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giovedì 27 ottobre 2016

Catene (reg. Raffaello Matarazzo - 1949)




Miceli Pasquale, di Francesco ed Elisabetta Catanzariti, di Platì (Reggio), nato nel 1804, vaticale*.
Condannato a 19 anni di ferri dalla Gran Corte Speciale di Reggio il 20 dicembre 1851, per discorsi in luoghi pubblici provocanti direttamente gli abitanti ad armarsi, ma senza effetto.
Ricevuto a Nisida il 24 luglio 1852. Trasferito a Procida 15 giorni dopo. Con un r. decreto del 26 ottobre 1858 la pena diminuita di 4 anni. Il 6 luglio 1859 in Darsena e quindi liberato per effetto del r. decreto del 16 giugno precedente.
Fu processato con altri sei, fra i quali una donna, Rosa Miceli, ma per questi la Corte dichiarò abolita l’azione penale.
Al Sessanta fu nominato sindaco di Platì, e si adoperò a estirpare il brigantaggio. Mittiga con la sua numerosa banda gl’impedì per 3 mesi di uscire dall’abitato, e, quando venne il giorno dell’assalto Pasquale Miceli si batté personalmente con lui. Arrestò il brigante Domenico Carbone, e fece che si costituissero Jermanno e i fratelli Bisbanco.


  
La galera di Procida era la più vasta dei luoghi di pena dei dintorni di Napoli e le facevano corona quelle di Nisida e d’Ischia e l’ergastolo di Santo Stefano.

Monaco Attilio,  I galeotti politici napoletani dopo il Quarantotto, Libreria internazionale Treves-Treccani-Tumminelli, Roma, 1932

Note:
* mulattiere
- Leggendo le pagine dell’Attilio oritano, si viene a conoscenza che la Siberia era nel Golfo di   Napoli per i rivoluzionari del Regno delle Due Sicilie. 






mercoledì 26 ottobre 2016

Il trionfo della volontà (reg. Leni Riefenstahl - 1935)


Per andare a Polsi, tanto dal versante del Jonio come da quello del Tirreno, si percorre per lungo tratto l’antica via Consolare o Traiana, che mette capo a Montalto, la più alta vetta della Calabria, esistente nel territorio della diocesi di Gerace, a 1950 m. sul livello del mare.
Oggi vi si può arrivare in automobile fino al Sanatorio, e quindi restano tre buone ore di strada mulattiera, giungendo a 1900 m. sul mare, alla contrada detta Cerasara e scendendo per giungere alla Valle prodigiosa, che resta a 900 m. sul livello del mare, ai piedi del gigantesco Montalto.
È precisamente il lungo tratto che Mons. Mittiga aveva sognato di trasformare in via carrozzabile, sogno che con molta probabilità avrebbe realizzato se gli amici, che lo circondavano, fossero stati sempre sinceri. Viceversa, il sogno ardito e geniale ha segnato l’inizio di una dolorosa odissea, culminata con la incompatibilità dell’alta carica di Superiore di quel Santuario, ove pure aveva tanto lavorato.

