccolto olive e mietuto grano, mani di villano, di contadino e massaro. H0 avuto una vita di duro lavoro.
Chi sono i tuoi figli? Sono anime in pena, colpevoli per causa mia, per i nomi che portano e per il mio passato. Alcuni non sono riuscito ad educarli, perdendoli, perdendoli. I più vivono una quotidianità stentata. Altri ancora non li ho più rivisti, mi hanno lasciato giovani, facendosi adottare da altre terre, parlando oggi lingue a me incomprensibili.
A queste ultime parole il prete capi di avere davanti un peccatore singolare e curiosamente chiese: “Ne hai tanti di figli? Migliaia. Se avete il tempo di aspettare li conto e saprò dirvi il numero esatto”.
"No, no”, preoccupato Don Malatesta della piega che stava prendendo la confessione, si avviò alla conclusione: “E ora dimmi, quali i tuoi peccati? Nel mio passato ho molto peccato. Ho infranto nove dei dieci comandamenti, rispettandone solo il quarto, onorando il padre e la madre. E perciò ora chiedo al Signore nostro Dio umilmente perdono. Chiedo soprattutto che Egli voglia stendere mani pietose verso di me e i miei figli smarriti.
Io ti assolvo dai tuoi peccati nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”, Don Malatesta diede tempo al penitente di segnarsi con la mano, decidendosi che nessun altro parrocchiano avrebbe per quel giorno chiesto perdono. E tuttavia, a proposito del vecchio appena assolto, una domanda, troppa curiosità per non porla, lo seguiva.
Il vecchio, meditabondo sulle preghiere di espiazione, si alzo per andare e - schiusa la porta della chiesa dalla quale entrò un timido fascio di luce solare – senti domandarsi dal prete quale fosse il suo nome. “Plati” rispose altero il vecchio e a udire quel nome il prelato sbrigativamente scomparve dietro il buio della sacrestia.
Trascorse una serata di preghiere e di speranza e una notte dove la morte non riuscì a perforare i timpani. Sarebbe passato a miglior vita con la convinzione che Dio lo avrebbe perdonato. Si assopì.
L’indomani Platì venne prelevato nella pubblica piazza e trascinato con una catena ai piedi nel vicino penitenziario. Si disse e si scrisse che grazie a una articolata e lunga indagine era stato assicurato alla giustizia uno dei pin pericolosi criminali, da sempre iscritto ai primi posti nelle liste di proscrizione: si trattava per giunta di un malato incurabile di ‘ndrangheta, capace di infettare chiunque e che nessun antibiotico poteva guarire. Si continuo a dire e a scrivere — servisse da monito a quanti avevano avuto a che fare con Platì, presto sarebbero stati trafitti da apposita lancia scagliata dalla dea Giustizia — che, un esempio su tutti, a un macellaio, onest’uomo e padre di famiglia erano state messe le manette, consistendo la sua colpa nell’aver un giorno venduto carne di capra a Platì.
Difatti Platì fu messo in quarantena e i suoi occhi smisero di essere quelli della ragione. Oggi è ancora agonizzante ma vivo, sotto processo per gravi misfatti, sarà giudicato in contumacia. In molti - non solo i rapaci necrofagi ma anche i lupi, le iene, le volpi e ogni altro animale carnivoro e opportunista che gira alle falde dell’Aspromonte - attendono la sua condanna a morte per farne scempio.
Turbate dalla notizia, le due donne, madre e figlia, immancabili, si recarono in chiesa per adempiere al loro atto di fede con le quotidiane quattro poste di rosario da raccomandare all’uomo incarcerato. Presto si accorsero dell’assenza di Don Malatesta, ingiustificata anche per il sagrestano.
A Bettina, guardando gli occhi del giudice inquisitore ripreso in primo piano dalla rete televisiva nazionale, sembrò, anzi ne era sicura, di vedere quelli di Don Malatesta. Il prete, da quel giorno diventato il diavolo nei pensieri della ragazza smarrita, non mise più piede in quella parrocchia e la relativa comunicazione del vescovo: “Partito per ordini superiori da Roma”, non tacitò né lei né gli altri parrocchiani, da quel giorno diffidenti e malpensanti.
Michele Papalia
                                                                                         11 febbraio 2016



Se continua così don Michelino si avvia a diventare il più grande scrittore sorto sulle rive del fiume Ciancio. Con questo racconto, apparso sul mensile in Aspromonte nel mese di marzo dell'anno corrente, egli stacca un ulteriore passo in avanti sulla via della maturità artistica, facendo ben sperare in opere di più ampio respiro. Ecco di cosa ha bisogno il paese, non soltanto di un sindaco ma di un numero sempre crescente di narratori che guardano al passato prossimo platiota al fine di reinterpretarlo per le generazioni future ma anche per quelli di oggi che conoscono una verità distorta dalla propaganda, la verità vista con gli occhi degli altri, che non hanno cuore, per citare Ian Curtis.
Per parte mia, da subito, ho visto in Michele Trimboli, alias Giamba, il volto che spetta al desolato vecchio del racconto.



















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