Powered By Blogger

lunedì 7 novembre 2016

Catene - versione a colori






Vista con gli occhi di don Salvatore Carannante, la Siberia nel golfo di Napoli fa venire in mente Sepolto vivo, film, American International Pictures del 1962, di Roger Corman.

domenica 6 novembre 2016

Voci lontane… sempre presenti (reg. Terence Davis- 1988)

Il sette novembre (lo ricordato molto tempo addietro) è l'anniversario della morte del più grande scrittore di tutti i tempi: Sergio Leone Tolstoj. In famiglia però era l'onomastico dello zio Ernesto il giovane, non dimenticando per questo lo zio dello zio, Ernesto il vecchio. In quel clima autunnale a ridosso della commemorazione dei defunti, i più vicini (nella geografia) eravamo soliti sedergli accanto. Passed away, all, è tempo solo per il ricordo, e qui, ancora una volta voglio ripetere che senza lo zio Ernesto queste pubblicazioni non sarebbero esistite, è lui il vero artefice.
Per festeggiarlo virtualmente ecco che viene fuori questo " omaggio augurale " di don Giacomino, scritto in occasione dell'ascesa all'altare dello zio, mentre nella foto egli è seduto sulla scalinata che porta alla Grotta di Bombile con i suoi giovani pellegrini.



Tassoni Oliva Giacomo
     Platì (Reggio Cal.)
                                                                                             Platì 5 Dicembre 1937 – XVI

Al Neo Sacerdote don Ernesto Gliozzi

Entro la tua vigna, o Signore
Un fresco operajo oggi arriva:
la fede, già ardevagli in cuore,
si come una lampa votiva,

ancora fanciullo, allorquando,
lasciava la mamma e i balocchi
e l’arce ascendeva esultando
con lampi di sogni ne gli occhi.

Da l’arce – ove in tempi lontani
Il vecchio Suera à piantato
Con sue apostoliche mani
La santa ceppaja che à dato

Ne’ secoli a Cristo i polloni
Del Presule santo la voce
Chiamava : - Venite, voi Buoni
Voi Eletti – si appella la Croce!

E il piccolo Ernesto v’accorse
Al dolce richiamo, festante,
e tutto, d’allora, si assorse
di Dio nel pensiero costante.

E crebbe qual fiore di serra
Che il proprio profumo non perde,
ma dentro se stesso il rinserra,
né soffio contrario il disperde.

E Iddio del suo vergine cuore
Quel sogno degnossi appagare
Ed oggi, tra un vivo splendore
Di luci, egli ascende l’altare

Del Tempio ove il primo lavacro
Egli ebbe, bambino vagente,
e dove pur l’Ordine Sacro
riceve da Dio sorridente.

Ascendi, Levita di Cristo,
ascendi il raggiunto suo altare
cui oggi, più rabido e tristo
il mondo si affanna ad urlare

l’insulto di Satana, atroce.
Ascendi, o Levita, l’Altare
Su cui alta svetta la croce
Qual faro su torbido mare …

E al candido disco rotondo
Che il Corpo racchiude dio un Dio,
tu implora: i peccati del mondo
cancella, Tu Agnello di Dio.

Implora che venga il suo regno
Quaggiù, sovra l’arida terra,
e che la sua Croce sia pegno
di Amore che fughi ogni guerra.

E voi illustre Presule, al cuore
Stringete il novello Levita,
si come a trasponder l’ardore
di santa, apostolica vita:

l’ardore che tutti vi prende
nel Vostro sì gran ministero,
l’ardore che tutto vi accende
per tutto che è Santo, che è vero.

E su questa casa novella
Che apresi per la tua festa
Non strida giammai la procella,
non rombi giammai la tempesta

ma oggi e per sempre infinito,
si assida la pace e l’amore
e il prossimo nido fiorito
ricolmi ogni gioia il cuore.

GiacomoTassoniOliva

Questi umili versi gettati di un fiato, senza lima e senza contorni, dovevano essere letti nel convivio di jeri. Per ragioni indipendenti dalla mia volontà, non sono stati letti e, non essendo sicuro se il giorno dell’Immacolata son presente, partendo domani per Reggio, li mando, a te, Ernesto, perché li tenga come l’omaggio augurale del mio animo nella fausta ricorrenza della tua consacrazione Sacerdotale.
Giac. Tassoni Oliva

6 – Dicembre – 37 XVI -





giovedì 3 novembre 2016

Ricorda il mio nome (a Bombile)

