ARDORE MARINA – Chiamato dalla fiducia di S. E. il Vescovo di Locri, il
rev. do don Ernesto Gliozzi, che per oltre due anni resse questa Parrocchia, si
è trasferito oggi nella nuova sede per completare il collegio dei canonici.
Non è un vago elogio se diciamo che questa popolazione cattolica,
entusiasta dell’opera cristiana svolta da questo giovane ministro della Chiesa,
è rimasta alquanto turbata, vedendosi privata del suo pastore che ispirò in
tutti illimitata fiducia per serietà e correttezza nella sua delicata missione;
e si augura, pertanto, che il successore
non sarà meno degno di seguire la via tracciata dal bravo sacerdote, a cui
auguriamo migliori progressi ecclesiastici, non mancando in lui il grave contegno
né la vasta cultura.
Il Mattino,1954
Nota. Nella foto lo zio Ernesto, alla sua destra mons. Pierantoni, davanti la chiesa di Ardore Marina, quando reggeva quella cura. Tutto questo perché domani, giorno della Candelora, ricorre l'anniversario della sua salita in Cielo.
Platì 8/06/1961. Funerali di mio nonno Rocco De Marco nato nel
1880 ed emigrato negli Stati Uniti a 18 anni con il piroscafoa vapore ‘ Patria'.
Ritornò in Italia intorno al
1915 con una gamba amputata e camminava con un tutore .
IL TRAPPETO ad ACQUA
Insieme a don Peppino Caruso
(tuppujancu) realizzò di fronte all’albergo della ‘Baggiana’uno dei primi
frantoi ad acqua. L’acqua arrivava incanalata nella ‘mastra’, attraversava la
strada e si riversava nei bicchieri della ruota Persiana,
un’ enorme ruota in legno che, girando, azionava, all’interno del
frantoio, tre pesanti ruote in pietra da cui fuoriusciva l’olio di prima spremitura. Tre enormi presse venivano azionate poi
manualmente dai ‘machinanti’ i quali spingevano i bracci di un albero girevole collegato a delle verticali viti senza
fine.
Da bambino passavo molti pomeriggi invernali dentro questo frantoio al
calduccio di una stufa a legna alimentata anche con la sansa esausta cioè dagli scarti dell’ultima spremitura ottenuti
inserendo all’interno delle ‘sporte’, la poltiglia rimasta nelle vasche delle macine. Osservavo l’arrivo dei
muli carichi di sacchi d’ olive che, in attesa di essere lavorate, venivano collocate provvisoriamente nello ‘zzimpuni’(lo
zimbone) un magazzino di stoccaggio in cui si veniva investiti dall’odore penetrante e piacevole delle olive
mature ogni volta vi si entrasse.
Strumenti di misura dei nostri nonni
Va ricordato che da noi persistevano le vecchie misure del Regno di
Napoli e che le nuove misure adottate dopo la Rivoluzione Francese furono
estranee al nostro mondo contadino.
‘U Cafisu’ dall’arabo Qafiz Un contenitore di 16-17 litri
‘u menzu cafisu’ 8 litri
'u quartucciu’ dalla capacità di 1 litro e mezzo
inoltre,la salma, che equivaleva a 161,297 litri
Nota
Il testo e le foto sono un ulteriore contributo di Rocco De Marco che con zelo ha ricostruito uno dei tanti aspetti
della laboriosità platiota. Il momento della raccolta delle ulive e la
successiva macina scandivano uno dei momenti più attesi, sia per la manodopera
impiegata come anche per il frutto ricavato, che non era solo guadagno ma gusto nonché rito,
legati alla tipicità delle olive, da condividere a tavola, in famiglia, con i
parenti, con gli amici. E tutti sappiamo che l’olio ricavato a Platì era unico,
unicità derivata dal processo lavorativo come anche da fattori concorrenziali
tipici, legati al background di cultura e tradizioni ma anche da determinanti
fattori naturali come aria, esposizione, acqua, humus.
Con piacere abbiamo notato che il segnale di strada interrotta sulla
nazionale 112 è passato dal Km 70+500 al km70+100; ciò vuol dire che ben
quattrocento metri di strada sono stati riaperti al traffico dopo 20 anni dacché
una mina dei nazisti in fuga diede il segnale d’inizio della scissione
geografica e commerciale tra la Piana di Gioia e la nostra terra: Non c’è che
da rallegrarsene con l’ANAS, perché, evidentemente, vuol fare qui le cose per
bene.
Dice un saggio proverbio: Chi va piano, va sano e va lontano.
Se le notizie della TV son vere, al confronto dell’autostrada del Sole,
che in un baleno da Milano ha raggiunto Salerno, e in un altro … baleno di
accartoccia come se fosse di carta pesta, noi abbiamo motivo di star più
allegri, perché sarà tardi, è vero: ma, fatti i debiti calcoli, siamo sicuri
che fra 700 anni i nostri lontanissimi pronipoti potranno finalmente realizzare
i nostri sogni di amichevoli relazioni, di floridi commerci, di piacevoli
ristori tra il fresco dei nostri incantevoli monti: e allora non vi sarà forza
al mondo che potrà più ridurli ( i nostri pronipoti) alle miserevoli condizioni
di oggi, perché la strada 112 sarà riparata tardi, ma bene.
E. G.
Ernesto Gliozzi il giovane
Nota
La foto, conservata da Francesco di Raimondo, appartiene all'archivio Delfino.
Ieri come
oggi, indagando la nostra storia, non si riscontrano grandi opere in prosa,
piuttosto tracimano dalle memorie familiari rime d’amore e di satira, vicende
intime e umane passioni, cantate di chitarra o recitate nelle serate di vino –
di un distico molti platioti erano e rimangono capaci. È un patrimonio
letterario in versi, generato dalle menti più ossigenate: poeta il proprietario
e poeta il suo garzone, il maestro di scuola che non disdegnava il vernacolo;
poeta pure l’analfabeta, anzi, a tratti inversamente proporzionale il rapporto
tra calamaio e altezza delle rime. È sicuramente un capitale, lirico e umano,
non indifferente in cui forse entra in gioco la componente genetica. Certamente
una tradizione che chiede e impone il recupero, per non farla finire. Ieri come
oggi, oggi per domani.
