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domenica 12 maggio 2019

Fango sulle stelle [di Elia Kazan,1960]




DOPO IL DILUVIO IN CALABRIA
Paesi di fango e di fame
La scuola di Platì pare la mostra della denutrizione – Labirinti di miseria nei villaggi montani – Il contrasto con Reggio – Quando riusciremo a mettere assieme l’Italia borghese con quella della fame congenita?

(Dal nostro inviato speciale)
Reggio Calabria 27 marzo
Sapevo che un rapido sbalzo di altezza può produrre disturbi bruschi, capogiro, mancanza di respiro, o quello che i medici chiamano anossiemia. Anch’io ho avuto l’altra sera un’anossiemia arrivando direttamente a Reggio da Platì. Naturalmente un’anossiemia mentale, soltanto nella testa. Ma è la stessa cosa, lo stesso choc e smarrimento, e il senso angoscioso di non capire più niente. Platì è un grosso paese sul versante jonico dell’Aspromonte, situato entro valle a una trentina di chilometri dal mare, sulla strada che da Bovalino Marina per Scido e Sinopoli porta a Bagnara.
Scido  Sinopoli  Platì, qui, l’orecchio è continuamente accarezzato da lontane cadenze greche. Platì è uno dei molti paesi della montagna che durante l’alluvione dello scorso ottobre subirono gravissimi danni dalle frane. Proprio nel punto in cui si trova il paese, la fiumara fa un gomito e una gola. Ora, la notte fra il terzo e il quarto giorno del diluvio calabrese, vere cateratte di acqua così impetuose da strappare ai monti vicini intere pendici coperte di uliveti, come si può portar via un mastello, strariparono sul paese. E il contrafforte, staccatosi, attraversò il cimitero e trascinò via i morti.

Dieci in una stanza

Le case sul fiume crollarono come castelli di carta. Tutte le vie, sino a quelle più vicino alla chiesa, furono sommerse da una corrente che per più giorni le tenne allagate, e che lasciò, ritirandosi, un indescrivibile sedimento di mota, di sassi, di tronchi, talmente che ci vollero mesi di lavoro per rimuoverlo. E adesso è rimosso, ma il paese ha conservato lo stesso il colore del fango; fango le catapecchie, dove in attesa che siano finite le prime case per i senzatetto, soltanto adesso in costruzione un paio di chilometri prima del paese, decine di persone per stanza vivono ammucchiate in promiscuità; fango le strade, fango i vestiti, fango persino le facce. Perché la denutrizione, me ne sono accorto, dà alla pelle lo tesso tono bigio, sordo, terreo del fango.
Chissà, girando, quanti affamati ho visto senza saperlo nella mia vita. Ma, devo dirlo con umiliazione, è solo in questi giorni che ho imparato a distinguerli. Fu la prima volta sulla strada tra San Giovanni in Fiore e Santa Severina. Eravamo scesi per esaminare la recente sistemazione a ripiani di un dosso collinoso, dove quotisti dell’Opera Sila avevano piantato grano. Era un punto bellissimo. Scavalcando la gran valle, la vista spaziava sopra una prospettiva di tonde cime lisce e armonicamente digradanti, pezzate di bianche crepe e si pascoli verdissimi, sulle quali spiegava lontano l’alto profilo di Strongoli, e su quel cielo terso e irradiato pareva una fantasia di Dorè.
Vedendo fermare la macchina, alcuni contadini vennero verso di noi. Uno dei miei compagni di viaggio, era addetto a quei lavori, e appunto veniva per questi, si mise a discorrere con loro, e subito notai la faccia di uno, e (lo capivo confusamente) si si lagnava perché per un certo disboscamento gli erano state conteggiate meno ore che ad altri suoi compagni che avevano lavorato come lui. Parlava con una strana concitazione, e m colpì subito l’espressione degli occhi, fissi incavati, cerchiati d’ombra e con un che di vagamente allucinato e febbricitante, nel viso di un color grigio e stanco, colore di argilla bagnata. Mentre l’altro parlava, mi volsi ad un amico calabrese che era con noi e gli chiesi sottovoce di osservare quel tale, se non gli pareva che avesse un po’ la faccia da cocainomane. “Oh, no – mi rispose calmo e obiettivamente – è un uomo che ha fame”.
Allora da quel momento, andando in giro per la Calabria, incominciai a studiare la faccia della gente che incontravo, e così in pochi giorni mi sono impratichito in questa triste perizia di distinguere la fame. Ecco perché ho subito visto quel colore, ho subito visto la fame a Platì. Intendiamoci, non è mica sempre una fame drammatica. Noi italiani, quando pensiamo alla fame, pensiamo subito al conte Ugolino. Ma no, è una fame molto meno cruenta, molto più blanda: è una fame congenita, quella che si porta con noi dalla culla, che non ci lascia mai, tanto che, vedete, alla lunga finiscono per immunizzarsi, e diventano vecchi magari centenari, e così servono agli igienisti per dimostrare che l’uomo sano mangia poco. (continua)
Filippo Sacchi, LA NUOVA STAMPA, 28 marzo 1952

NOTE. Ancora oggi questo testo di Filippo Sacchi splende di neorealismo cinematografico e letteratura  arrivando a far rizzare i capelli. L'autore arrivò a Platì accompagnato da Mario La Cava. La cartolina di Brancatisano appartiene agli eredi di Joe Ielasi di Adelaide. 


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