La posa della prima pietra del Sanatorio pei tubercolotici di guerra ad Acqua del Faggio è avvenuta ai primi di settembre 1923, presente il Vescovo Giov. Battista Chiappe che ha eseguitola benedizione di rito, il Prefetto della Provincia, comm. Nobile, il dott. Mannarella del Comitato Centrale dell’Associazione Mutilati, il dott. Capua rappresentante la Croce Rossa, l’Ing. Pirrello con una eletta schiera di professionisti e di quasi tutti i Sindaci dei Comuni più vicini. È stato quello un giorno memorando che segnava l’inizio di una  imponente costruzione sorta per merito del Regime Fascista.
 Il Sanatorio dedicato al Re Vittorioso, è stato solennemente inaugurato il 28 Ottobre 1929 con l’intervento di S. A. R. il Duca di Bergamo, di S. E. l’On. Manaresi, Sottosegretario alla Guerra, presente il Comm. Birelli in rappresentanza della Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Prefetto di Reggio Calabria ed i Rappresentanti dei Prefetti di Cosenza e di Catanzaro e molte altre Personalità del Senato, della Camera, dell’Esercito, della Federazione Fascista ed ella Milizia V. S. N. con molti Professori di Università. La cerimonia si è svolta preceduta dalla benedizione impartita dall’Arcivescovo di Reggio Calabria, Mons. Carmelo Pujia.
Il Sanatorio consta dei seguenti fabbricati:
Il padiglione dei servizi generali. -- È composto d’un corpo centrale unito a due laterali da due ampie gallerie d’accesso, fabbricato su due piani e provveduto di locali sotterranei. Il piano terreno del corpo centrale è destinato agli uffici di direzione ed'amministrazione ed alla accettazione degli ammalati; il
primo piano comprende gli alloggi del personale amministrativo. Nelle due ali sono sistemati gli alloggi per le suore e l’altro personale d’assistenza e di servizio, maschile e femminile.
La cucina e la sala da pranzo. -- Il fabbricato della cucina è retrostante al precedente. Costruito con ogni ampiezze vi trovano posto tutti i servizi per la preparazione degli alimenti, le operazioni di lavaggio e di disinfezione delle stoviglie, un frigorifero Frigidaire, e numerosi locali per dispensa e deposito. La cucina
ha diretta comunicazione con la sala da pranzo, spaziosa, bene illuminata, aereata e riscaldata, a sezione semicircolare.
I padiglioni per gli ammalati. - Sono in numero di due ed hanno la capacità complessiva di circa 170 ammalati. La loro orientazione verso Mezzogiorno assicura ad essi il massimo dell’insolazione.
I due padiglioni sono identici: ciascuno è costruito su due piani con un corpo centrale e due ali che si concordano con esso ad arco di cerchio; nella parte frontale dei padiglioni sono distribuite le camere degli ammalati - a due letti con doppio lavabo ad acqua corrente calda e fredda e pavimento rivestito di linoleum - e le spaziose verande di cura. Inoltre ogni padiglione possiede due sale di riunione, una camera da bagno con quattro vasche, un servizio medico-chirurgico con sale di medicazione ed operazione, gabinetti per indagini chimiche, batteriologiche e microscopiche, gabinetto di radioscopia e radiologia, locali per disinfezione, cucina, guardaroba, magazzini ecc.
Oltre gli edifici ora descritti sono da noverarsi:
L'abitazione dei medici, villino che sorge nelle adiacenze immediate del sanatorio.
La autorimessa, per i veicoli in servizio del sanatorio, fra i quali è compresa una comoda autoambulanza; il fabbricato comprende anche l’officina per le riparazioni, il deposito del carburante e l’alloggio del personale addetto agli autoservizi.
La lavanderia, fornita di acqua abbondantissima e degli apparecchi tecnici più moderni. Vi è annessa una stazione di disinfezione con impianti completi per le disinfezioni generali ed speciali.
La cappella per i servizi religiosi. Nel sottopiano di essa è situata la camera mortuaria.
 Il sanatorio è pure munito dei seguenti servizi generali:
L'acqua potabile derivata da sorgive purissime alla temperatura costante di 7° C. -- convogliata al sanatorio per mezzo di un acquedotto espressamente costruito e distribuita abbondantemente a tutto l’istituto.
Il riscaldamento centrale, a termosifone, esteso a tutti gli edifici del sanatorio.
L'energia elettrica, provveduta da una linea propria, tanto per illuminazione che per forza motrice.
Il telefono; la linea telefonica del sanatorio si innesta alla rete generale della Calabria, mettendo in comunicazione l’istituto con tutta l'Italia.
Alle confortevoli condizioni di soggiorno e di cura offerte dall’istituto, si associano le attrattive dell’incantevole natura che lo circonda. Secolari faggete e giovani abetine fanno da ogni lato corona al sanatorio per vaste estensioni, ove gli ammalati trovano il conforto di comode passeggiate e di soste riposanti. Splendidi panorami ne allietano la vista che per imponenti discese dell’Aspromonte può spaziare sino all'uno ed all'altro mare.
Nel concetto dell’O. N. I. G. il Sanatorio Vittorio Emanuele III sull’Aspromonte vuol essere la testimonianza tangibile dell’attaccamento che l’Opera porta alle popolazioni meridionali. Quest’istituto benefico è il primo che sorge nel Mezzogiorno continentale: presidio poderoso di lotta contro il male e quindi emblema di civiltà, esso si apre tanto ai minorati della guerra come a tutti i malati di petto, che tra le sue pareti ospitali troveranno vigile, saggia e fraterna assistenza.
Attualmente il Sanatorio è da tre anni chiuso per costosi lavori di restauro e trasformazione, a cura dell’I. N. F. P. S.

 MONS. VINCENZO RASCHELLA’, Nuove Luci sul Santuario di Polsi, Pompei, 1938 - XVII



Note:
- Mons. Raschellà a Siderno, dove risiedeva, probabilmente non visionò mai il cinegiornale dell'Istituto LUCE. Oggi il suo testo è diventato il commento ideale a quelle immagini.
- Mons. Giosofatto Mittiga si avvalse di tutte le sue energie ed il suo potere per la costruzione della strada e l'edificazione del Sanatorio, per questo il ricorso al titolo in apertura. Leni Riefenstahl mi è sempre piaciuta come attrice e come regista ed, al di là della retorica e della propaganda nazista, il film citato rimane un esempio di vero cinema, che come ho detto in un post addietro, ha le sue origini in Caligari e Fritz Lang.
- Mons. Giosafatto Mittiga è ormai praticamente ignorato a Platì come don Gesufattinu Trimboli, anche lui per anni alla direzione polsiana, e nessun pezzo di marmo in paese li ricorda.
A polsi Mons. Mittiga gode ancora di questo ricordo ad opera dello scultore Vincenzo Jerace

DA QUESTA TERRAZZA
RICORDO PERENNE
DELL' OPERA RESTAURATRICE
COMPIUTA
DA MONS. GIOSAFATTO MITTIGA
SUPERIORE ZELANTISSIMO
L’EMIN. CARD. FILIPPO GIUSTINI
PREFETTO DELLA CONG. DEI SACRAMENTI
IL GIORNO 2 SETT. 1919
DOPO AVER PRESO POSSESSO DEL SANTUARIO
COME PROTETTORE INSIGNE
IN NOME DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XV
CON COMMOZIONE PATERNA
BENEDICEVA I POPOLI
ACCORSI NUMEROSI
IN QUESTA VALLE
DOVE DAI SECOLI REMOTI
SOVRANA POTENTE
REGNA MARIA