1) Papalia Michele (n. 1933, analfabeta)
Femmina che allo scalino vi sedete E a chi passa lo imitate Lasciate stare chi la sulla miete Che io lo so quello che fate La notte vi coricate con i mariti E il giorno con i visi nascosti
Quando la gallina fa l’uovo al gallo gli brucia il culo
2) Trimboli Rocco (n. 1943)
Guardate gente che successe
Il mondo in peggio cambiò E non si può più pregare a Dio Che il vescovo pure il prete cacciò Il consiglio pastorale che l’ha sciolto, che le regole disubbidì Guardate in questo paese che succede Che l’ Islam vuole incrementare Queste guardate sono cose vere La religione vogliono cancellare
Libera Chiesa in libero Stato, più o meno
3) Barbaro Giuseppe (n. 1947)
Che brutti tempi e che brutte manier Non si conosce più peso e misura Perdemmo la pace, il sonno e la religione Ci albeggia e non sappiamo se ci fa scuro
Mala tempora currunt
4) Perre Francesco (n. 1959)
Paese che Platì tu sei chiamato Stasera vengo a cantarti e a suonarti Ti dico che mi sento assai onorato Dell’accoglienza e del benvenuto Ai piedi della montagna sei collocato E la fiumara ti passa di lato Sono contento stasera e ti dico Che festeggiamo la Madonna di Loreto Terra madre: sangue, suono e divine suppliche
5) Catanzariti Paolo (n. 1974)
È giorno ormai, giorno di Natale, e la mia mente fa giri strani E sento i miei figli parlare, da dove arriva babbo natale E cercano di conoscere quel viso nella gente che vedono passare Io torno indietro con i pensieri di quando ero io ad aspettare Il mio non portava i regali e non veniva neanche a orari strani Il gesto suo mi faceva pensare alle sette di mattina sentivo chiamare E mamma pronta lo faceva entrare
Profumo d’innocenza
6) Perre Giuseppe (n. 1981)
Con passo lento e suono di chitarra Un giovanotto giura il suo amore E spera che si apre quella serranda Così per parlare con i suoi genitori
Serenata d’Ariella
7) Papalia Francesco (n. 1990)
Il castagno nella quercia Il pesco nella prugna Il ciliegio con la compagna L’albero di noce che si bagna Prugne e mandorle con chi vuoi Fichi e nespole con i suoi Ogni cosa innestata Sempre la luna va guardata
Pollice verde, giovani rime
Nota
- Questa traduzione, come l’introduzione, di Michele Papalia, delle poesie
pubblicate qualche post addietro, rende ancor più vigorosa la testimonianza di
un fermento culturale mai spento e che l’Associazione
Santa Pulinara si è fatta carico di conservare e diffondere. Ancora, voglio farvi notare il senso minimalista e lirico di una
quotidianità vissuta in prima persona, trasfusa su un pezzo di carta e diffusa dai
navigatori in rete. LONG LIVE PLATI’!
Con il titolo che vedete in alto viene riproposto un tema
già affrontato in altre pubblicazioni come prequel di questo serial che parte
da oggi. Il soggetto è la Strada Statale
112. Se è vero che le vie di comunicazione sono fondamentali per una
comunità, quella strada per il paese di Platì era tutto. E qui insisto con le
parole di qualche giorno addietro: “sorge il sospetto che quanto sia accaduto a
Platì non fosse che una strategia elaborata altrove, senza tener conto di un
passato che aveva dato lustro all’Aspromonte”. E sì, perché non ripristinando
in maniera definitiva l’accesso alla Montagna i platioti si son dovuti arrangiare
come meglio potevano, esodo e crimine, compresi. Oggi l’ennesima frana di un
anno fa ha sepolto le speranze residue. A Platì i giornalisti giungono per
cercare qualcosa che a loro conviene e che desti l’insana curiosità di lettori
e spettatori fallaci. I veri mali del paese non interessano la Chiesa, la
Magistratura e nemmeno i politici, con o senza scalpo, assisi su comode
poltrone pagate dai contribuenti anche disoccupati.
INTERROGAZIONE AL MINISTRO DEI LL. PP.
CHIESTA LA SISTEMAZIONE DELLA STRADA STATALE 112
Gli onorevoli Catanzariti e Girolamo Tripodi hanno
presentato una interrogazione ai ministri dei Lavori pubblici e per il
Mezzogiorno, per sapere “ se sono a conoscenza del grave, profondo,
giustificato malcontento delle popolazioni di Platì, Bovalino, Benestare,
Careri, Santa Cristina, Sinopoli, Bagnara, Delianova, Cosoleto, S. Eufemia,
Oppido per il mancato ripristino della statale 112, notevolmente danneggiata
dalle alluvioni del 1951; se siano a conoscenza della iniziativa promossa
dall’Associazione turistica di S. Cristina d’Aspromonte, in collaborazione con
l’Amministrazione comunale locale e della energica presa di posizione dei
sindaci dei comuni interessati, i quali chiedono con forza la immediata
soluzione del ripristino della statale 112, motivata da esigenza economiche, sociali,
turistiche e civili.
<<Gli
interroganti chiedono di sapere i motivi per i quali a 21 anni di distanza
un'arteria di così vitale importanza non è stata riattivata, nonostante gli strumenti
legislativi predisposti a seguito delle alluvioni e gli impegni solenni assunti
dal capo del Governo e dai ministri del tempo, in occasione delle loro visite
ai centri duramente colpiti;
«Si chiede inoltre di sapere: se, data la gravità
della cosa, che assume l'aspetto di un vero scandalo, se non ritiene opportuno
accertare le responsabilità per il mancato ripristino di tale arteria in un
periodo in cui opere di maggiore rilevanza stradale sono state portate a
compimento o avviate a soluzione, come le autostrade, i trafori».
<< Gli .interroganti, infine, chiedono di
conoscere lo stato attuale delle cose in proposito dei tempi di realizzazione
di detta strada, non solo limitatamente al tratto non aperto al traffico che va
da Plati a S. Cristina, ma anche in riferimento alle opere di ampliamento,ammodernamento
rettifica curve, lungo tutto il percorso e particolarmente tra Bovalino - Benestare,
Careri, tenendo conto della vitale importanza di una delle poche arterie di
collegamento tra lo Jonio ed il Tirreno, come è nelle giuste attese delle
popolazioni interessate, che non possono non manifestare la loro sdegnata
disapprovazione per la politica di abbandono di cui la strada 112 è sintomatica
manifestazione”
GAZZETTA DEL SUD Mercoledì 19 Luglio 1972
Come potete vedere nelle foto di apertura la natura agisce come può per cassare la 112.
In aprile Giacomo s’innamorò. Una ragazza, che gli era stata presentata
da un amico, gli piacque immensamente, ed egli decise di farle la corte. Cercò
di incontrarla quante più volte avesse potuto, l’attese all’uscita dalla scuola
di belle arti, dove frequentava il corso di pittura, la fermò, cosi, come per
caso, e si mise a discorrere con lei.