Lentini Francesco Ant.(27.9.1851) Di Antonio e Catanz. Giuseppa cavolotto
Marando Giuseppe (13.11.1851) di Saverio colonnello
Marando Rosa (15.7.1851) vedova di Morabito Tommaso (masi)
Miceli Domenico (8.3.1851) castagna- vir di Avenoso Concetta
Miceli Giuseppe (13.8.1851) di Domenico castagna
Murabito Domenica (2.1.1851) pirozzo-moglie di Carbone Domenico bizzarro
Pangallo Rosario (21.2.1851) di Ant. e di Catanzariti Anna jèmija
Perre Maria (21.2.1851) di Pasquale rrant
Perri Francesco (3.8.1851) di Saverio malavita
Perri Saverio (14.8.1851) di Antonio rrantu
Sergi Antonio (19.8.1851) di Francesco Antonera e di Catanzariti Maria
Sergi Caterina (27.7.1851) di Pietro ved. di Trimboli Giuseppe vajana
Sergi Domenico (27.11.1851) gallo figlio di Michele
Sergi Giuseppe (11.2.1851) scattagnolo
Trimboli Domenico (23.6.1851) di Francesco pejaru
Trimboli Domenico (17.9.1851)di Pasquale bufalaru
Trimboli Nicola (19.6.1851) di Domenico vajana                                             
Vadalà Giuseppe (17.2.1851) di Carmela del tintore
Zappia Caterina (30.8.1851) di Rocco e Spagnolo Maria gorgiusa
Antonera Anna (8.2.1852)di Bruno:(che Antonera non sia il soprannome?)
Catanzariti Maria (189.6.1852) di Pasquale bomba
Cutrì Francesco (3.1.1852) di Sebastiano stracozza
Floccari Caterina (8.2.1852) moglie di Giuseppe careja
Grillo Domenico (8.1.1852) di Francesco incriccio
Mittiga moGiacomo (13.5.1852) di Domenico dama-vir di Morabito Maria
Portolisi Lucia (14.2.1852) di Saverio-vedova di Pasquale insertasti
Sergi Giuseppe (13.6.1852) di Carlo careja




Le foto riportano il pellegrinaggio a Grutta, guidato dallo zio Ciccillo, verso i primi anni sessanta. Io riconosco i miei, a voi ... i vostri.

mercoledì 2 novembre 2016

L'inchiesta (reg. Gianni Amico - 1971) - Siamo fermi al 1951 -

Il 10 gennaio  (giovedì) 1963, La Tribuna del Mezzogiorno, quotidiano che si pubblicava a Messina, diffuse un intera pagina con il titolo Il progresso non passa per Platì, curata da Toto Delfino. Gli articoli e le foto che vi apparivano li andrò riproponendo per qualche giorno. 
Oggi è la volta del pezzo di presentazione, Siamo fermi al 1951. Sono parole emblematiche, ancora valide, ma, quello che più mi preme farvi notare, è la somma dei tradimenti con cui la realtà si scontrava e che non poteva dare origine a quanto è accaduto successivamente. E continua ad accadere ancora in questi giorni.




 Siamo fermi al 1951

PLATI', 9  -  Dal 1851 al 1951 la popolazione di Platì era aumentata con un ritmo più che proporzionale passando da 1635 abitanti a 4411, tenendo conto delle guerre, emigrazioni, terremoti, mortalità ed altri fattori che hanno influito sulle statistiche demografiche.
Sino al 1951 la popolazione per il 74 per cento si dedicava all’agricoltura, mentre la rimanente parte ad altre attività. I redditi, pur non essendo eccessivi, si contenevano in limiti di benessere. Fiorivano le piccole imprese artigiane; i raccolti agricoli erano ottimi; i traffici ed i commerci erano intensi, sicché ci si avviava verso un miglioramento delle condizioni di vita.
Si arriva all’alluvione dell’ottobre 1951 che segna una data importante nel destino di questa gente.
I morti furono 17; campagne devastate, colture distrutte, strade scomparse; due terzi delle abitazioni invase dai detriti, raccolti perduti e redditi nulli.
Vennero i primi soccorsi, si apprestarono i primi interventi di emergenza che si rilevarono sin dall’inizio d’una provvisorietà sconcertante. Si erogò l’assistenza in varie forme ma con metodi paternalistici.
Tuttavia il governo stanziò dei fondi che dirottarono verso altri centri, in seguito 
                       a varie pressioni di ordine politico.
La popolazione di Platì, che aveva subìto perdite umane rilevanti e danni materiali non estimabili, ebbe la più esigua parte.
Finché la Cassa per il Mezzogiorno(come nella classica favola della montagna che partorisce il topolino), nella compilazione del piano regolatore di massima per la Calabria, incluse il territorio di Platì nei bacini di V categoria (che è poi l’ultima), con una dicitura alquanto amena:
Bacino molto dissestato, con interventi da effettuare soltanto per fini sistematori locali, in rapporto a situazioni di emergenza per la difesa di particolari interessi pubblici “.
Quali fossero questi “ interessi pubblici “ dovevamo saperlo più tardi, quando la Cassa devolse per la sistemazione idraulica dei terreni attraversati dalla statale 112, 319 milioni, già destinati alla bonifica del Careri.
Così il paese dal 1951 è in completo abbandono, la popolazione, in un decennio (1951-1961), ha subito un decremento, le campagne sono abbandonate; i numerosi torrenti (specialmente l’Acone, Mannara e Sanello) vagano liberi in nuovi terreni ulivetati, completando l’opera devastatrice. La statale 112 è chiusa al traffico dal 1951, frane e valanghe si accentuano sui fianchi montani.
Aumentano le emigrazioni transoceaniche  (nel 1961-62 164 unità), mentre quelle interne ed europee si mantengono con oltre 550 unità fluttuanti.
Mancano le iniziative individuali per l’insicurezza del domani in questa valle soggetta a disfacimento. Le opere pubbliche fatte e che si fanno sono improntate alla più netta provvisorietà. Abbondano i “ cantieri scuola “, che disamorano l’operaio al lavoro. Però le tasse le contribuzioni arrivano.
Appunto da queste conosciamo nel nostro territorio di Enti di Bonifica. L’illustre professore Bandini definisce l’opera di questi enti consorziali come “ l’insieme armonico di tutti gli interventi che si attuano su un territorio per portarlo ad un grado superiore di produttività “.
Tralasciando il fatto che spesso il tutto è disarmonico e irrazionale, possiamo affermare che i consorzi di bonifica sono strumenti creati dallo Sato per sviluppare le infrastrutture necessarie allo sviluppo economico e sociale delle popolazioni.
Quali infrastrutture necessarie sono state create in questi anni se non qualche opera pubblica di lieve entità? E se opere pubbliche non sono state fatte, come si giustificano i tributi che la popolazione paga a questi due Enti?
La popolazione di Platì è stanca: Ha bisogno di fiducia. Occorre creare “ ex novo “ un piano di sviluppo per il paese, con la creazione di opere pubbliche di vasta portata che esulino dalla frammentarietà. Abbiamo bisogno di una sicurezza naturale, presupposto alla sicurezza economica.

