Gli imbonitori televisivi avrebbero detto: “siamo qui in vena di stupirvi”. E forse è così. Ancora qualcosa che
ha a che fare con Mimì Fera questa volta tratto dall’archivio di famiglia. Una
foto e un personaggio della Platì che fu: un tamburo e il suo massimo, abile player,
Gianni u tamburinaru Romeo. Una coppola, un corpo, un volto che ritornano intatti. Nell’immagine
la formazione classica ricordata da Mimmo Catanzariti: “Gianni Romeo, Michele, Giamba, Trimboli e ‘Ntoni u Miricriju” (inAspromonte,
gennaio 2015, n. 005).
La foto, ora nell’archivio dei pulinaroti,
è stata scattata da Mimì Fera dal balcone di casa Caruso, tuppu
iancu, Giuseppe.
Quello che segue è una cosa vecchia che trovate tra queste pagine.
“Credo che quando la mamma di
Gianni lo concepì pensò già da allora di farne un suonatore di tamburo, così
venne su massiccio, e, dono della natura, con il braccio sinistro più corto,
cosa che lo aiutò molto a divenire un esperto dello strumento. E’ stato l’ultimo
ad aver gridato il bando per le vie, annunziando le ordinanze del
municipio, come le offerte mercantili sempre con la stessa cadenza di voce,
preceduta dai rulli del suo tamburo.
A quel tempo gli strumenti,
tamburo e grancassa, venivano realizzati artigianalmente con legno, pelle di
capra o pecora e corda. Ricordo che Gianni aveva un tamburo con una cassa di
risonanza larga circa 30 cm. dipinta di nero, mentre la grancassa di Michele
era verde.
I motivi che suonavano nei giri
erano due: un adagio molto marziale e una tarantella, a cui si aggiungeva un
lento intonato solo fuori dalla chiesa al momento della consacrazione
dell’ostia e del vino. Se il comitato che organizzava le feste raccoglieva
soldi sufficienti al tamburo e alla grancassa si aggiungevano i giganti: il re,
la regina e l’asino, questi la tarantella la ballavano lungo il percorso e
talvolta sostando davanti a quei generosi che offrivano denari o rinfreschi”.
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