Passeggiavano i due giovani e l’avvenire era lieto davanti a loro: egli
le espresse i suoi sentimenti, ed ella parve convincersi. << Se è
destinato, saremo insieme felici» gli rispose la ragazza; e in un impeto
improvviso di fede, volle separarsi da lui, andare sola a pregare nella chiesa
vicina. "
Si trovavano ogni giorno, di
mattina, per un momento, e di sera più a lungo. Di sera andavano fuori porta, sulla
strada polverosa delle automobili, camminavano un po’, quindi attraverso il
viottolo tortuoso, uscivano nell’aperta campagna.
Si dirigevano in un boschetto vicino: lì sotto la cupa verzura degli
alberi si sdraiavano, e le mani nelle mani si raccontavano storie innocenti.
— Vediamo chi ha più forza, di noi due? -- le proponeva Giacomo; e voleva
provare, come se dubitasse di sé.
- No, no, mi sciuperesti il vestito e i capelli!
— E cosa importa che ti sciupi i capelli? Non mi piaceresti lo stesso?
Ed io con le mie mani non te li acconcerei?
-- Ed il vestito, dopo che si fosse sgualcito o strappato? Cosa faresti
tu?
-- Ma no, che non si strapperà...
Faremo cosi, per ridere! Via, Adelina, non mi scontentare! Sii buona
con me!
Seduti per terra, allora, si cingevano con le braccia; e facevano come
per scuotersi. Ma poi egli avvicinava la bocca alla sua; ed Adelina, confusa,
cedeva.
Si abbracciavano quindi più volte e liberamente; e si baciavano a lungo
senza stancarsi; mentre voci non si sentivano. Ed il canto solo degli uccelli al
tramonto, volanti festosi sugli alberi prima della notte imminente, squillava
alto nel cielo.
S’alzavano i due giovani ed in fretta ritornavano in città. Parlavano
di rado ora e i loro visi erano tristi. La malinconia dell’insoddisfatto amore,
il mistero della vita che si rivelava nel chiuso delle loro anime, la delusione
che segue le ore di intensa felicità e il pensiero del distacco fino al giorno
dopo accompagnavano i loro passi.
Arrivati in città, il più delle volte si separavano per non essere
riconosciuti; ma qualche volta Giacomo accompagnava la donna fino alla porta di
casa; ed entrato nel portone, in silenzio e come un disperato s’afferrava alla
sua bocca.
Fu felice quel tempo.
Ma passo troppo presto; perché Giacomo, che era studente ed ancora
doveva aspettare un anno per laurearsi, fu costretto a partire per il suo
paese.
Poi il padre cadde ammalato e mori.
Gli affari vennero meno, le passività aumentarono. Sua madre, avvilita,
piangeva.
Giacomo dovette abbandonare gli studi e pensare di sistemare la
famiglia; e intanto col pensiero alla donna lasciata, poco riusciva a
concludere.
Le scriveva di ricordarsi di lui e di attenderlo; le prometteva di
sposarla; la supplicava nel dubbio.
E perché ella non dubitasse delle sue capacità, le assicurava che anche
senza la laurea avrebbe potuto trovare un buon posto; che avesse la pazienza di
aspettare; e dopo, l’indugio sarebbe stato compensato dalla gioia di non
dividersi più fino alla morte.
In principio, Adelina ricambio l’affetto e le ansie; poi comincio a raffreddarsi;
e non sempre rispondeva per tempo.
Intanto Giacomo non riuscì a fare nulla di buono; si mise nel commercio
e non aveva attitudini; e un posto, non riuscì affatto a trovarlo.
Né la famiglia lo lasciava tranquillo: la madre sempre era afflitta e
stordita, i fratelli piccoli avevano bisogno di guida. Giacomo, inceppato, non
poteva partire per la lontana città.
Domandò allora alla ragazza come mai così presto si fosse stancata di
lui: ancora non era passato un anno! E dunque? Non gli aveva voluto mai bene?
Adelina colse la palla al balzo; disperò di poterlo mai più rivedere e
gli scrisse di non pensare a lei. Ella lo aveva amato, si; ma ora, colla
lontananza, di meno. Voleva essere sincera.
Che pensasse lui a dimenticarla, come pure si sarebbe sforzata di fare
lei.
Giacomo, disperato, le rispose supplicandola di scrivergli e di
aspettare la sua venuta, prima di dire l’ultima e irrevocabile parola. Che non
gli facesse il torto di mostrarsi ingrata e cattiva.
Adelina, gentile, rispose di no, che non poteva; e che ella era indegna
di lui. Non le scrivesse più; egli avrebbe potuto trovare altre migliori di
lei.
Giacomo alla lettera fremé. Non sapeva se sdegno lo avesse preso o
continuo e rinnovato furore d’amore. Come un pazzo le scrisse di nuovo.
Ma Adelina non si fece più viva.
Giacomo voleva partire, voleva raggiungere la donna, pregarla di nuovo
o insultarla, non sapeva bene.
Ma i disordini della sua amministrazione glielo impedirono. In quel
tempo i mobili della sua casa gli vennero pignorati e venduti, un piccolo
podere della madre messo all'asta e venduto per poche lire.
Giurò a se stesso di rifarsi la posizione e, cambiando genera di commercio,
riprese il lavoro. I guadagni erano modesti, ma sicuri. Risparmiando sul
mangiare e sul vestire, qualcosa poteva mettere da parte.
La casa a poco a poco si ricostituiva.
I fratelli furono mandati a scuola; e la madre, nelle pratiche di
religione, trovava il conforto di cui aveva bisogno.
Nel lavoro e nella preoccupazione passò diverso tempo. Gli amici
antichi della città s’erano squagliati. Egli loro scriveva e quelli non
rispondevano.
Passò, ripeto, del tempo. Ma pochi anni, cosa erano in confronto della
vita d’un uomo? E dell’eternità senza confini?
E com'è che nella vita di Giacomo tali anni avevano un così grave peso?
Comè che si sentiva invecchiato e stanco?
Qualche capello grigio era spuntato sulle tempie; la faccia e la pancia
erano ingrossate; il colorito, una volta cosi fresco, era vizzo; ed i capelli,
i bei capelli ondulati della sua gioventù, erano scomparsi come per una raffica
improvvisa.
Il suo cuore pure era vecchio e stanco. L’ amore più non balenava
dinanzi alla sua immaginazione. E le speranze? E le illusioni?