giovedì 27 ottobre 2016

Catene (reg. Raffaello Matarazzo - 1949)




Miceli Pasquale, di Francesco ed Elisabetta Catanzariti, di Platì (Reggio), nato nel 1804, vaticale*.
Condannato a 19 anni di ferri dalla Gran Corte Speciale di Reggio il 20 dicembre 1851, per discorsi in luoghi pubblici provocanti direttamente gli abitanti ad armarsi, ma senza effetto.
Ricevuto a Nisida il 24 luglio 1852. Trasferito a Procida 15 giorni dopo. Con un r. decreto del 26 ottobre 1858 la pena diminuita di 4 anni. Il 6 luglio 1859 in Darsena e quindi liberato per effetto del r. decreto del 16 giugno precedente.
Fu processato con altri sei, fra i quali una donna, Rosa Miceli, ma per questi la Corte dichiarò abolita l’azione penale.
Al Sessanta fu nominato sindaco di Platì, e si adoperò a estirpare il brigantaggio. Mittiga con la sua numerosa banda gl’impedì per 3 mesi di uscire dall’abitato, e, quando venne il giorno dell’assalto Pasquale Miceli si batté personalmente con lui. Arrestò il brigante Domenico Carbone, e fece che si costituissero Jermanno e i fratelli Bisbanco.


  
La galera di Procida era la più vasta dei luoghi di pena dei dintorni di Napoli e le facevano corona quelle di Nisida e d’Ischia e l’ergastolo di Santo Stefano.

Monaco Attilio,  I galeotti politici napoletani dopo il Quarantotto, Libreria internazionale Treves-Treccani-Tumminelli, Roma, 1932

Note:
* mulattiere
- Leggendo le pagine dell’Attilio oritano, si viene a conoscenza che la Siberia era nel Golfo di   Napoli per i rivoluzionari del Regno delle Due Sicilie. 






mercoledì 26 ottobre 2016

Il trionfo della volontà (reg. Leni Riefenstahl - 1935)


Per andare a Polsi, tanto dal versante del Jonio come da quello del Tirreno, si percorre per lungo tratto l’antica via Consolare o Traiana, che mette capo a Montalto, la più alta vetta della Calabria, esistente nel territorio della diocesi di Gerace, a 1950 m. sul livello del mare.
Oggi vi si può arrivare in automobile fino al Sanatorio, e quindi restano tre buone ore di strada mulattiera, giungendo a 1900 m. sul mare, alla contrada detta Cerasara e scendendo per giungere alla Valle prodigiosa, che resta a 900 m. sul livello del mare, ai piedi del gigantesco Montalto.
È precisamente il lungo tratto che Mons. Mittiga aveva sognato di trasformare in via carrozzabile, sogno che con molta probabilità avrebbe realizzato se gli amici, che lo circondavano, fossero stati sempre sinceri. Viceversa, il sogno ardito e geniale ha segnato l’inizio di una dolorosa odissea, culminata con la incompatibilità dell’alta carica di Superiore di quel Santuario, ove pure aveva tanto lavorato.