lunedì 24 ottobre 2016

Another Time, Another Place - secondo tempo



Nel 1631, il detto casale fu  visitato da D. Giovanni Mottamaros  che, in sede di visita fiscale, vi eseguì un censimento della popolazione attraverso il registro dei defunti della chiesa si S. Maria di Loreto. Il controllo effettuato porta per porta, (ostiatim) potè accertare la presenza di 80 famiglie e di 210 abitanti. Nel 1642, una « nova numeratio Casalis fundaci, alias Platì », vide decrescere la popolazione a 132 abitanti,dediti, per la maggior parte, alla pastorizia. Oltre a un esiguo gruppo di case, esisteva, allora, un’altra chiesa, nella parte centrale dell'abitato, più « un carcere senza carcerati» ed una sola via di transito.
Durante il terremoto del 5 febbraio 1783, il nuovo centro che contava 1143 abitanti, subì la distruzione di gran parte dei suoi edifici, con 25 vittime e danni considerevoli, per l’ammontare di centomila ducati, in base alle cifre della perizia condotta dalla Giunta di corrispondenza e della Cassa Sacra.
Nel 1861 il territorio di Platì fu teatro di un sanguinoso brigantaggio capeggiato da Ferdinando Mittiga, il quale aveva inquadrato nella sua banda, grosse schiere di contadini renitenti alla leva e di delinquenti comuni, al fine di provocare la reazione contro il nuovo Stato unitario italiano. Tale banda fece credere ai legittimisti di Francia e di Napoli che il Mittiga disponesse di forze ingenti, sicchè fu inviato  il generale spagnolo Josè Borjes, con altri 22 ufficiali, che avevano il compito di galvanizzare le velleità combattive dei banditi.
Ma la spedizione militare dall’esterno non poteva che fallire, ciò che determinò l'uccisione del Mittiga e la fuga del Borjes.  Si concludeva così, tristemente, uno dei tanti episodi del brigantaggio politico, fenomeno non trascurabile della questione meridionale, dalla quale, peraltro, non andavano disgiunte le cause di ordine economico e sociale.
 A distanza di un secolo dall’unità italiana il comune di Platì ha visto il graduale aumento della sua popolazione, nonostante il salasso di due grandi guerre, e la forte spinta migratoria verso il Nord e i rovinosi effetti delle più recenti alluvioni.
L'espansione demografica in atto, accompagnata da vivi fermenti di rinascita, induce alle migliori speranze sull'avvenire economico e civile del Paese, che ha, tra l'altro, un'eccellente posizione geografica, a cavaliere dell' Jonio e del Tirreno.
Antonio Delfino

ALBO D’ONORE

1 Giuseppe Delfino, maresciallo dei carabinieri, ebbe notorietà in Calabria, col nome di « massaro Peppe ››, per le sue brillanti azioni poliziesche. Corrado Alvaro gli dedica una novella, nel libro « L'amata alla finestra ›

2 Giuseppe Fera (vivente), insigne medico e  valoroso combattente, è la persona più rappresentativa della cultura locale aperta, nello stesso tempo, al culto delle lettere e delle scienze.

3 Vincenzo Papalia, medico chirurgo, scrisse alcune opere di carattere scientifico, andate purtroppo disperse. Professionista e filantropo, egli seppe coraggiosamente affrontare le vessazioni dell'odio politico, senza mai rinnegare le sue idee.

4 Agostino Mittiga, avvocato e giornalista, visse a Roma, esercitando l'attività forense, presso la Sacra Rota. Era una delle figure più note nella Capitale, per la sua profonda conoscenza dei problemi giuridici.

5 Francesco Portolesi, professore di chiara fama, latinista rinomato e poeta versatile, pubblicò numerose poesie che trovarono larghi consensi. Più famoso è il libro intitolato: «La luce ››.

6 Giacomo Tassone, agricoltore e poeta umorista, scrisse decine di poesie, già tanto ricercate, e anche oggi non prive di freschezza immaginativa. Letterato ed uomo di profonda cultura, ha lasciato di sè durevole ricordo.

7 Nicola Spadaro, farmacista attivissimo, fu uomo di grandi virtù e chimico esperto.
Con generoso altruismo, egli profuse, intorno a sè, la luce del sapere e della bontà.

Tratto da:
STORIA E CULTURA DELLA LOCRIDE, a cura di G. Calogero, Editrice LA SICILIA Messina, 1964

Note:
-          Saverio Mittica, per l’esattezza Mittiga, sacerdote, professore e scrittore, trascorse buona parte della sua vita lavorando e servendo Dio a Napoli. Egli era fratello di Rocco Mittiga, padre della nonna Lisa. Mentre Giuseppe Fera, sempre alla nonna, veniva cugino per via della mamma, Caterina Fera.
            Agostino Mittiga era cugino del primo Abate Nullius di Polsi, Mons Giosofatto Mittiga.
            Il suo personale albo d’onore il simpatico e lodevole Toto Delfino lo apre e chiude in famiglia: per altro, la sua cronistoria platiota è indiscutibile, illuminante, facendo sorgere l’idea che un tempo, inizialmente, esistessero due comunità in quel territorio, quella di Sancta Barbara e quella che avrebbe dato origine al paese vero e proprio. Su questo può indagare solo Francesco di Raimondo.