Giacomo a poco a poco si era adattato alla sua vita mediocre; si
contentava di umili donne del popolo che come un servizio gli offrivano
l’amore, era rassegnato del suo stato modesto.
Aveva lasciato gli studi per sempre; e di -rado rimpiangeva di non
essersi preso la laurea.
Né soffriva più per le abitudini della provincia: ormai le aveva fatte
sue, e ci stava a suo agio. E commerciante tra commercianti adoperava il loro
linguaggio grossolano, le loro frasi, le loro maniere.
Solo di tanto in tanto pensava alla bella Adelina, amata per cosi breve
tempo e pur cosi viva nel ricordo: la vedeva sempre giovane e fiorente. E non
immaginava che potesse essere sposa di altri.
L’ignoranza che egli aveva della vita di lei lo incoraggiava a sognare
secondo il ritmo del passato; e la vedeva, ardita e splendente, andare insieme
a lui nella campagna del suo passe. S’accorgeva della fantasia, e smetteva.
Ma una volta —- erano passati quasi dieci anni — Giacomo volle
permettersi il lusso di prendersi le vacanze e fare un viaggio. Prese il
biglietto e, partì per l’antica città della sua giovinezza.
Aveva curiosità di sapere la fine di Adelina. Con cuore trepidante andò
a casa di lei. Non se ne ricordava bene.
Bussò, ed una donna anziana s’affaccio.
-- Abita qui la famiglia Cozzupoli?
-- No, chi desiderava?
-- Niente, o niente. E non sa dove si è trasferita?
— Stanno a Roma, ma l’indirizzo non lo so.
— E non conosce chi me lo potrebbe dare?
— No, proprio. E’ da diversi anni che son partiti.
— Grazie tante, lo stesso! – disse Giacomo; e non rimpianse troppo di
non averla veduta.
Giro per altre città e si divertì finché finirono i soldi e dovette
pensare al ritorno. Capitò a Roma dove solo per qualche giorno avrebbe voluto
rimanere.
Si trovava solo davanti alla piazza della stazione, quando un signore
elegante parve riconoscerlo; anche lui lo riconobbe. Era Enrico Piromalli,
l’amico che gli aveva fatto conoscere Adelina, e di cui poi non aveva saputo più
nulla.
-- Chi si rivede? Come stai? – gli disse l’amico.
-- Bene! E tu? Ti rivedo con tanto piacere! — rispose Giacomo.
— Senti! Ho da fare! Debbo andare all’ufficio! Non mi puoi
accompagnare?
— Ma si — rispose Giacomo contento.
Parlarono del tempo trascorso insieme, degli anni di poi, delle seccature
della loro vita presente. L’amico non ricordava gli amori di Giacomo, tante cose
gli erano sfuggite, e questi non gliene parlo.
Arrivarono, così, dinanzi a un Ministero.
Ci vedremo a cena stasera? – disse l’amico – vieni a trovarmi a casa,
segnati l’indirizzo. Ho sposato, sai, e sto bene!
— Si, verro, ma non vorrei recare disturbo.
-- Ti pare?
E si lasciarono.
La sera dello stesso giorno, Giacomo bussò alla porta di casa
dell‘amico.
Venne egli stesso ad aprire. Il corridoio era splendidamente
illuminato; mobili di lusso adornavano le stanze
—-Siediti, che ora chiamo mia moglie.
-- Si, si.
Dopo un po’ s’intese di nuovo la voce dell’amico. Altri passi si
sentivano ai suoi.
Giacomo si alzò dalla poltrona
dove s’era messo a sedere.
— La conosci? '-- gli disse l’amico ridendo; e gli batté una mano sulla
spalla.
Comparve una donna, giovane, fresca, dall’acconciatura elegante. Col
sorriso sulle labbra, agile di corpo e snella come un animale selvatico, gli fu
davanti.
S’avvicinò a lui, gli- stese la mano.
Egli divenne pallido e s’appoggiò al braccio dell’alnico; il cuore gli
sembrò uscisse dal petto; temé di cadere; perché la bella donna, di cui toccava
tremando la mano gentile, non era che la sua fidanzata per sempre perduta.
Mario e La Cava
Pubblicato su IL MESSAGGERO
nel 1941
Nota. Questo
ritaglio, come quelli riguardanti Francesco Perri, fa parte dell’archivio di
Ernesto Gliozzi il vecchio. Anche se i bovalinoti ora mi daranno addosso,
consideriamo, causa i suoi antenati, Mario La Cava uno scrittore platiotu, aggiungendolo al nostro “Pantheon” di glorie paesane, mi pare anche, che le note del Maestro
rendano bene gli affanni di Giacomo in questo racconto poco noto.
Correva l'anno 1863 ed a Napoli alle ore diciassette dell'8 giugno, presso l'Uffiziale di Stato Civile si presentava don Luigi Mittiga di Platì, Calabria Ultra prima, di anni quarantuno, Uffiziale al Retiro, domiciliato in Salita Petrajo numero quattordici per presentare una femmina nata il giorno avanti da lui e da Donna Margarita Spinandi di anni trentadue a cui davano il nome di Marianna Giuseppa Paolina Maria.
Don Luigi, stando ai registri battesimali della parrocchia, era nato il diciassette giugno del 1819 da Domenico Mittica e Meladoni Giuseppa.
L’ASSASSINIO
DI DUE NEGOZIANTI E’ L’ULTIMO EPISODIO DI UNA VIOLENZA CHE HA TRASFORMATO UN
PAESE DELLA CALABRIA
L’ ANTICO CUORE PERDUTO DI PLATI’
Dove c’erano contadini e artigiani ora ci
sono banditi e spacciatori
Scomparsi i prodotti della terra come l’olio,
il pane e il formaggio che erano tipici della zona- Una tradizione di malavita
cominciata nell’Ottocento e via via degenerata in una ferocia sempre più
sanguinosa
PLATI’ - Un giallo tutto da
dipanare. Martedì di carnevale, tra le 18 e le 19, a Platì, un paese a ridosso
di una contrafforte dll’Aspromonte orientale, che si innalza minaccioso
sull’abitato, a fianco del torrente Careri che rumoreggia d’inverno con le sue
acque che finiscono, a pochi chilometri di distanza nel Mar Ionio, un fatto
terribile commosse la popolazione del luogo: due anziani coniugi che gestivano
una misera rivendita di tabacchi, nella quale l’incasso non poteva superare nei
giorni comuni, 30 o 40 mila lire, vennero massacrati da ignoti a colpi di scure,
e uccisi. Il marito Francesco Prestia era stato sindaco comunista del paese o
vice sindaco per più anni. Dal 1975 non svolgeva più politica attiva, era
ritenuto da tutti un uomo giusto. La moglie, Domenica Di Girolamo, ufficiale
postale, servizievole e garbata, era da pochi mesi in pensione.