La posa della prima pietra del Sanatorio pei tubercolotici di guerra ad Acqua del Faggio è avvenuta ai primi di settembre 1923, presente il Vescovo Giov. Battista Chiappe che ha eseguitola benedizione di rito, il Prefetto della Provincia, comm. Nobile, il dott. Mannarella del Comitato Centrale dell’Associazione Mutilati, il dott. Capua rappresentante la Croce Rossa, l’Ing. Pirrello con una eletta schiera di professionisti e di quasi tutti i Sindaci dei Comuni più vicini. È stato quello un giorno memorando che segnava l’inizio di una  imponente costruzione sorta per merito del Regime Fascista.
 Il Sanatorio dedicato al Re Vittorioso, è stato solennemente inaugurato il 28 Ottobre 1929 con l’intervento di S. A. R. il Duca di Bergamo, di S. E. l’On. Manaresi, Sottosegretario alla Guerra, presente il Comm. Birelli in rappresentanza della Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Prefetto di Reggio Calabria ed i Rappresentanti dei Prefetti di Cosenza e di Catanzaro e molte altre Personalità del Senato, della Camera, dell’Esercito, della Federazione Fascista ed ella Milizia V. S. N. con molti Professori di Università. La cerimonia si è svolta preceduta dalla benedizione impartita dall’Arcivescovo di Reggio Calabria, Mons. Carmelo Pujia.
Il Sanatorio consta dei seguenti fabbricati:
Il padiglione dei servizi generali. -- È composto d’un corpo centrale unito a due laterali da due ampie gallerie d’accesso, fabbricato su due piani e provveduto di locali sotterranei. Il piano terreno del corpo centrale è destinato agli uffici di direzione ed'amministrazione ed alla accettazione degli ammalati; il
primo piano comprende gli alloggi del personale amministrativo. Nelle due ali sono sistemati gli alloggi per le suore e l’altro personale d’assistenza e di servizio, maschile e femminile.
La cucina e la sala da pranzo. -- Il fabbricato della cucina è retrostante al precedente. Costruito con ogni ampiezze vi trovano posto tutti i servizi per la preparazione degli alimenti, le operazioni di lavaggio e di disinfezione delle stoviglie, un frigorifero Frigidaire, e numerosi locali per dispensa e deposito. La cucina
ha diretta comunicazione con la sala da pranzo, spaziosa, bene illuminata, aereata e riscaldata, a sezione semicircolare.
I padiglioni per gli ammalati. - Sono in numero di due ed hanno la capacità complessiva di circa 170 ammalati. La loro orientazione verso Mezzogiorno assicura ad essi il massimo dell’insolazione.
I due padiglioni sono identici: ciascuno è costruito su due piani con un corpo centrale e due ali che si concordano con esso ad arco di cerchio; nella parte frontale dei padiglioni sono distribuite le camere degli ammalati - a due letti con doppio lavabo ad acqua corrente calda e fredda e pavimento rivestito di linoleum - e le spaziose verande di cura. Inoltre ogni padiglione possiede due sale di riunione, una camera da bagno con quattro vasche, un servizio medico-chirurgico con sale di medicazione ed operazione, gabinetti per indagini chimiche, batteriologiche e microscopiche, gabinetto di radioscopia e radiologia, locali per disinfezione, cucina, guardaroba, magazzini ecc.
Oltre gli edifici ora descritti sono da noverarsi:
L'abitazione dei medici, villino che sorge nelle adiacenze immediate del sanatorio.
La autorimessa, per i veicoli in servizio del sanatorio, fra i quali è compresa una comoda autoambulanza; il fabbricato comprende anche l’officina per le riparazioni, il deposito del carburante e l’alloggio del personale addetto agli autoservizi.
La lavanderia, fornita di acqua abbondantissima e degli apparecchi tecnici più moderni. Vi è annessa una stazione di disinfezione con impianti completi per le disinfezioni generali ed speciali.
La cappella per i servizi religiosi. Nel sottopiano di essa è situata la camera mortuaria.
 Il sanatorio è pure munito dei seguenti servizi generali:
L'acqua potabile derivata da sorgive purissime alla temperatura costante di 7° C. -- convogliata al sanatorio per mezzo di un acquedotto espressamente costruito e distribuita abbondantemente a tutto l’istituto.
Il riscaldamento centrale, a termosifone, esteso a tutti gli edifici del sanatorio.
L'energia elettrica, provveduta da una linea propria, tanto per illuminazione che per forza motrice.
Il telefono; la linea telefonica del sanatorio si innesta alla rete generale della Calabria, mettendo in comunicazione l’istituto con tutta l'Italia.
Alle confortevoli condizioni di soggiorno e di cura offerte dall’istituto, si associano le attrattive dell’incantevole natura che lo circonda. Secolari faggete e giovani abetine fanno da ogni lato corona al sanatorio per vaste estensioni, ove gli ammalati trovano il conforto di comode passeggiate e di soste riposanti. Splendidi panorami ne allietano la vista che per imponenti discese dell’Aspromonte può spaziare sino all'uno ed all'altro mare.
Nel concetto dell’O. N. I. G. il Sanatorio Vittorio Emanuele III sull’Aspromonte vuol essere la testimonianza tangibile dell’attaccamento che l’Opera porta alle popolazioni meridionali. Quest’istituto benefico è il primo che sorge nel Mezzogiorno continentale: presidio poderoso di lotta contro il male e quindi emblema di civiltà, esso si apre tanto ai minorati della guerra come a tutti i malati di petto, che tra le sue pareti ospitali troveranno vigile, saggia e fraterna assistenza.
Attualmente il Sanatorio è da tre anni chiuso per costosi lavori di restauro e trasformazione, a cura dell’I. N. F. P. S.

