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lunedì 2 ottobre 2017

Ali del futuro (reg. David Lean - 1952)


 PLATÌ, ANNO DI GRAZIA 2040

 MICHELE PAPALIA

Gino e Cugino erano nati e cresciuti in un paese dal passato tristemente famoso. Essi conoscevano bene i fatti di cronaca grazie alle voci narranti dei nonni che avevano vissuto quegli anni e che pure avevano conservato i giornali d’epoca; Gazzetta del Sud, Calabria ora, Il fatto quotidiano: su ogni prima pagina pure un vecchio sofferente di cataratta avrebbe colto a caratteri cubitali il nome Platì.
Erano coetanei, nati nel 2016, ora studenti al corso di laurea di Storia e Statistica, entrambi laureandi e intenti a indagare il passato del loro paese, oggetto della tesi da consegnare al relatore da li a poco. “Platì, storia di un popolo irredimibile”, titolo ambizioso e lavoro immane. Una vasta bibliografia da studiare assieme alle cartacce impolverate degli archivi di Stato di Locri e Reggio. Percentuali sull’indice di natalità e ‘ndrangheta, numero di disoccupati e ‘ndrangheta, matrimoni tra parenti, famiglia intesa come centro di interesse e diffusione di loschi affari, ancora ‘ndrangheta. E che dire dell’esorbitante numero di reati commessi durante il Novecento dai cittadini di quella popolazione: dall’abigeato alla associazione mafiosa passando per l’omicidio, il furto di galline, di autovetture e persino di arance. E inoltre, ciclicamente, l’amministrazione comunale veniva sciolta per infiltrazioni mafiose e i vari commissari nominati dai prefetti poco potevano per ristabilire una democrazia che era come un prezioso agrume, quale il bergamotto, in altura non poteva attecchire. Terreno che invece continuava a essere fertile per ladri di polli, narcotrafficanti, usurai, spietati killer e truffatori tutti accomunati da indissolubili vincoli di parentela e comparaggio, abbracciati dai tentacoli di mamma ‘ndrangheta.
I due studenti non ne sarebbero venuti a capo. Di quella popolazione nessuno si salvava dalla punizione eterna, certo i morti già brancolavano nel girone dei mafiosi o comunque dei conniventi che poi, stando ai loro studi, erano due facce della stessa banconota, e in questo caso si, pecunia olet, il denaro reinvestito in illecite attività infetidiva pure l’aria di montagna. Uno sporco villaggio di uomini tarchiati che incutevano timore e pretendevano bocche serrate, era la reticenza dei compaesani netta manifestazione di un silenzio assenso. Pochissime eccezioni: i parroci, talune donne timorate di Dio e i bambini. Anzi neanche loro, perché fin da piccoli venivano istruiti su come bloccare i forestieri che entravano in paese. A dieci anni sui motorini, invece dei compiti dovevano “taliare” i movimenti dei carabinieri. Erano numerosi e rispecchiavano l’alto tasso di natalità, facile dedurne che la madre dei mafiosi fosse sempre incinta.
La prova regina – stando così le cose ce n’era davvero bisogno? – era rappresentata dalle manifestazioni antimafia. Perché, se nei paesi della costa, spesso e volentieri, i cittadini colà residenti avevano dato ampia dimostrazione della loro onestà e vicinanza allo Stato – memorabile la mobilitazione di centinaia di studenti all’indomani del truce assassinio di un noto politico freddato dalla mafia – perché per Platì, anche a scartabellare tutto il materiale documentario, non si riscontrava niente in tal senso? Mai una presa di posizione pubblica, una fiaccolata, una civile protesta contro i malavitosi, una piazza riempita da gente onesta. Tutto faceva ‘ndrangheta nel passato. I due studiosi rimanevano sorpresi anche e forse più dai cosiddetti soggetti minori, quelli dalla fedina penale illibata ma che non potevano non sapere o non volere. Tra i faldoni del Tribunale penale di Locri e nelle relazioni di servizio redatte dalla locale stazione dei carabinieri, i fedeli servitori dell’arma davano atto della comprovata mafiosità di svariati soggetti.
Ad esempio, a un cristo di settant’anni veniva rimproverato l’aver partecipato a una rissa a Careri nel 1952, quando era ventenne. Poi “Nulla” recitava il casellario giudiziale ma la pericolosità del predetto veniva agganciata – indiscutibile lungimiranza degli organi investigativi – all’esser cugino di un narcotrafficante che stava marcendo in galera. Allo stupore per la gravità dei fatti riscoperti per Gino e Cugino seguì la contezza del privilegio a non essere figli di quelle generazioni. Per fortuna Platì era cambiato. Adesso, nel 2040, c’era un cinema in 3D, libero accesso a una moderna biblioteca con annessa sala computer, un campo sportivo che ogni anno faceva partire giovani promesse verso il calcio professionistico. Ancora, grazie all’attenzione del governo regionale, era entrata a regime la fiscalità agevolata per le aziende aspromontane operanti nell’agro-alimentare e la disoccupazione giovanile un lontano ricordo, a essa si era ovviato grazie all’emigrazione di ritorno. E il paese era divenuto strategico crocevia tra lo Jonio e il Tirreno con la superstrada Bovalino-Bagnara efficiente raccordo di collegamento tra i due versanti.
Certo, restava pur sempre quel passato pesante con cui fare i conti e che se studiato faceva convergere sempre nella stessa direzione: documenti alla mano, il 99% della popolazione platiese risultava mafiosa o comunque imparentata o connivente, tutti sinonimi di un arcaico squilibrio sociale. Gino, ricordandosi del suo filosofo preferito e dei sillogismi, concluse quel lungo lavoro imitando Aristotele: «Tutti gli aspromontani erano potenzialmente malavitosi. Tutti i platiesi erano aspromontani. Dunque tutti i platiesi erano malavitosi». Che ciuchi quei platiesi. Avessero organizzato almeno una manifestazione antimafia! Intanto i due giovani, all’esito della discussione, si meritarono la proclamazione cum laude.
 PUBBLICATO IN HTTP://WWW.INASPROMONTE.IT/RACCONTO-PLATI-ANNO-GRAZIA-2040/  IL 30 GIUGNO 2016. 

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