Sono andato ai funerali avvenuti in paese dopo che si era vinta
l’avversione elle tre figlie a celebrarli alla presenza di una folla in mezzo
alla quale verosimilmente si sarebbe nascosto il colpevole (o i colpevoli),
percorrendo in macchina i quindici chilometri di distanza lungo la stradale 112
che da Bovalino porta a Platì. Ero commosso; pensavo al fatto della figlia che
aveva invocato aiuto ai frequentatori di un bar accanto, quando aveva scoperto
la fine dei suoi genitori, e nessuno era accorso. Mi venne in mente un altro
viaggio che avevo fatto a Platì con Filippo Sacchi inviato della “Stampa” di
Torino, dopo l’alluvione del 17 ottobre 1951, che aveva travolto il paese,
provocando 17 morti e ingenti danni alle colture. Allora ci aveva fatto
impressione l’umanità della gente.
Quella data è stata memorabile nella storia di Platì, per le
conseguenze apportate. Allora vivevano a Platì seimila abitanti degli ottomila
e più degli anni precedenti. Cominciò la grande emigrazione che dimezzò la popolazione
ai tremila abitanti di oggi. Gli emigranti che si spostarono a catena.
Richiamandosi tra di loro, si
Sono concentrati nell’Hinterlad milanese e in quello torinese. Gran
parte di essi finì in Australia, quasi sempre sistemandosi in gruppi. Altri andarono
negli Stati Uniti.
In paese le campagne vennero abbandonate. I proprietari terrieri
perdettero il loro potere; scomparvero gli artigiani, bravi e numerosi,
scomparvero i contadini volenterosi nel coltivare la terra. Oggi 280 capi
famiglia lavorano nella Forestale, per 101 giorni all’anno. Ricevendo poi per i
restanti giorni il sussidio agricolo di disoccupazione.
Gli emigranti non sempre si trasformarono in operai delle industrie;
spesso miravano a far gli imprenditori; e tra le imprese risultò per loro più
remunerativa quella del crimine organizzato e della droga. Non c’è stato
sequestro in Lombardia, di cui si siano scoperti i colpevoli, tra i quali non
fosse implicato qualcuno di Platì. In Australia, Saro Trimboli era considerato
un re della droga. Dopo la sua morte, funzionari del governo australiano
arrivarono a Platì, per assicurarsi che la salma fosse stata riportata al luogo
d’origine.
Non la ritrovarono. Dall’Australia arrivarono pure le sementi di
marijuana, perché fosse coltivata sull’Aspromonte, nei campi di granoturco co
le cui foglie si sarebbe confusa.
Non meno intraprendenti si sono dimostrati quelli rimasti in paese. In
questi ultimi anni sono rimasti ignoti gli autori di oltre dieci omicidi; e ora
del povero Prestia e di sua moglie c’è poco da sperare che si scoprano i
colpevoli.
Perché tutto questo? In che modo si è sviluppato l’istinto di ferocia
che si annida nell’uomo, sopraffacendo i buoni sentimenti collettivi che pure
esistono? Sono i molti o i pochi che caratterizzano la società? E’ giusto che i
molti paghino nella considerazione pubblica i delitti dei pochi?
Mi diceva un dottore in chimica del luogo: “ Sono di Platì, se qualcuno
me lo domanda mi vergogno di dirlo”.
Un esattore delle imposte, che già era stato rapinato dell’incasso
nella frazione di Cirella, rispose: “Dispiace molto, è vero; ma i delitti che
avvengono nelle città non sono meno atroci: solo che non fanno spicco nella
massa della popolazione”.
Bisogna ricordare che Platì non fu mai un paese di “agnellini”: la sottigliezza,
sfociante a volte nella furfanteria, era proverbiale nei paesi della locride.
La litigiosità dei suoi abitanti alimentava abbondantemente i lucri degli
avvocati. Un mio avo di Platì lasciò morendo nei primi anni dell’Ottocento
sette cause in corso nei tribunali borbonici. Ma contro chi? Contro i
danneggiatori della sua proprietà. Era un uomo molto ospitale, aveva amici con
i quali si compiaceva di intrattenersi, era avvocato, ma, come il suo lontano
nipote che ora lo ricorda non esercitava la professione: Benché rigido contro i
malviventi, non ebbe mai a subire ritorsioni da coloro che egli denunziava ai
tribunali.
La società del tempo era molto stabile, non consentiva facili
cambiamenti di stato. Vi erano proprietari, le cui terre erano di origine
feudale; e tra questi il più grande, Oliva, che aveva proprietà che da Palmi
arrivavano ininterrottamente a Bovalino e a Locri, sullo Ionio. Quasi tutto il
popolo, composto di contadini e di pastori, viveva delle sue terre. Famosi
erano i formaggi locali che ora non si possono comprare a nessun prezzo, famoso
il pane fatto in casa con una qualità di grano duro detto “dimini” di cui resta
oggi solo il nome. L’olio, spremuto nei torchi a mano dalle olive nere
piccoline, era leggero anche agli stomaci delicati. Vi erano i proprietari di
origine borghese; e poi gli artigiani, numerosi e bravi. Il popolo era molto
devoto alla Madonna di Loreto a cui è intitolata la chiesa del luogo.
Certamente gli spiriti liberali non erano diffusi nemmeno tra gli
esponenti più importanti delle classi civili. Garibaldi li convertì facilmente
al suo passaggio; ma poi, fin dal 1861, sorsero condizioni perché i borbonici
trovassero in Mittica un capo per guidare la guerriglia. A lui si unì il
generale spagnolo Borjes, per raggruppare le forze della campagna anche
risorgimentale, che passò alla storia come brigantaggio politico o comune.
Il Mittica fu preso e ucciso; la sua testa, ficcata su una pertica, fu
portata in giro per il paese.
Anche Platì fu amministrata verosimilmente nell’interesse prioritario
dei suoi dirigenti come il resto della Calabria; mai nei ceti dirigenti di quel
paese, che allora era una piccola città, con maggiore ribalda avvedutezza.
Questa sommandosi alla tendenza attuale della società a privilegiare i beni materiali
a qualunque costo, ha determinato la presente sfrenatezza che stupisce e
preoccupa, fra gli altri, i tutori dell’ordine. E qui torna a concio ricordare
che bastava un uomo, il maresciallo Giuseppe delfino, negli anni precedenti
alla guerra del ‘$0, per tenere a freno i malviventi di tutto l’Aspromonte
orientale, oggi non sarebbe sufficiente un plotone di esperti poliziotti.
