DOPO IL DILUVIO IN CALABRIA
Paesi di fango e di fame
La scuola di Platì pare la mostra
della denutrizione – Labirinti di miseria nei villaggi montani – Il contrasto con Reggio – Quando riusciremo a
mettere assieme l’Italia borghese con quella della fame congenita?
(Dal nostro inviato speciale)
Reggio Calabria 27 marzo
Sapevo che un rapido sbalzo di
altezza può produrre disturbi bruschi, capogiro, mancanza di respiro, o quello
che i medici chiamano anossiemia. Anch’io ho avuto l’altra sera un’anossiemia arrivando
direttamente a Reggio da Platì. Naturalmente un’anossiemia mentale, soltanto
nella testa. Ma è la stessa cosa, lo stesso choc e smarrimento, e il senso
angoscioso di non capire più niente. Platì è un grosso paese sul versante
jonico dell’Aspromonte, situato entro valle a una trentina di chilometri dal
mare, sulla strada che da Bovalino Marina per Scido e Sinopoli porta a Bagnara.
Scido Sinopoli
Platì, qui, l’orecchio è continuamente accarezzato da lontane cadenze
greche. Platì è uno dei molti paesi della montagna che durante l’alluvione
dello scorso ottobre subirono gravissimi danni dalle frane. Proprio nel punto
in cui si trova il paese, la fiumara fa un gomito e una gola. Ora, la notte fra
il terzo e il quarto giorno del diluvio calabrese, vere cateratte di acqua così
impetuose da strappare ai monti vicini intere pendici coperte di uliveti, come
si può portar via un mastello, strariparono sul paese. E il contrafforte,
staccatosi, attraversò il cimitero e trascinò via i morti.
Dieci in una stanza
Le case sul fiume crollarono come
castelli di carta. Tutte le vie, sino a quelle più vicino alla chiesa, furono
sommerse da una corrente che per più giorni le tenne allagate, e che lasciò,
ritirandosi, un indescrivibile sedimento di mota, di sassi, di tronchi,
talmente che ci vollero mesi di lavoro per rimuoverlo. E adesso è rimosso, ma
il paese ha conservato lo stesso il colore del fango; fango le catapecchie,
dove in attesa che siano finite le prime case per i senzatetto, soltanto adesso
in costruzione un paio di chilometri prima del paese, decine di persone per
stanza vivono ammucchiate in promiscuità; fango le strade, fango i vestiti,
fango persino le facce. Perché la denutrizione, me ne sono accorto, dà alla
pelle lo tesso tono bigio, sordo, terreo del fango.
Chissà, girando, quanti affamati ho
visto senza saperlo nella mia vita. Ma, devo dirlo con umiliazione, è solo in
questi giorni che ho imparato a distinguerli. Fu la prima volta sulla strada
tra San Giovanni in Fiore e Santa Severina. Eravamo scesi per esaminare la
recente sistemazione a ripiani di un dosso collinoso, dove quotisti dell’Opera
Sila avevano piantato grano. Era un punto bellissimo. Scavalcando la gran
valle, la vista spaziava sopra una prospettiva di tonde cime lisce e
armonicamente digradanti, pezzate di bianche crepe e si pascoli verdissimi,
sulle quali spiegava lontano l’alto profilo di Strongoli, e su quel cielo terso
e irradiato pareva una fantasia di Dorè.
Vedendo fermare la macchina, alcuni
contadini vennero verso di noi. Uno dei miei compagni di viaggio, era addetto a
quei lavori, e appunto veniva per questi, si mise a discorrere con loro, e
subito notai la faccia di uno, e (lo capivo confusamente) si si lagnava perché
per un certo disboscamento gli erano state conteggiate meno ore che ad altri
suoi compagni che avevano lavorato come lui. Parlava con una strana
concitazione, e m colpì subito l’espressione degli occhi, fissi incavati,
cerchiati d’ombra e con un che di vagamente allucinato e febbricitante, nel
viso di un color grigio e stanco, colore di argilla bagnata. Mentre l’altro
parlava, mi volsi ad un amico calabrese che era con noi e gli chiesi sottovoce
di osservare quel tale, se non gli pareva che avesse un po’ la faccia da
cocainomane. “Oh, no – mi rispose calmo e obiettivamente – è un uomo che ha
fame”.
Allora da quel momento, andando in
giro per la Calabria, incominciai a studiare la faccia della gente che
incontravo, e così in pochi giorni mi sono impratichito in questa triste
perizia di distinguere la fame. Ecco perché ho subito visto quel colore, ho
subito visto la fame a Platì. Intendiamoci, non è mica sempre una fame
drammatica. Noi italiani, quando pensiamo alla fame, pensiamo subito al conte
Ugolino. Ma no, è una fame molto meno cruenta, molto più blanda: è una fame
congenita, quella che si porta con noi dalla culla, che non ci lascia mai,
tanto che, vedete, alla lunga finiscono per immunizzarsi, e diventano vecchi
magari centenari, e così servono agli igienisti per dimostrare che l’uomo sano
mangia poco. (continua)
Filippo Sacchi, LA NUOVA STAMPA, 28 marzo 1952
NOTE. Ancora oggi questo testo di Filippo Sacchi splende di neorealismo cinematografico e letteratura arrivando a far rizzare i capelli. L'autore arrivò a Platì accompagnato da Mario La Cava. La cartolina di Brancatisano appartiene agli eredi di Joe Ielasi di Adelaide.
Filippo Sacchi, LA NUOVA STAMPA, 28 marzo 1952
NOTE. Ancora oggi questo testo di Filippo Sacchi splende di neorealismo cinematografico e letteratura arrivando a far rizzare i capelli. L'autore arrivò a Platì accompagnato da Mario La Cava. La cartolina di Brancatisano appartiene agli eredi di Joe Ielasi di Adelaide.
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