SDG





domenica 23 ottobre 2016

Another Time, Another Place (reg. Michael Radford - 1983)

Rimango e vi costringo a sostare ancora nelle pagine del libro citato nelle ultime pubblicazioni. Ci spostiamo a sud- est di Bombile: altra terra, altro passato, altre vicende che ancora non trovano sosta, il nostro paese. 
L’autore non ha bisogno di presentazioni incastonato com'è con la storia del paese che qui ci svela.
Ancora: questo post è dedicato a Giuseppe Barbaro (30 - 09 -1962/20-10 -2016) vittima della pace.
http://www.inaspromonte.it/plati-barbaro-giuseppe-discriminato-vita-morte/

PLATI’



L’etimologia di Platì, secondo la tradizione locale sostenuta anche da Saverio Mittica nel 1878, risale alla voce « prata » (prati), che ha sapore di poesia idillica. Il Moscato, invece, fa derivare il nome del Paese, dall'etimo greco << platus >> (largo, ampio, esteso) da cui sarebbe spiegata anche la topografia della valle. Si tratterebbe, in questo caso, del greco bizantino, anzichè di quello antico, in considerazione del fatto che nell'Aspromonte orientale, ad opera di monaci basiliani, vennero a costituirsi delle fiorenti « grancie ››, che erano altrettanti centri di vita economica e spirituale. Detta tesi è però contrastata dal prof. G. Roholfs che propende per l'origine del nome dal greco antico, più che da quello neo-ellenico. Finalmente, della questione controversa ebbe ad occuparsi anche il prof. Zangari, uno dei cultori più dotti di storia patria, il quale prospetta, invece, un'altra versione, secondo cui la voce << pratos ›› (venduto) starebbe a significare il passaggio del feudo, da un possidente all'altro. In definitiva, per lo studioso sopra citato, il nome di Platì deriverebbe dalla successiva alterazione delle voci « protì ›› e « prati ». 
Lungo i fianchi dell'Aspromonte orientale, si diparte da Monte Scorda, verso il mare Jonio, una dorsale, con pendio prima lieve e poi più ripido, che raggiunge la valle in cui scorre l'impetuoso Careri. Là dove il fiume si contrae in una specie di strozzatura, sorge l'abitato di Plati, la cui origine, stando alle fonti più accreditate, deve farsi risalire al secolo XVI. In quel periodo, mancando ai centri arroccati sui monti, ogni possibilità di espansione demografica, ebbe inizio l'esodo degli abitanti verso le valli, con la conseguente formazione dei primi agglomerati urbani. Tale pressione si accentuò per effetto del rapace fiscalismo che colpiva le famiglie più povere, tassandole per numero di fuochi, e mettendole in condizioni di dover abbandonare i vecchi centri medioevali, già sorti a causa delle incursioni piratesche e della malaria dapprima imperversante nelle zone costiere. Nel 1496 il re Federico d'Aragona concesse al conte Tommaso Marullo ( che aveva già ricevuto l'investitura del feudo di Condojanni e della baronia di Bianco) alcune foreste, riservandosene l'uso, per l'allevamento delle giumente reali. Poi, verso il 1507, Ferdinando il Cattolico rivendeva le foreste allo stesso conte, sotto vincolo di pagamento del canone, alla scadenza di sei anni. Secondo una comparsa anonima feudale, esisteva allora, fra quelle foreste, << quoddam territorum nominatum del Plati et de Sancta Barbara », lo stesso che il re aveva venduto precedentemente (20 febbraio 1505) a don Carlo Spinelli. Da una situazione cosi aggrovigliata, scoppiarono interminabili liti tra il Conte Marullo e don Carlo Spinelli, protrattesi per decenni, e riguardanti la delimitazione dei confini e delle rispettive pertinenze territoriali. Senonchè nel 1517, Carlo V e la regina Giovanna (Carolus et Joanna Reges) confermarono definitivamente, a don Carlo Spinelli, le terre del Fondaco di Platì e di Sancta Barbara. Gli succedette il figlio Pirro Antonio che verso il 1546 fece costruire, nella valle del « flumen Chareria ››, le prime rozze capanne di pastori costituenti il primo nucleo urbano. A Pirro Antonio, fondatore di Platì, tenne dietro, nel 1555, il figlio Carlo, il quale, pagando il relevio, venne investito dei beni paterni, ottenendo, nel 1557, il titolo di duca sullo stesso feudo. Disavventura volle, però, che il crescente sviluppo del nuovo abitato suscitasse le invidie e le gelosie del conte Vincenzo Marullo, nipote di Tommaso e figlio di Giovanni. La contesa si trascinò, così, per alcuni anni, finchè, nel 1568, il sacro regio consiglio non ebbe riconosciuto i diritti a Carlo Spinelli, ratificati ed omologati anche dal conte Marullo, in omaggio alla volontà del sovrano. Nel frattempo (1465) era rimasta erede della contea di Cariati, donna Francesca, figlia di Giovanni Spinelli, la quale, in seguito a dispensa apostolica, potè sposare Scipione, figlio di Carlo e duca di Seminara. Fu lui, difatti, ad assumere, nel 1569, i diritti ereditari sul casale di Motta Platì.
 continua ...                  