Tuttavia sono sempre i pochi che tengono in agitazione i molti della
società. Mi son trovato, confuso tra la folla, ai funerali di quei poveretti.
Tutto il paese accorse; e non solo donne, ma anche uomini, piangevano. Notai
alcune facce cupe di montanari: sarebbero potute sembrare anche dure; ma erano
semplicemente addolorate per quanto era accaduto nel loro paese, di cui
facevano parte. Nessuno, fra i tanti che commentavano i fatti, poteva ricordare
cose nel passato di Francesco Prestia e sua moglie che avessero potuto spiegare
il gesto di una postuma vendetta. No, c’era solo da dubitare che fosse
possibile conoscere il cuore segreto degli uomini.
MARIO LA CAVA, Corriere della Sera 19 febbraio 1986
Note
- E’ un figlio di Platì che scrivendo, confuso per il dissolversi
dell’identità di un paese che aveva attraversato momenti di gloria, ci sprofonda
nel cuore di tenebra conradiano.
Ancora una volta sorge il sospetto che quanto sia accaduto a Platì non fosse
che una strategia elaborata altrove, senza tener conto di un passato che aveva
dato lustro all’Aspromonte. Rivive altresì il dolore provato trenta anni fa
dalla famiglia Prestia, che coinvolse l’intera comunità senza distinzione di
classe, macchiata quest’ultima, se volete, dal mancato soccorso; ma a distanza
di tempo ci macchieremmo anche noi, additando quella comunità, di viltà.
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- L'avvocato antenato di Mario La Cava si
chiamava Raffaele, figlio di Muzio Lentini e Dorotea Roy, come potete notare
dalla attenta genealogia fatta da Francesco di Raimondo. In essa traspare la
parentela, rimossa nell'articolo, di don Raffaele con Ferdinando, Caci,
Mittica/ga, avendo Dorotea sposato in seconde nozze Francesco Mittica/ga, già
messa in luce da Michele Papalia nel suo Caci il Brigante del 2016.
C’era stato promesso: «Se vincerete il campionato, l’anno prossimo avrete il campo». Forse, anzi col senno di poi certamente, chi promise considerandoci pressappoco un’Armata Brancaleone, non conosceva l’agonismo e la caparbietà di quei dirigenti e di quei ragazzi. Si, perché se gli avversari sognavano di calcare campi più importanti, noi avevamo diverse e più basse pretese: nessuna velleità, ci sarebbe bastato un normale campo sportivo in terra battuta, un nostro campo, un nostro settore giovanile e una tribuna dove uomini donne e bambini avrebbero fatto il tifo.
Prima dei sogni dunque dovevamo giocare e vincere il campionato di terza categoria. Si mise su una squadra di giovani, i più senza alcuna esperienza calcistica e si cominciò il campionato. Già alla vigilia della prima partita, in piazza si udiva il solito mormorio di alcuni vecchi disfattisti: «Ma chi ve lo fa fare!». Una squadra senza campo eravamo, con tutti i pronostici contro. Le partite casalinghe, che tali non erano visto che quando si giocava in casa dovevamo percorrere 22 km, si disputavano al comunale di San Luca.
Si continuava così una tradizione che risaliva agli anni ‘70 quando le prime squadre del Platì elemosinavano agli altri paesi un campo sportivo. Ma quelli erano altri tempi, ora almeno i calzettoni non erano bucati. Durante la settimana non ci si poteva allenare e in campo per vincere bisognava buttare il cuore oltre l’ostacolo, tirando fuori una rabbia agonistica senza pari. La carica di capo ultrà spettava a Natali du Zi Savu, oggi compianto e mai dimenticato, unico per la sua capacità di caricarci e per essere stato sempre presente al fianco della squadra. Tutti i direttori di gara avevano imparato a conoscerlo; a ogni punizione fischiata contro scattava in piedi a chiedere ragione all’arbitro, «Quarant’anni di Platì» diceva, pretendendo spiegazioni.
Una domenica mattina al paese arrivarono le telecamere e i giornalisti di Rete 4, a loro dire a documentare il disagio giovanile al Sud. Pensavamo di approfittare, di mettere pressione sulle istituzioni, speravamo che qualcuno finalmente si stesse interessando ai noi giovani di Platì. Presto ci accorgemmo di aver pensato e sperato male perché bastarono poche e strumentali riprese, qualche intervista “tagliata” ed ecco confezionato su misura il servizio per il padrone, i soliti luoghi comuni su santi e santini, affiliazioni e cognomi pesanti. Rimanemmo gabbati, noi che in testa avevamo un pallone da rincorrere e un campo da calcare, noi generazione senza campo né strutture sportive. Ma noi, imperterriti, continuammo a vincere.
A primavera i campi impolverati della provincia davano il seguente verdetto: imbattibilità casalinga e due sole sconfitte esterne, così a fine campionato la squadra risultò prima a pari merito con la Stilese: in piazza non sentivamo più il mormorio dei vecchi. La Lega dilettanti Calabria decretò data e luogo dello spareggio. A Siderno, partita secca, ci si giocava la promozione in seconda categoria contro la Stilese che portò sugli spalti poche decine di tifosi al cospetto di circa trecento platiesi padroni di una intera tribuna.
Si vinse per due reti a uno e si ritornò al paese accompagnati da caroselli di auto a festeggiare con la riaccesa speranza di bussare nuovamente e più forte ai portoni dell’amministrazione locale. Ed infatti, all’indomani si bussò, qualcuno aprì, ma lì sul terreno della politica e delle pastoie burocratiche non riuscimmo, senza ben capirne i motivi, a battere un avversario più forte di noi. Continue tergiversazioni, impedimenti vari e agognati finanziamenti che stentarono ad arrivare ci scoraggiarono, il resto lo fece l’estate che sopraggiunse afosa mandandoci al mare.
Nonostante tutto, l’anno seguente – caparbiamente, senza nessuna preparazione atletica e senza allenamenti settimanali come l’anno prima – iniziammo il campionato di seconda categoria che ci ricordò come alla base di ogni percorso sportivo, anche dilettantistico, vi era programmazione e preparazione. Giocoforza a metà stagione, al ritorno da una lunga trasferta, decidemmo di desistere e fu quella l’ultima partita giocata, con i soliti scettici che non mancarono di rimarcare: «Ve lo avevamo detto».