 MONS. VINCENZO RASCHELLA’, Nuove Luci sul Santuario di Polsi, Pompei, 1938 - XVII



Note:
- Mons. Raschellà a Siderno, dove risiedeva, probabilmente non visionò mai il cinegiornale dell'Istituto LUCE. Oggi il suo testo è diventato il commento ideale a quelle immagini.
- Mons. Giosofatto Mittiga si avvalse di tutte le sue energie ed il suo potere per la costruzione della strada e l'edificazione del Sanatorio, per questo il ricorso al titolo in apertura. Leni Riefenstahl mi è sempre piaciuta come attrice e come regista ed, al di là della retorica e della propaganda nazista, il film citato rimane un esempio di vero cinema, che come ho detto in un post addietro, ha le sue origini in Caligari e Fritz Lang.
- Mons. Giosafatto Mittiga è ormai praticamente ignorato a Platì come don Gesufattinu Trimboli, anche lui per anni alla direzione polsiana, e nessun pezzo di marmo in paese li ricorda.
A polsi Mons. Mittiga gode ancora di questo ricordo ad opera dello scultore Vincenzo Jerace

DA QUESTA TERRAZZA
RICORDO PERENNE
DELL' OPERA RESTAURATRICE
COMPIUTA
DA MONS. GIOSAFATTO MITTIGA
SUPERIORE ZELANTISSIMO
L’EMIN. CARD. FILIPPO GIUSTINI
PREFETTO DELLA CONG. DEI SACRAMENTI
IL GIORNO 2 SETT. 1919
DOPO AVER PRESO POSSESSO DEL SANTUARIO
COME PROTETTORE INSIGNE
IN NOME DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XV
CON COMMOZIONE PATERNA
BENEDICEVA I POPOLI
ACCORSI NUMEROSI
IN QUESTA VALLE
DOVE DAI SECOLI REMOTI
SOVRANA POTENTE
REGNA MARIA


lunedì 24 ottobre 2016

Another Time, Another Place - secondo tempo



Nel 1631, il detto casale fu  visitato da D. Giovanni Mottamaros  che, in sede di visita fiscale, vi eseguì un censimento della popolazione attraverso il registro dei defunti della chiesa si S. Maria di Loreto. Il controllo effettuato porta per porta, (ostiatim) potè accertare la presenza di 80 famiglie e di 210 abitanti. Nel 1642, una « nova numeratio Casalis fundaci, alias Platì », vide decrescere la popolazione a 132 abitanti,dediti, per la maggior parte, alla pastorizia. Oltre a un esiguo gruppo di case, esisteva, allora, un’altra chiesa, nella parte centrale dell'abitato, più « un carcere senza carcerati» ed una sola via di transito.
Durante il terremoto del 5 febbraio 1783, il nuovo centro che contava 1143 abitanti, subì la distruzione di gran parte dei suoi edifici, con 25 vittime e danni considerevoli, per l’ammontare di centomila ducati, in base alle cifre della perizia condotta dalla Giunta di corrispondenza e della Cassa Sacra.
Nel 1861 il territorio di Platì fu teatro di un sanguinoso brigantaggio capeggiato da Ferdinando Mittiga, il quale aveva inquadrato nella sua banda, grosse schiere di contadini renitenti alla leva e di delinquenti comuni, al fine di provocare la reazione contro il nuovo Stato unitario italiano. Tale banda fece credere ai legittimisti di Francia e di Napoli che il Mittiga disponesse di forze ingenti, sicchè fu inviato  il generale spagnolo Josè Borjes, con altri 22 ufficiali, che avevano il compito di galvanizzare le velleità combattive dei banditi.
Ma la spedizione militare dall’esterno non poteva che fallire, ciò che determinò l'uccisione del Mittiga e la fuga del Borjes.  Si concludeva così, tristemente, uno dei tanti episodi del brigantaggio politico, fenomeno non trascurabile della questione meridionale, dalla quale, peraltro, non andavano disgiunte le cause di ordine economico e sociale.
 A distanza di un secolo dall’unità italiana il comune di Platì ha visto il graduale aumento della sua popolazione, nonostante il salasso di due grandi guerre, e la forte spinta migratoria verso il Nord e i rovinosi effetti delle più recenti alluvioni.
L'espansione demografica in atto, accompagnata da vivi fermenti di rinascita, induce alle migliori speranze sull'avvenire economico e civile del Paese, che ha, tra l'altro, un'eccellente posizione geografica, a cavaliere dell' Jonio e del Tirreno.
Antonio Delfino

ALBO D’ONORE

1 Giuseppe Delfino, maresciallo dei carabinieri, ebbe notorietà in Calabria, col nome di « massaro Peppe ››, per le sue brillanti azioni poliziesche. Corrado Alvaro gli dedica una novella, nel libro « L'amata alla finestra ›

2 Giuseppe Fera (vivente), insigne medico e  valoroso combattente, è la persona più rappresentativa della cultura locale aperta, nello stesso tempo, al culto delle lettere e delle scienze.

3 Vincenzo Papalia, medico chirurgo, scrisse alcune opere di carattere scientifico, andate purtroppo disperse. Professionista e filantropo, egli seppe coraggiosamente affrontare le vessazioni dell'odio politico, senza mai rinnegare le sue idee.

4 Agostino Mittiga, avvocato e giornalista, visse a Roma, esercitando l'attività forense, presso la Sacra Rota. Era una delle figure più note nella Capitale, per la sua profonda conoscenza dei problemi giuridici.

5 Francesco Portolesi, professore di chiara fama, latinista rinomato e poeta versatile, pubblicò numerose poesie che trovarono larghi consensi. Più famoso è il libro intitolato: «La luce ››.