    Antonio Delfino

Tratto da:
STORIA E CULTURA DELLA LOCRIDE, a cura di G. Calogero, Editrice LA SICILIA Messina, 1964
          

giovedì 20 ottobre 2016

La vergine della Roccia- alla FINE



Lungo la scalea, si svolge un continuo rosario di gente: ammalati che vengono recati a forza di robuste braccia; devoti che scendono, - molti ginocchioni - recitando le loro preghiere; ragazzi e giovani che la risalgono d'un baleno; nella chiesa, un accalcarsi di gente che canta, che prega, che invoca a gran voce, mentre all'altare si celebrano i divini Misteri; sullo spiazzo, una confusione di gente d'ogni età e d'ogni provenienza; sotto le pareti della roccia, teorie di rivenditori di candele, di oggetti di devozione e di giocattoli, con cui saranno allietati i bambini rimasti a casa, o rivenditori delle caratteristiche ciambelle, impastate di miele e farina. Intanto, squilli a distesa si diffondono all'intorno, dalla campana issata sulla roccia, priva di batacchio, suonata con pezzi di legno o di ferro, o con monete lanciate dai fedeli che qui arrivano per la prima volta, ligi alla credenza, secondo cui chi suona la campana, avrà la ventura di tornare al Santuario, negli anni successivi.
La maggior parte dei pellegrini, sciolti i loro voti, ripercorrono, nello stesso giorno, il cammino che li porta ai loro paesi; molti, pero, trascorrono la notte sul posto, alloggiando presso le ospitali famiglie di Bombile o bivaccando all'aperto, quando il cielo è clemente. Altri intrecciano suoni e danze paesane, o sostano nelle celle e nella chiesa, in fervida attesa del passaggio del carro della Madonna, che, secondo una pia credenza, non manca mai all'appuntamento, nella mezzanotte precisa, tra la vigilia e il giorno della festa. Infatti. a quell'ora -- vuole la leggenda -- si ode, al di sopra della grotta, uno stridio di ruote che, muovendo dalla porta, va a fermarsi dinanzi all'altare: è la Madonna che dà ai suoi fedeli la sensazione quasi fisica, della sua presenza. Ma, checché si voglia pensare di tale tradizione, sta dì fatto che, attraverso i secoli, la Vergine invocata col titolo della Grotta, ha sempre ricompensato la pietà dei suoi fedeli devoti, con grazie e favori celesti.
Il Santuario della Madonna della Grotta di Bombile, con quello della Madonna della Montagna di Polsi, sono le due gemme più fulgide della diocesi di Gerace-Locri; il loro nome è un richiamo di fede profonda, nel cuore delle popolazioni calabresi: D’altro canto, non si può tacere che entrambi i Santuari soggiacciono, tuttora, alle più gravi carenze, per quanto riguarda i mezzi di accesso a quei luoghi così impervi, e provo di qualunque conforto alberghiero.
Se gli Enti pubblici, a cui spetta il compito di provvedere, rivolgessero qui le loro attenzioni; se i loro contributi, uniti alle offerte generose dei fedeli, potessero allargare, con un muraglione, il piazzale della Chiesa, rendendone più comoda la scala a mezzo di normali gradini; se, in una parola, si avesse cura di riparare, periodicamente, le inevitabili ingiurie del tempo e degli uomini, si otterrebbe il risultato inestimabile di vedere infoltito il pellegrinaggio dei fedeli che amano raccogliersi, annualmente ai piedi del celebre Santuario.
ERNESTO GLIOZZI


BIBLIOGRAFIA
A. Oppedisano,  Cronistoria della diocesi di Gerace, Gerace Sup. 1934, pp. 187-91
E. Gliozzi,  Bombile, nella Monografia Ardore, S. Maria C. Vetere, 1905, pap. 55-56
V. De Cristo, Monografia del Santuario di Nostra Signora della Grotta, presso Bombile di Calabria Ultra, Roma 1896
G. B. Zappia,  Il Santuario della Grotta di Bombile in Ardore, Diocesi di Gerace, Padova, 1936, 2 ed. 1940
 Tratto da:
STORIA E CULTURA DELLA LOCRIDE, a cura di G. Calogero, Editrice LA SICILIA Messina, 1964