Dall’ultima partita giocata – nel frattempo due commissioni prefettizie intervallate da un consiglio comunale sciolto causa infiltrazioni – non si è ovviato a questa pesante assenza sociale, segno evidente che nella Calabria del Sud certe carenze endemiche, qui più che altrove potente antidoto a ogni forma di dispersione, hanno sempre prescisso dai colori e dall’estrazione politica di chi ha retto la casa comunale.
Dall’ultima partita giocata sono trascorsi otto anni, pochi se ragguagliati alla folle velocità del tempo moderno, molti, anzi troppi se pensiamo a quanti bambini platiesi è stato ancora negato il fondamentale diritto alla pratica sportiva. E noi che eravamo giovani, rassegnati abbiamo mandato in soffitta i sogni di gloria mentre molti di quelli che hanno promesso di sicuro non si ricordano più di averlo fatto, dimentichi che Platì, comune tra i primi per tasso di natalità, è l’unico paese del circondario a non avere il campo sportivo e, di conseguenza, una squadra. Che dormano sonni tranquilli almeno loro.
«U faciti?››.
Nella lingua del posto significa: «lo fate?››. I ragazzi sono in un primo
momento timidi, nessuno - forse - è mai venuto da queste parti a chiedere loro
che cosa vogliono, cosa fanno. Vinta la paura, siamo circondati. In un baleno
ci avvolgono, gli occhi intelligenti, tutti in coro a chiederci se e quando possiamo
costruire il campo di calcio. Cosa rispondere? Non siamo noi, spieghiamo
mortificati, a doverlo fare.Noi vogliamo capire cosa succede; qui non è mai
esistito un impianto sportivo, uno spazio dove giocare a pallone è considerato un miraggio.
Siamo a Plati, paesino situato nel mezzo, tra il
leggendario Aspromonte, conosciuto ai più solo come rifugio e terra di
briganti, prigione di sequestrati, e il mare dello Jonio calabrese, quello dei
bronzi, dello stesso colore che narrava Omero. La zona, in provincia di
Reggio Calabria, è proprio quella che batterono i figli di Zeus dall'ottavo
secolo avanti Cristo in poi.
Tutto qui rimanda alla Magna Grecia: l'aria che si
respira, il mare, i resti dei santuari e, soprattutto, l'ospitalità della
gente. Come allora, pur sconosciuto, l'ospite è sacro. Ci accolgono, per loro è
un giorno di festa. Per arrivare a Plati, dal nord, abbiamo attraversato, lungo
la statale ionica, tanti paesi e grossi centri, simili tra loro e uniti dallo
stesso destino: quello riservato, ai luoghi del sud, quello veramente profondo.
Nessuno può negare che qui lo Stato è per certi versi troppo lontano. Chi viene
da queste parti per la prima volta non può fare a meno di restare affascinato e
al tempo stesso sconcertato. Lungo la costa, mossi appena dal vento, gli agali;
stanno lì a osservare il mare e le spiagge, solitarie le lunghissime. Sull'asfalto
della statale, invece, ogni due passi un posto di blocco dei carabinieri. Si resta
allibiti per la quantità. E segno che le cose non'vanno spesso per il verso
giusto. Quando chiediamo il perché, nessuno ci sa rispondere. Loro sono
abituati.
Passiamo da Riace, città dei bronzi melanconicamente
dimenticati, arrivando in pieno sole a Bovalino, sul mare. A una quindicina di chilometri verso l'interno
c'è Platì. A Bovalino ci attende Domenico Marando, avvocato, che ci guiderà su
per quella che lui chiama «una buona strada».
Verifichiamo di persona ciò che ci aveva raccontato al
telefono: a Platì non c'è nulla. Oltre alle case, spesso ancora grezze, neanche una piazza che possa così
chiamarsi. Nelle stradine del paese si sta in gruppi; parlano e gesticolano i
vecchi, sulla testa il cappello, e i ragazzi in giro oppure al bar. Qualcuno lo
incontreremo sull'Aspromonte, a guardare le capre, in solitudine. Altri, chi ha
la macchina, fuggono a Bovalino; lì trovano la vita, le ragazze. Non esistono
ulteriori occupazioni. Molti, ad esempio, non sono mai andati al cinema e l'edicola più vicina e situata
fuori dal paese, non si sa bene dove.
L'avvocato Marando scrisse alla nostra rivista qualche
anno fa, denunciando queste e altre cose. I ragazzi di Platì non hanno nemmeno un posto dove andare a giocare.
Una breve indagine e scopriamo che è proprio vero. Un campo di calcio non è mai esistito. Una
palestra, poi, è fantascienza. Perche? «Trenta
anni fa - dice un ex assessore allo sport - ricordo che a Platì c'erano addirittura due squadre di calcio. Una
specie di Guelfi e Ghibellini, in continua rivalità ovviamente sportiva. II
calcio e lo sport rappresentavano tanto per noi. Poi è venuta I'alluvione, nel
'51, e ha portato via tutto. Avevamo il campo, ora i ragazzi sono costretti a
giocare per le strade, le donne gli urlano dietro perché rompono i vetri.
Intanto cosa si può fare? Se gli togli anche il pallone, che fanno?››.
L'avvocato Marando va oltre. Lui fondò - qualche tempo
prima di scrivere a Sportgiovane - un
gruppo denominato «Alfa››, che riuniva
un buon numero di giovani; aveva coinvolto quasi tutti. Marando ebbe un'idea coraggiosa;
tra mille difficoltà, infatti, tentò pian piano di far capire ai propri concittadini
che i ragazzi di Platì non potevano continuare a restare fuori dal mondo. Al Gruppo Alfa ci si batteva anche per il
campo sportivo. Domenico Marando, pur in totale solitudine e con seri problemi
fisici (fu colpito dalla poliomelite a 18 mesi), non si diede per vinto, almeno
per un po'. Condusse e vinse la battaglia per l'installazione del
ripetitore RAI. «Naturalmente nessun
elogio, nessun umano riconoscimento», come si legge nella lettera inviata
alla nostra rivista il 30 luglio 1982.
«Io penso però
che è sempre meglio un po' di bene - continua - anche se si ha la certezza di
essere mal ripagati, piuttosto che non fare niente e attendere che facciano gli
altri. In questa direzione, secondo quest'ordine di idee si sta muovendo il
Gruppo Alfa... Ora vogliamo intraprendere la lotta per il campo sportivo e
pertanto chiediamo a Sportgiovane di appoggiare la nostra iniziativa. Questa
deve essere la risposta civile a quella gente matura-immatura che sa solo
protestare quando vede i ragazzi per strada che tirano quattro calci al
pallone. A Platì è necessario il campo sportivo››.