6 Giacomo Tassone, agricoltore e poeta umorista, scrisse decine di poesie, già tanto ricercate, e anche oggi non prive di freschezza immaginativa. Letterato ed uomo di profonda cultura, ha lasciato di sè durevole ricordo.

7 Nicola Spadaro, farmacista attivissimo, fu uomo di grandi virtù e chimico esperto.
Con generoso altruismo, egli profuse, intorno a sè, la luce del sapere e della bontà.

Tratto da:
STORIA E CULTURA DELLA LOCRIDE, a cura di G. Calogero, Editrice LA SICILIA Messina, 1964

Note:
-          Saverio Mittica, per l’esattezza Mittiga, sacerdote, professore e scrittore, trascorse buona parte della sua vita lavorando e servendo Dio a Napoli. Egli era fratello di Rocco Mittiga, padre della nonna Lisa. Mentre Giuseppe Fera, sempre alla nonna, veniva cugino per via della mamma, Caterina Fera.
            Agostino Mittiga era cugino del primo Abate Nullius di Polsi, Mons Giosofatto Mittiga.
            Il suo personale albo d’onore il simpatico e lodevole Toto Delfino lo apre e chiude in famiglia: per altro, la sua cronistoria platiota è indiscutibile, illuminante, facendo sorgere l’idea che un tempo, inizialmente, esistessero due comunità in quel territorio, quella di Sancta Barbara e quella che avrebbe dato origine al paese vero e proprio. Su questo può indagare solo Francesco di Raimondo.





SDG





domenica 23 ottobre 2016

Another Time, Another Place (reg. Michael Radford - 1983)

Rimango e vi costringo a sostare ancora nelle pagine del libro citato nelle ultime pubblicazioni. Ci spostiamo a sud- est di Bombile: altra terra, altro passato, altre vicende che ancora non trovano sosta, il nostro paese. 
L’autore non ha bisogno di presentazioni incastonato com'è con la storia del paese che qui ci svela.
Ancora: questo post è dedicato a Giuseppe Barbaro (30 - 09 -1962/20-10 -2016) vittima della pace.
http://www.inaspromonte.it/plati-barbaro-giuseppe-discriminato-vita-morte/

PLATI’



L’etimologia di Platì, secondo la tradizione locale sostenuta anche da Saverio Mittica nel 1878, risale alla voce « prata » (prati), che ha sapore di poesia idillica. Il Moscato, invece, fa derivare il nome del Paese, dall'etimo greco << platus >> (largo, ampio, esteso) da cui sarebbe spiegata anche la topografia della valle. Si tratterebbe, in questo caso, del greco bizantino, anzichè di quello antico, in considerazione del fatto che nell'Aspromonte orientale, ad opera di monaci basiliani, vennero a costituirsi delle fiorenti « grancie ››, che erano altrettanti centri di vita economica e spirituale. Detta tesi è però contrastata dal prof. G. Roholfs che propende per l'origine del nome dal greco antico, più che da quello neo-ellenico. Finalmente, della questione controversa ebbe ad occuparsi anche il prof. Zangari, uno dei cultori più dotti di storia patria, il quale prospetta, invece, un'altra versione, secondo cui la voce << pratos ›› (venduto) starebbe a significare il passaggio del feudo, da un possidente all'altro. In definitiva, per lo studioso sopra citato, il nome di Platì deriverebbe dalla successiva alterazione delle voci « protì ›› e « prati ». 
Lungo i fianchi dell'Aspromonte orientale, si diparte da Monte Scorda, verso il mare Jonio, una dorsale, con pendio prima lieve e poi più ripido, che raggiunge la valle in cui scorre l'impetuoso Careri. Là dove il fiume si contrae in una specie di strozzatura, sorge l'abitato di Plati, la cui origine, stando alle fonti più accreditate, deve farsi risalire al secolo XVI. In quel periodo, mancando ai centri arroccati sui monti, ogni possibilità di espansione demografica, ebbe inizio l'esodo degli abitanti verso le valli, con la conseguente formazione dei primi agglomerati urbani. Tale pressione si accentuò per effetto del rapace fiscalismo che colpiva le famiglie più povere, tassandole per numero di fuochi, e mettendole in condizioni di dover abbandonare i vecchi centri medioevali, già sorti a causa delle incursioni piratesche e della malaria dapprima imperversante nelle zone costiere. Nel 1496 il re Federico d'Aragona concesse al conte Tommaso Marullo ( che aveva già ricevuto l'investitura del feudo di Condojanni e della baronia di Bianco) alcune foreste, riservandosene l'uso, per l'allevamento delle giumente reali. Poi, verso il 1507, Ferdinando il Cattolico rivendeva le foreste allo stesso conte, sotto vincolo di pagamento del canone, alla scadenza di sei anni. Secondo una comparsa anonima feudale, esisteva allora, fra quelle foreste, << quoddam territorum nominatum del Plati et de Sancta Barbara », lo stesso che il re aveva venduto precedentemente (20 febbraio 1505) a don Carlo Spinelli. Da una situazione cosi aggrovigliata, scoppiarono interminabili liti tra il Conte Marullo e don Carlo Spinelli, protrattesi per decenni, e riguardanti la delimitazione dei confini e delle rispettive pertinenze territoriali. Senonchè nel 1517, Carlo V e la regina Giovanna (Carolus et Joanna Reges) confermarono definitivamente, a don Carlo Spinelli, le terre del Fondaco di Platì e di Sancta Barbara. Gli succedette il figlio Pirro Antonio che verso il 1546 fece costruire, nella valle del « flumen Chareria ››, le prime rozze capanne di pastori costituenti il primo nucleo urbano. A Pirro Antonio, fondatore di Platì, tenne dietro, nel 1555, il figlio Carlo, il quale, pagando il relevio, venne investito dei beni paterni, ottenendo, nel 1557, il titolo di duca sullo stesso feudo. Disavventura volle, però, che il crescente sviluppo del nuovo abitato suscitasse le invidie e le gelosie del conte Vincenzo Marullo, nipote di Tommaso e figlio di Giovanni. La contesa si trascinò, così, per alcuni anni, finchè, nel 1568, il sacro regio consiglio non ebbe riconosciuto i diritti a Carlo Spinelli, ratificati ed omologati anche dal conte Marullo, in omaggio alla volontà del sovrano. Nel frattempo (1465) era rimasta erede della contea di Cariati, donna Francesca, figlia di Giovanni Spinelli, la quale, in seguito a dispensa apostolica, potè sposare Scipione, figlio di Carlo e duca di Seminara. Fu lui, difatti, ad assumere, nel 1569, i diritti ereditari sul casale di Motta Platì.
 continua ...                  