mercoledì 19 ottobre 2016

La Vergine della Roccia - ancora



Accanto alla chiesa sorgevano alcune piccole grotte naturali in prossimità delle quali altre ne furono scavate, che servirono e servono, tuttora, di abitazione ai custodi del Santuario. Sulla volta di una di esse, la terza a sinistra della chiesa, è scolpita la data 1751, anno in cui anche la grotta della chiesa fu scavata in maggiore profondità e vi fu eretto l'altare di marmo della Madonna; esso reca, alla sommità, un'importante iscrizione da cui si rileva che, sotto il Vescovo Rossi, il lavoro fu eseguito a cura del Can. Del Balzo, con le offerte dei fedeli: Ill . et rmo dno rubeo epo - Deip. Virg. Templum - Collecta a piis fidelibus stipe -Marmoreo sacello ornandum curavit  - Can. Thomas Baucius A. MDCCLI. Quali fossero í fedeli che offrirono il denaro, o che almeno si occuparono di raccoglierlo tra i pochi abitanti, risulta da un'altra iscrizione posta sulla base delle colonne, ai lati dell'altare: Io. Fr. Vincen Morabito - & Vic Antoniusq. Carlino-Cimina (Giov. Franc. Vincenzo e Antonio Carlino da Ciminà).
Alcuni anni più tardi, e precisamente nel 1758, sotto il Vescovo Scoppa, il Rettore del Seminario, Can. Stefano Piteri, con l'aiuto del Parroco Francesco Antonio Oppedisano, sempre con le oblazioni dei fedeli, abbellì la facciata, ornandola di portale in pietra con due belle colonne. Al disopra della porta si le legge la scritta:
D. O- M – Dip. Virg. Templi frontem –Pet. Dom. Scoppa epo sedente – Steph. Can. Piterius seminarii rector – et Par. Franc. Ant. Oppedisano Proc. – (CO) LL. Eleem. Ornam. Curavit – (A) P. MDCCLVIII.
Poiché la parete della roccia è a picco, e il punto dove sorge il Santuario è circa cento metri sotto il livello dell'abitato di Bombile, per arrivarvi e necessario percorrere, non senza difficoltà, una ripida scalea di centoventi gradini, alti dai quaranta ai cinquanta centimetri. Scendendo, verso l'interno della Grotta, si può ammirare la meravigliosa opera compiuta dall'acqua piovana che scorre lungo la pendice: il molle tufo si è lasciato foggiare, quasi ricamare, attraverso i secoli, dall'acqua che scende lenta dall'alto e sembra vederlo ricoperto di un tenue merletto, dalla sommità alla base.
Della chiesa, all'esterno, non si vede che la facciata, ben rifinita, adorna di tre finestre che lasciano filtrare un'abbondante luce all'interno; quasi si stenta a credere che dietro quella facciata vi possa essere, ricavato nella roccia, un ambiente capace di contenere comodamente trecento persone. Appunto in ciò sta la caratteristica di questo Santuario, a cui accorrono i fedeli da quasi tutti i paesi della Locride e della Piana di Gioia.
Varcata la soglia, si dimentica di essere nelle viscere di una roccia; l'interno è ben adornato nelle pareti e nel soffitto, tutto ad arco gotico su cui grandeggia il magnifico altare intarsiato in marmo policromo.
La Pianta della chiesa e a croce greca, poiché a destra e a sinistra, nell’anno 1891, il Parroco Domenico Morabito, bombi lese che prodigò tutte le sue 'energie nell'abbellire ed ingrandire il Santuario, fece scavare due cappelle di cui una dedicata al Crocefisso, l'altra, all'Addolorata.
L'areazione è sufficientemente assicurata da un’ intercapedine che corre tra le mura della chiesa e la grotta.  
Pregevolissima è la statua della Vergine, di aspetto maestoso, che tiene in braccio il Bambino benedicente, il quale, a sua volta, tiene nella mano sinistra, una colomba. Il viso ovale, perfetto, la delicatezza delle mani, l'ampio manto regale, con le sue volute che sbalzano al naturale, dal duro marmo, lo sguardo materno della Vergine, il portamento semplice e magnifico, ad un tempo, del Divino Infante, che posa con straordinaria naturalezza sul fianco della Madre, tutto concorre a fare, di questa statua, un capolavoro e ad infondere, nel cuore dei fedeli, un sentimento mistico di pietà e di devozione, al quale non si può resistere.
Qui, ai piedi di questo Simulacro, da quattro secoli accorre, nel periodo della festa, che si celebra il 3 Maggio, e in tutti i sabati dello stesso mese, una moltitudine innumerevole di fedeli.
continua ...                                          

ERNESTO GLIOZZI il giovane   

Tratto da:
STORIA E CULTURA DELLA LOCRIDE, a cura di G. Calogero, Editrice LA SICILIA Messina, 1964


lunedì 17 ottobre 2016

La Vergine della Roccia (reg. Georges Pallu - 1934)

E' di questi ultimi tempi la notizia secondo la quale si intende mettere mano, per farlo risorgere, al Santuario di Bombile. Per quanti - studiosi, ingegneri, giornalisti aspromontani, lettori curiosi, prossimi architetti a Reggio impegnati a fare rilievi, ma soprattutto per i platioti devoti di quel luogo di culto - ecco un bel testo dello zio Ernesto il giovane. Il libro che lo contiene era da me considerato irrevocabilmente perduto, causa l'esodo familiare. Invece ... 
invece è custodito con cura gelosa da Bettina. Io la ringrazio e vi invito ad esserLe grati per averlo riportato alla luce.