Noi rispondemmo, promettendo di occuparci del «caso»
Platì non appena possibile. E passato del tempo.
Abbiamo volutamente lasciato trascorrere degli anni,
per vedere cosa ne sarebbe stato del campo sportivo, del paese, dei ragazzi del Gruppo Alfa. Ora siamo qui,
abbiamo conosciuto l'avvocato che scrisse tanto appassionatamente quella lettera. Senza dubbio un avvocato
povero. Abita con i suoi, una casa modesta, uno studio che per nulla ricorda gli studi ai quali
siamo abituati.
«Non guadagno,
facendo tutte le somme, neanche un milione al mese - dice, col sorriso sulle
labbra - ma non mi lamento troppo. E poi, cosa devo farne...››.
Marando non nasconde il fatto di non essere ricco,
come lo sono altri colleghi. Per lui è motivo di orgoglio non lamentarsi, accettando quello che la vita ha
potuto offrirgli.
«Le cause non ci
sono - ci spiega - e quelle poche che ci sono magari non me le assegnano. Poi,
per certi versi, sono anche un personaggio scomodo, perché dico e faccio quello
che penso, nella mia condizione di handicappato››.
E la «causa» del Gruppo Alfa e del campo sportivo?
«Vede, uno non
può annullarsi completamente per gli altri, specialmente se ti accorgi che, in
fondo, stai lottando da solo e sei anche criticato ››.
Queste parole ci lasciano un po' sorpresi, ma capiamo
perfettamente. Domenico Marando ha fatto ciò che ha potuto. ll Gruppo Alfa non esiste più. La
biblioteca, la cineteca, il campo sportivo, tutti sogni nel cassetto di un uomo
coraggioso, onesto, estremamente altruista, ma troppo solo.
«l ragazzi
cominciavano a seguirmi - racconta sconsolato e quasi scusandosi con noi per
non avere avuto la
possibilità di accoglierci in una Platì diversa - mi accorgevo che si interessavano
alle attività che gli roponevo. Avevo costruito piano piano una piccola biblioteca,
con volumi che richiedevo direttamente alle case editrici, pregando di
inviarceli gratuitamente. Spesso riunivo i ragazzi per la visione di un film,
di un documentario, poi ognuno doveva dire la sua; ci raccoglievamo per fare lo
sport. Cercavo di spiegare loro che stando assieme, iocando, anche con un po'
di agonismo, potevamo lasciare fuori dalla porta I mali che affliggono tanti
giovani. Lo sport può fare grandi cose per ragazzi di un paese che potrebbe
coinvolgerli in
tutt'altri affari››.
Quali? Platì appartiene a una delle province più
turbolente d'ltalia. Mario La Cava, scrittore e giornalista, scriveva il 19
febbraio del 1986 sul Corriere della Sera: «...Bisogna ricordare che Platì non fu mai un paese di agnellini: la sottigliezza,
sfociante a volte nella furfanteria, era proverbiale nei paesi della Locride...››.
L'articolo si intitolava «L 'antico cuore
perduto di Platì››. Un ex cittadina modello, così la ricordano Marando e gli amici, famosa per l'artigianato
e per la laboriosità dei suoi abitanti. L'alluvione del 1951 portò via tutto,
lasciando Platì senza forze. Da allora, come dicono, il declino.
Ma un figlio di quel «cuore» ora «perduto››, Domenico
Marando, aveva cercato di cambiare le cose, che non andavano e non vanno bene non
solo per colpa di calamità naturali, ma per la difficile mentalità dei più. «A un certo
punto mi sono accorto che era inutile - prosegue l'avvocato - i risultati erano
scarsissimi, e i ragazzi erano anche ostacolati dalle famiglie. Il campo
sportivo che tanto avevamo sognato non fu mai costruito. Ero stanco e afflitto,
così decisi di mollare tutto e pensare di guadagnare qualche soldo per me››.
- Perché al tempo del Gruppo Alfa si rivolse a noi?
Qui Marando ci dà una risposta che lascia intendere
molte cose:
«Questo non è un
paese dove lo sport non si può fare perché non esistono impianti, nemmeno un
campo di calcio,
anche piccolo; qualcuno pensa di fare qualcosa per la sua gente, affinché i
giovani restino lontani dal male
che ci circonda, ma non ci riesce. Per questo mi rivolsi a voi, a una rivista
che tratta anche di questi problemi, al Coni. Credevo di rivolgermi al Padreterno››.
«Sono d'accordo
che lo sport sia una cosa importante per i nostri ragazzi - ribatte il
Sindaco di Platì, Natale Marando, parente dell'avvocato - ma qui mancavano ' strutture primarie, come luce, acqua e strade.
Abbiamo dovuto pensare prima a queste cose ››.
ll progetto per un campo sportivo è stato fatto,
presentato e - a quanto dice l'ingegner Gelonesi di Bovalino- approvato dalle autorità
competenti:
«Credo che Platì
avrà al più presto il suo campo ››, dice pieno di ottimismo. Il Sindaco è
dello stesso parere, ma ci tiene a ribadire che qui mancano «certezze sociali»
più importanti.
Domenico Marando, invece non ci crede: «Sono completamente pessimista, ma con
immenso dispiacere».
Nota
Dei giornali nazionali, tra tutti gli inviati (qui invitato) Valerio
Giacoia è stato il più onesto, illuminato, sia per il motivo di base
dell’investigazione (un campo di calcio) sia per chi in paese, novello
Virgilio, lo aveva accolto e guidato: Mimmo Marando. Oggi questa riedizione
vuole essere un omaggio a quest’ultimo ed in particolare un’esortazione agli
amici pulinaroti affinché dal rintracciato fallimento di un’esperienza traggano
motivo per un coinvolgimento che escluda qualsiasi perdita d’animo come di
intenti, per portare avanti gli obiettivi prefissati in statuto, sfidando chi
questo esperimento di ribaltare le sorti del paese pensa che non durerà.
Per tornare a Valerio Giacoia ed alla testata che lo aveva incaricato, Sportgiovane, importante è l’analisi
fuori dal coro, di quei tempi andati e di quelli contemporanei, che questi fa
delle condizioni, chiamiamole morali, in cui si trovava il paese, analizzate
senza nessun pregiudizio come presupposto mediatico che portasse ad additare un
territorio ed una comunità come dei farabutti, compresa la guida spirituale,
che vi ricordo, in quel tempo, per
usare un’espressione rituale, era lo zio Ernesto il giovane.
Nella foto i ragazzi del Gruppo Alfa con Mimmo Marando alla sinistra e
lo zio Ernesto in centro.