    Antonio Delfino

Tratto da:
STORIA E CULTURA DELLA LOCRIDE, a cura di G. Calogero, Editrice LA SICILIA Messina, 1964
          

giovedì 20 ottobre 2016

La vergine della Roccia- alla FINE



Lungo la scalea, si svolge un continuo rosario di gente: ammalati che vengono recati a forza di robuste braccia; devoti che scendono, - molti ginocchioni - recitando le loro preghiere; ragazzi e giovani che la risalgono d'un baleno; nella chiesa, un accalcarsi di gente che canta, che prega, che invoca a gran voce, mentre all'altare si celebrano i divini Misteri; sullo spiazzo, una confusione di gente d'ogni età e d'ogni provenienza; sotto le pareti della roccia, teorie di rivenditori di candele, di oggetti di devozione e di giocattoli, con cui saranno allietati i bambini rimasti a casa, o rivenditori delle caratteristiche ciambelle, impastate di miele e farina. Intanto, squilli a distesa si diffondono all'intorno, dalla campana issata sulla roccia, priva di batacchio, suonata con pezzi di legno o di ferro, o con monete lanciate dai fedeli che qui arrivano per la prima volta, ligi alla credenza, secondo cui chi suona la campana, avrà la ventura di tornare al Santuario, negli anni successivi.
La maggior parte dei pellegrini, sciolti i loro voti, ripercorrono, nello stesso giorno, il cammino che li porta ai loro paesi; molti, pero, trascorrono la notte sul posto, alloggiando presso le ospitali famiglie di Bombile o bivaccando all'aperto, quando il cielo è clemente. Altri intrecciano suoni e danze paesane, o sostano nelle celle e nella chiesa, in fervida attesa del passaggio del carro della Madonna, che, secondo una pia credenza, non manca mai all'appuntamento, nella mezzanotte precisa, tra la vigilia e il giorno della festa. Infatti. a quell'ora -- vuole la leggenda -- si ode, al di sopra della grotta, uno stridio di ruote che, muovendo dalla porta, va a fermarsi dinanzi all'altare: è la Madonna che dà ai suoi fedeli la sensazione quasi fisica, della sua presenza. Ma, checché si voglia pensare di tale tradizione, sta dì fatto che, attraverso i secoli, la Vergine invocata col titolo della Grotta, ha sempre ricompensato la pietà dei suoi fedeli devoti, con grazie e favori celesti.
Il Santuario della Madonna della Grotta di Bombile, con quello della Madonna della Montagna di Polsi, sono le due gemme più fulgide della diocesi di Gerace-Locri; il loro nome è un richiamo di fede profonda, nel cuore delle popolazioni calabresi: D’altro canto, non si può tacere che entrambi i Santuari soggiacciono, tuttora, alle più gravi carenze, per quanto riguarda i mezzi di accesso a quei luoghi così impervi, e provo di qualunque conforto alberghiero.
Se gli Enti pubblici, a cui spetta il compito di provvedere, rivolgessero qui le loro attenzioni; se i loro contributi, uniti alle offerte generose dei fedeli, potessero allargare, con un muraglione, il piazzale della Chiesa, rendendone più comoda la scala a mezzo di normali gradini; se, in una parola, si avesse cura di riparare, periodicamente, le inevitabili ingiurie del tempo e degli uomini, si otterrebbe il risultato inestimabile di vedere infoltito il pellegrinaggio dei fedeli che amano raccogliersi, annualmente ai piedi del celebre Santuario.
ERNESTO GLIOZZI