IL SANTUARIO DELLA GROTTA DI BOMBILE

Bombile sorge su uno di quegli Schienali che, alle falde dell'Aspromonte, declinano, a linee quasi parallele, verso il mare, aprendosi in una piccola, ma ubertosa pianura, piantata di aranci e di ulivi, che erano l'anfiteatro dell'antica Locri.
Dai fianchi di detti schienali, nettamente divisi l'uno dall'altro, da torrenti e fiumare, si affacciano, sul mare, cittadine e contrade ridenti: Patarriti, Portigliola, S. Ilario, Condojanni, Bovalino. Bombile, a differenza degli altri abitati, sorge proprio nel punto in cui lo schienale sul quale si adagia, come nido d'uccello, discende bruscamente a picco, dal lato Nord, su un torrentello che si va a perdere nella fiumara dl Condojanni, e specialmente  dal lato Ovest e Sud-Ovest, sul vallone della Grotta o Ciccia, anch’esso affluente della fiumara di Condojanni. L’abitato è così piccolo, che appena si intravede dalla zona costiera, da cui dista non più di cinque chilometri; conta 650 anime ed è una frazione del Comune di Ardore nella cui amministrazione ha
due consiglieri.
Vi si accedeva, fino a pochi anni or sono per una mulattiera tortuosa ed irta di sassi, che serpeggiava lungo la collina, fino a raggiungere i duecento sessanta metri di altezza, su cui è situato il paesetto; ora, invece, è in funzione una rotabile, comoda ma non ancora rifinita, che lascia la statale 106 Jonica, all'altezza di Km.91 e 800 metri. Tale rotabile attraversa, nel primo tratto di due chilometri, la fiorente pianura della Marina di Ardore; poi, negli ultimi tre chilometri, si inerpica, alquanto ripida, per vari tornanti, da cui magnifico si slarga, tutt'intorno, l'orizzonte: dapprima è Condojanni, con la sua torre quadrata, ultimo residuo di un antico castello; più in su, Ciminà, distesa su una giogaia, come un panno messo ad asciugare al sole; da una parte e dall'altra della strada, si allineano, a perdita d'occhio, ulivi verdeggianti e mandorli, aranci e querce secolari, mentre l'aria è profumata dagli effluvi delle erbe odorose, dei mentastri, delle nepitelle, della ginestra e della camomilla che vi cresce abbondante.
Nei tempi trascorsi, non era difficile scorgere, nei cavi tronchi degli alberi, sciami di api ronzanti intorno al loro alveare, tanto da giustificare in pieno il nome di Bombíle, che si vuole derivato dal greco, e che significa appunto, « ape ronzante ››.
Oscure ed incerte sono le origini del paese, sebbene lo stile delle dimore più antiche, la foggia delle stradette, i ruderi di antiche abitazioni che ancora affiorano dal terreno, assegnino a Bombile, un'origine molto antica, mentre il sito dove sorge l'abitato fa supporre che esso sia stato rifugio contro le incursioni dei Mussulmani di Sicilia, che, nel secolo X d.C., devastarono e distrussero la città di Locri, costringendo i suoi abitanti a rifugiarsi sulle alture circostanti, dove fondarono, intorno a Gerace, discendente diretta di Locri, numerosi altri centri abitati di varia importanza, come Condojanni, Ardore, S. Nicola, Bovalino. Distaccato dall'egemonia di Gerace, nel 1546 continuò a far parte della baronia di S. Nicola, seguendone le vicende, passando cioè, via via, sotto la giurisdizione di Giovanni Ramirez, di Tommaso De Marinis, di Scipione di Bologna, di Giovanni Capecelatro, di Carlo Gambacorta e nel 1696, dei principi di Ardore.
Ma non interessa tanto la storia di Bombile, quanto, invece, l'oggetto per cui il paese va giustamente nominato, specialmente nei circondari di Locri e di Palmi, e cioè il caratteristico Santuario della Grotta, che, come dice lo stesso nome, è costruito in una grotta scavata nel lato Ovest della roccia sottostante al paese.
Anche le origini del Santuario sono circondate da fitte tenebre; nè vale, in qualche modo, a diradarle, la leggenda che qui si riferisce sommariamente, a titolo d'informazione, e che narra di un mercante, il quale, trovatosi in gravi difficoltà in alto mare, fece voto alla Vergine di dedicarLe una statua, in caso di salvataggio; eseguito il lavoro da un valente artista, esso fu affidato dapprima alle sorti del vento, sul mare, poi, sulla terra, a due giovenchi selvatici, i quali lo portarono fino al luogo dove ora sorge il Santuario. Tale leggenda, che pure è consacrata in un canto popolare, non merita, in realtà, alcun credito storico.
Si sa di certo, però, che sulla spianata della roccia dove sorge Bombile, non molto distante dal paese, nella località detta «lo sperone ››, sorse, nel 1502, ad opera dell'eremita Fra Giacomo da Tropea, compagno del B. Francesco Zumpano, un Monastero di Agostiniani, di cui sono ancora visibili alcuni ruderi. Si può pensare che la pietà di quei frati che vivevano nei Cenobi li abbia portati a fare orazione e penitenza in una piccola grotta, scavata nella roccia sottostante, e che tale grotta sia stata, a  poco a poco, ampliata, adornata di altare e di qualche statua o immagine della Vergine.
Un documento del 1507, custodito nell'archivio del Capitolo di Gerace, reca che « sotto la timpa di Bombile  … in piedi la ditta timpa Frati Jacobo have comenzato a fare la grotta dove vole stanziare esso et appresso voli fare la Ecclesia di S. Maria de la Grotta ››.
La statua di alabastro che oggi si venera nel Santuario, vi fu posta, come dice il Sinodo di Mons. Mangeruva, nel 1625; ma poiché, sulla base di questa statua si legge la scritta: S. Maria della Grutta MDVIII, si deve arguire che essa fosse stata prima proprietà degli Agostiniani e che la scritta sia di epoca posteriore.
Quando, nel 1653, papa Innocenzo X soppresse quel convento, non fu però abbandonata la chiesa della Grotta, la quale dapprima rimase affidata alle cure dei monaci del convento soppresso, finché vissero; poi, verso il 1700, fu aggiudicata alla giurisdizione del Seminario di Gerace.
 continua ...        
          
