Un racconto ipocrita, un finale ipocrita. La sua visione di come
vanno le cose l'autore l'aveva già schierata nell'opera precedente: vicenda
criminale con pentimento. Se lì il colore dello sfondo era rosso, in questa
nuova fatica lo sfondo è nero. Il tutto, lì e qui, con l’occhio dei magistrati
in ascesa. Location arraffate qua e là, manifesti, locandine, arredi ed
utensili vintage. L'art director, bisogna riconoscerlo, ce l'ha messa tutta, come anche i parrucchieri. Nel
film in questione, edito da poco, anzi no, nel file, perché di questo si
tratta, la parola Platì è ripetuta per dieci volte. Una novità per gli schermi
e per il paese. Il titolo a modo suo vorrebbe rimandare al capolavoro di Clint
Eastwood ma la classe dell’autore in questione è acqua diluita con acquetta. Ai
piccoli platioti poi è da sconsigliarne la visione onde evitare di ripetere gli
errori di chi ha sperato nei facili guadagni, questa volta imitando le imprese
attoriali cui si è costretti ad assistere, assi poco convincenti. Alcuni
recensori – bullshits!- hanno definito il protagonista uno yuppie. Per dirla tutta, uno dei sedicenti attori
parla l’idioma platiotu alla maniera di quelli di San Piero Patti (ME). Ok! per
riprendermi mi sono rivolto a Kathryn Bigelow ed al suo Blue
Steel, Platì non c'entra per niente e Jamie Lee Curtis e molto più
maschio dello Scamarcio di turno.
In alto:
Lo spietato, 2019, di Renato De Maria
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