BIBLIOGRAFIA
A. Oppedisano,  Cronistoria della diocesi di Gerace, Gerace Sup. 1934, pp. 187-91
E. Gliozzi,  Bombile, nella Monografia Ardore, S. Maria C. Vetere, 1905, pap. 55-56
V. De Cristo, Monografia del Santuario di Nostra Signora della Grotta, presso Bombile di Calabria Ultra, Roma 1896
G. B. Zappia,  Il Santuario della Grotta di Bombile in Ardore, Diocesi di Gerace, Padova, 1936, 2 ed. 1940
 Tratto da:
STORIA E CULTURA DELLA LOCRIDE, a cura di G. Calogero, Editrice LA SICILIA Messina, 1964




mercoledì 19 ottobre 2016

La Vergine della Roccia - ancora



Accanto alla chiesa sorgevano alcune piccole grotte naturali in prossimità delle quali altre ne furono scavate, che servirono e servono, tuttora, di abitazione ai custodi del Santuario. Sulla volta di una di esse, la terza a sinistra della chiesa, è scolpita la data 1751, anno in cui anche la grotta della chiesa fu scavata in maggiore profondità e vi fu eretto l'altare di marmo della Madonna; esso reca, alla sommità, un'importante iscrizione da cui si rileva che, sotto il Vescovo Rossi, il lavoro fu eseguito a cura del Can. Del Balzo, con le offerte dei fedeli: Ill . et rmo dno rubeo epo - Deip. Virg. Templum - Collecta a piis fidelibus stipe -Marmoreo sacello ornandum curavit  - Can. Thomas Baucius A. MDCCLI. Quali fossero í fedeli che offrirono il denaro, o che almeno si occuparono di raccoglierlo tra i pochi abitanti, risulta da un'altra iscrizione posta sulla base delle colonne, ai lati dell'altare: Io. Fr. Vincen Morabito - & Vic Antoniusq. Carlino-Cimina (Giov. Franc. Vincenzo e Antonio Carlino da Ciminà).
Alcuni anni più tardi, e precisamente nel 1758, sotto il Vescovo Scoppa, il Rettore del Seminario, Can. Stefano Piteri, con l'aiuto del Parroco Francesco Antonio Oppedisano, sempre con le oblazioni dei fedeli, abbellì la facciata, ornandola di portale in pietra con due belle colonne. Al disopra della porta si le legge la scritta:
D. O- M – Dip. Virg. Templi frontem –Pet. Dom. Scoppa epo sedente – Steph. Can. Piterius seminarii rector – et Par. Franc. Ant. Oppedisano Proc. – (CO) LL. Eleem. Ornam. Curavit – (A) P. MDCCLVIII.
Poiché la parete della roccia è a picco, e il punto dove sorge il Santuario è circa cento metri sotto il livello dell'abitato di Bombile, per arrivarvi e necessario percorrere, non senza difficoltà, una ripida scalea di centoventi gradini, alti dai quaranta ai cinquanta centimetri. Scendendo, verso l'interno della Grotta, si può ammirare la meravigliosa opera compiuta dall'acqua piovana che scorre lungo la pendice: il molle tufo si è lasciato foggiare, quasi ricamare, attraverso i secoli, dall'acqua che scende lenta dall'alto e sembra vederlo ricoperto di un tenue merletto, dalla sommità alla base.
Della chiesa, all'esterno, non si vede che la facciata, ben rifinita, adorna di tre finestre che lasciano filtrare un'abbondante luce all'interno; quasi si stenta a credere che dietro quella facciata vi possa essere, ricavato nella roccia, un ambiente capace di contenere comodamente trecento persone. Appunto in ciò sta la caratteristica di questo Santuario, a cui accorrono i fedeli da quasi tutti i paesi della Locride e della Piana di Gioia.
Varcata la soglia, si dimentica di essere nelle viscere di una roccia; l'interno è ben adornato nelle pareti e nel soffitto, tutto ad arco gotico su cui grandeggia il magnifico altare intarsiato in marmo policromo.
La Pianta della chiesa e a croce greca, poiché a destra e a sinistra, nell’anno 1891, il Parroco Domenico Morabito, bombi lese che prodigò tutte le sue 'energie nell'abbellire ed ingrandire il Santuario, fece scavare due cappelle di cui una dedicata al Crocefisso, l'altra, all'Addolorata.
L'areazione è sufficientemente assicurata da un’ intercapedine che corre tra le mura della chiesa e la grotta.  
Pregevolissima è la statua della Vergine, di aspetto maestoso, che tiene in braccio il Bambino benedicente, il quale, a sua volta, tiene nella mano sinistra, una colomba. Il viso ovale, perfetto, la delicatezza delle mani, l'ampio manto regale, con le sue volute che sbalzano al naturale, dal duro marmo, lo sguardo materno della Vergine, il portamento semplice e magnifico, ad un tempo, del Divino Infante, che posa con straordinaria naturalezza sul fianco della Madre, tutto concorre a fare, di questa statua, un capolavoro e ad infondere, nel cuore dei fedeli, un sentimento mistico di pietà e di devozione, al quale non si può resistere.
Qui, ai piedi di questo Simulacro, da quattro secoli accorre, nel periodo della festa, che si celebra il 3 Maggio, e in tutti i sabati dello stesso mese, una moltitudine innumerevole di fedeli.
continua ...                                          

ERNESTO GLIOZZI il giovane   

Tratto da:
STORIA E CULTURA DELLA LOCRIDE, a cura di G. Calogero, Editrice LA SICILIA Messina, 1964