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lunedì 13 maggio 2019

Fango sulle stelle - Le scuole di Platì e i vezzi di Reggio



La Broadway reggina

Ebbene quel giorno io l’avevo proprio vista da vicino, questa fame congenita. L’avevo vista nelle scuole di Platì. Le scuole di Platì! Una casupola di fango, a cui si arriva ciampicando per una viuzza che è tutta una fetida pozzanghera, piena di buche, di detriti e di spurghi. Si sale una scaletta buia, e sopra, nell’unico piano, ci sono le aule, tre stanze soffocanti, che quasi si tocca con la testa, senza vetri alle finestre (erano giorni freddissimi), con i pavimenti divelti, naturalmente senza luce, e già alle tre del pomeriggio quasi non si vedeva. Pigiati a cinque a cinque stavano gli scolaretti nei rozzi e miseri banchi. Era la mostra della denutrizione. La maestrina (eroiche maestre, eroici maestri italiani, sono essi ancora il midollo della Patria) me li chiamava fuori, bimbette e ragazzi, perché vedessi meglio da vicino quei visini patiti, quelle braccine, quei piedini nudi e scarni incrostati di mota. Non mi diceva niente, solo li chiamava fuori ad uno ad uno per nome, così semplicemente come se fosse la presentazione di un campionario, come fanno nella presentazione dei modelli. Era la sfilata della fame congenita.
Ed ecco, dopo poche ore di treno, di colpo mi trovavo sul Corso a Reggio Calabria. Non è il solo corso, quello di Reggio, Cosenza ha il suo, però spoglio e deserto la sera, in accorso al suo carattere segregato e montanaro. E il Corso di Catanzaro, animatissimo da mattina a notte, è ancora il vecchio nobile Corso di andamento serpeggiante e provinciale. Ma il Corso di Reggio è il primo tentativo di arteria moderna di tutta la Calabria. Un solo rettifilo di quattro chilometri, fiancheggiato da vetrine, esso si accende la sera, da cima a fondo, di insegne colorate e di guizzi al neon. In questa settimana poi, Reggio sfoggia più che mai tutti i suoi vezzi, perché si è aperta la Fiera Agrumaria Internazionale, una pera riuscitissima che chiama, sotto gli alberi del suo bel parco, il campionario dorato di tutti gli agrumeti del Mediterraneo. Il contrasto tra lo spettacolo di miseria e segregazione che avevo contemplato a Platì e questa minuscola Broadway reggina, che dispiegava davanti a me tutte le sue innocenti ambizioni e civetterie stracittadine, fu per me, lo confesso, un forte colpo. Era un sentimento misto di tante cose, di tristezza e anche un po’ di sollievo, di sconforto e anche un po’ di coraggio. Ma era soprattutto un senso generale di incredulità. Un po’ come dire: “Riusciremo mai a mettere queste cose insieme!”.
La Calabria è tutta in questo contrasto. Se percorrete la costa da Reggio fino alla vispa e industriosa Crotone, trovate lungo tutta la frangia scaglionate le Marine, piccoli centri venuti su intorno alle stazioni della ferrovia, con quel carattere di costruzioni casuali e frettolose come i baraccamenti nei Paesi pionieri. Poveri e scadenti anch’essi, con piccole case, anch’essi formicolanti di bimbi cenciosi e di asinelli. Però c’è il mare vicino, col suo colore d’Egeo, con i suoi stupendi golfi lunati; qualche volta oltre alla stazione c’è anche un porticciolo; e poi ci sono barche, e pesci nella stagione propizia. Vi si fa il commercio, modesto commercio, però commercio: e dai treni in arrivo sbarcano viaggiatore di Puglia e casse da Milano e da Torino.
Ma appena si lascia la costa, appena dalle Marine si sale verso i grossi paesi che stanno a dieci, magari a venti, qualcuno addirittura (Roccabernarda) a quaranta chilometri dallo scalo, verso queste grosse, vetuste, imponenti borgate e cittadine, che furono quasi tutte delle Acropoli, e quindi sacre alla cultura del mondo, tutte rannicchiate sulla cima di colline sospese: allora, rapidamente cambiamo la scena l’atmosfera. Stupende a vedere di sotto, con la loro grigia fronte di mura, spesso arrotondate da antichi bastioni, esse si presentano, appena salite, angusti e impenetrabili labirinti di miseria e di abbandono. E appunto in questi paesi sfiniti, malfabbricati dall’antico sopra formazioni argillose ed arenose, alcuni dei quali già fortemente provati da terremoti e alluvioni precedenti, che il diluvio dell’ottobre ha fatto scempio. E quella sera sul Corso di Reggio non c’era solo Platì nel mio ricordo, ma tutta quest’altra Calabria che avevo percorso in quei giorni, la sconsolata Calabria dell’interno, la sinistra Melissa, il duro Marchesato, da Santa Severina, bella e remota, alle desolate ondulazioni di Capo Rizzuto. E c’era Africo, completamente demolita anzi ormai inaccessibile, perché non c’è più strada, sì che si discute adesso dove rifabbricarla, perché la popolazione è stata evacuata in massa, e se volete vederne i pietosi brandelli basta che andiate alle porte di Reggio, nel Lazzaretto in quella terribile caserma PS dove gli sfollati di Africo sono confusi sugli sfollati della guerra. E c’erano tutti i paesi che vivono sotto il continuo pericolo di frane, Palizzi, Bisignano, Casignana, e tanti altri, per i quali da sedici, da vent’anni sono pronti elaborati progetti di consolidamento. Costruzioni di muraglioni, di briglie, di opere idrauliche e forestali, progetti di cui non si è fatto nulla, mentre adesso con l’alluvione questi disgraziati paesi hanno veduto aprirsi nuove crepe e spostarsi altre tonnellate di terreno. Un geologo, il professor Ducci, che ha visitato recentemente la Calabria, ha trovato che ci sono dodici paesi che camminano … (continua)
Filippo Sacchi, LA NUOVA STAMPA, 28 marzo 1952

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