ERNESTO GLIOZZI

 Tratto da:
STORIA E CULTURA DELLA LOCRIDE, a cura di G. Calogero, Editrice LA SICILIA Messina, 1964




domenica 16 ottobre 2016

Le pistole non discutono (reg. Mario Caiano - 1964)


Il giorno, in cui i paesi delle Calabrie vedessero sedere al banco, ove si fanno le offerte votive alla Madonna di Polsi, due Agenti dell”Economato, anziché due Canonici, mandati dal Vescovo di Gerace, non darebbero più un quattrino! Nella festa del 1905 è bastato aver sentore della prossima venuta del R. Sub -Economo che in seguito però non andò affatto, perché tutti i fedeli gridassero ad una voce che non avrebbero dato un centesimo! E chi sa dire inoltre quali tumulti avverrebbero in una montagna come quella di Aspromonte, ove per la festa annuale del 1, 2, 3 settembre, accorrono oltre a trenta mila uomini, armati di fucili e pistoloni, e senza alcun permesso di armi (cosa che le Autorità non hanno potuto o non hanno creduto conveniente impedire), ove l’Economato provasse d’ingerirsi nelle offerte dei fedeli?

MONS. VINCENZO RASCHELLA’, Nuove Luci sul Santuario di Polsi, Pompei, 1938 - XVII



giovedì 13 ottobre 2016

Cavallina storna (reg. Giulio Morelli - 1953)

                                                                                                                    

 
Illustre e grande maestro

La grande ammirazione per l’opera sua preziosa e la squisita gentilezza
dell’animo suo che tanto più è umile per quanto è grande, mi danno fiducia a scriverle.
Alcuni amici fra i quali d. Macrì, P. Ghignoni, P. Semeria ed altri stanno preparando un piccolo album per ricordare  la mia assunzione al sacerdozio. Ora io  umilio al lei il mio modesto invito pregandola a favorirmi qualche cosetta perché  il breve volumetto sia adornato dal suo nome prezioso.
Per la fede della mamma sua mi favorisca qualche cosa. Perché non vorrà mandarmi due versi fatti con quell’arte che l’è propria? Aspetto fiducioso, pieno della sua bontà d’animo.
Le unisco alla presente alcuni miei versi di cui vorrà dare quel giudizio che si meritano.
Spero non isdegnerà darmi sua risposta
con la più profonda ammirazione
Platì di Calabria – 10 – 6 – 1906
Suo dev.mo
Francesco Portolesi
Mandi tutto a.
Francesco Portolesi

(Prov. Reggio Cal.) Platì


L'illustre e grande maestro a cui si rivolgeva Francesco Portolesi, con un garbo di altri tempi, era niente di meno che Giovanni Pascoli; il documento e la foto in chiusura sono qui:
http://www.pascoli.archivi.beniculturali.it/index.php?id=45&ChiaveAlbero=&ChiaveRadice=&ApriNodo=&TuttoAperto=&subgroup=0&objId=7203&img=0#ArcImages


mercoledì 12 ottobre 2016

L'intervista - atto III



Eccomi qua. Il certo, quidam, Gino Mittiga, con il suo fastidioso brontolio di fondo, che si è fatto tanti nemici, famiglia Perri inclusa. Pazienza!
Come dice Stefano, Horcinus Orca, D’ Arrigo quello che conta non è il sentito dire ma il visto con gli occhi.
Però i Perri infastiditi nelle loro certezze non si sono manco brigati di vedere le cose come si sono svolte le vicende, per altro sbocciate fuori da questo blog.
Allora per tagliare la testa al solito, incolpevole, povero toro ecco le frasi che hanno fatto scattare una certa indignazione non tanto sullo scrittore careroto ma su quelli che hanno accentato il suo antifascismo con fiumare di Careri in piena d’inchiostro: Il Fascismo, come tutti i movimenti cementati col sangue e col sacrificio …. il Fascismo scrive la sua vera storia sui campi di battaglia … Può darsi, ed io me lo auguro vivamente, che il clima fascista, questo prepotente risveglio dell’orgoglio nazionale …
Quel cementato movimento, quel prepotente risveglio dell’orgoglio nazionale è stato imbrattato col sangue e il sacrificio di quanti persero la vita in Albania, in Russia, e nell’Italia dove si innalzò la bandiera della Resistenza.
E da me, cultore di cinema essenzialmente, so benissimo che il Fascismo aveva tutti i numeri per divenire materia d’arte, come li aveva Joseph Paul Goebbels nel dare origine all’arte nazista. Per restare al cinema: Vittorio de Sica, durante il Fascismo foggiò la sua arte nutrito dei capolavori del cinema muto italiano, per divenire il Maestro neorealista; non ci volle nulla per lui passare da I bambini ci guardano (1943) a Sciuscià (1946). Il cinema di Goebbels fu  cementato sull’espressionismo di Murnau e Lang per sfociare nelle camere a gas.
Ora invito  tutti a confrontare le risposte di Francesco Perri con quelle neutre di Corrado Alvaro riportate sullo stesso giornale il 12 marzo 1939 (1), il quale aveva capito istintivamente quale è la chiave del successo.(2)
Eccomi ora accusato di favoritismi e campanilismo. Pazienza, come diceva Carlo Campanini.
(1) http://daplatiaciurrame.blogspot.com/2016/10/lintervista-atto-ii.html
(2) Corrado Alvaro, Quasi una vita, 1950, pag. 15 dell’ediz. Bompiani del 1994

«I poeti non sono mai stati uomini politici!»
                                             Francesco Perri

Invito altresì i signori Perri a leggere quanto da me pubblicato sul loro genitore e scoprire qualcosa che ignoravano, come l’incriminata intervista:
https://iloveplati.blogspot.com/2016/04/la-corrispondenza_10.html
SDG