PLATÌ, ANNO DI
GRAZIA 2040
MICHELE PAPALIA
Gino e
Cugino erano nati e cresciuti in un paese dal passato tristemente famoso.
Essi conoscevano bene i fatti di cronaca grazie alle voci narranti dei nonni
che avevano vissuto quegli anni e che pure avevano conservato i giornali
d’epoca; Gazzetta del Sud, Calabria ora, Il fatto quotidiano: su ogni prima pagina
pure un vecchio sofferente di cataratta avrebbe colto a caratteri cubitali il
nome Platì.
Erano coetanei,
nati nel 2016, ora studenti al corso di laurea di Storia e Statistica, entrambi
laureandi e intenti a indagare il passato del loro paese, oggetto della tesi da
consegnare al relatore da li a poco. “Platì, storia di un popolo irredimibile”,
titolo ambizioso e lavoro immane. Una vasta bibliografia da studiare assieme
alle cartacce impolverate degli archivi di Stato di Locri e Reggio. Percentuali
sull’indice di natalità e ‘ndrangheta, numero di disoccupati e ‘ndrangheta,
matrimoni tra parenti, famiglia intesa come centro di interesse e diffusione di
loschi affari, ancora ‘ndrangheta. E che dire dell’esorbitante numero di reati
commessi durante il Novecento dai cittadini di quella popolazione:
dall’abigeato alla associazione mafiosa passando per l’omicidio, il furto di
galline, di autovetture e persino di arance. E inoltre, ciclicamente, l’amministrazione
comunale veniva sciolta per infiltrazioni mafiose e i vari commissari nominati
dai prefetti poco potevano per ristabilire una democrazia che era come un
prezioso agrume, quale il bergamotto, in altura non poteva attecchire. Terreno
che invece continuava a essere fertile per ladri di polli, narcotrafficanti,
usurai, spietati killer e truffatori tutti accomunati da indissolubili vincoli
di parentela e comparaggio, abbracciati dai tentacoli di mamma ‘ndrangheta.
I due
studenti non ne sarebbero venuti a capo. Di quella popolazione nessuno si
salvava dalla punizione eterna, certo i morti già brancolavano nel girone dei
mafiosi o comunque dei conniventi che poi, stando ai loro studi, erano due
facce della stessa banconota, e in questo caso si, pecunia olet, il denaro
reinvestito in illecite attività infetidiva pure l’aria di montagna. Uno sporco
villaggio di uomini tarchiati che incutevano timore e pretendevano bocche
serrate, era la reticenza dei compaesani netta manifestazione di un silenzio
assenso. Pochissime eccezioni: i parroci, talune donne timorate di Dio e i
bambini. Anzi neanche loro, perché fin da piccoli venivano istruiti su come
bloccare i forestieri che entravano in paese. A dieci anni sui motorini, invece
dei compiti dovevano “taliare” i movimenti dei carabinieri. Erano numerosi e
rispecchiavano l’alto tasso di natalità, facile dedurne che la madre dei
mafiosi fosse sempre incinta.
La prova regina –
stando così le cose ce n’era davvero bisogno? – era rappresentata dalle
manifestazioni antimafia. Perché, se nei paesi della costa, spesso e
volentieri, i cittadini colà residenti avevano dato ampia dimostrazione della
loro onestà e vicinanza allo Stato – memorabile la mobilitazione di centinaia
di studenti all’indomani del truce assassinio di un noto politico freddato
dalla mafia – perché per Platì, anche a scartabellare tutto il materiale
documentario, non si riscontrava niente in tal senso? Mai una presa di
posizione pubblica, una fiaccolata, una civile protesta contro i malavitosi,
una piazza riempita da gente onesta. Tutto faceva ‘ndrangheta nel passato. I
due studiosi rimanevano sorpresi anche e forse più dai cosiddetti soggetti
minori, quelli dalla fedina penale illibata ma che non potevano non sapere o
non volere. Tra i faldoni del Tribunale penale di Locri e nelle relazioni di
servizio redatte dalla locale stazione dei carabinieri, i fedeli servitori
dell’arma davano atto della comprovata mafiosità di svariati soggetti.
Ad esempio, a un
cristo di settant’anni veniva rimproverato l’aver partecipato a una rissa a
Careri nel 1952, quando era ventenne. Poi “Nulla” recitava il casellario
giudiziale ma la pericolosità del predetto veniva agganciata – indiscutibile
lungimiranza degli organi investigativi – all’esser cugino di un
narcotrafficante che stava marcendo in galera. Allo stupore per la gravità dei
fatti riscoperti per Gino e Cugino seguì la contezza del privilegio a non
essere figli di quelle generazioni. Per fortuna Platì era cambiato. Adesso, nel
2040, c’era un cinema in 3D, libero accesso a una moderna biblioteca con
annessa sala computer, un campo sportivo che ogni anno faceva partire giovani
promesse verso il calcio professionistico. Ancora, grazie all’attenzione del
governo regionale, era entrata a regime la fiscalità agevolata per le aziende
aspromontane operanti nell’agro-alimentare e la disoccupazione giovanile un
lontano ricordo, a essa si era ovviato grazie all’emigrazione di ritorno. E il
paese era divenuto strategico crocevia tra lo Jonio e il Tirreno con la
superstrada Bovalino-Bagnara efficiente raccordo di collegamento tra i due
versanti.
Certo, restava
pur sempre quel passato pesante con cui fare i conti e che se studiato faceva
convergere sempre nella stessa direzione: documenti alla mano, il 99% della
popolazione platiese risultava mafiosa o comunque imparentata o connivente,
tutti sinonimi di un arcaico squilibrio sociale. Gino, ricordandosi del suo
filosofo preferito e dei sillogismi, concluse quel lungo lavoro imitando
Aristotele: «Tutti gli aspromontani erano potenzialmente malavitosi. Tutti i
platiesi erano aspromontani. Dunque tutti i platiesi erano malavitosi». Che
ciuchi quei platiesi. Avessero organizzato almeno una manifestazione antimafia!
Intanto i due giovani, all’esito della discussione, si meritarono la proclamazione cum laude.
PUBBLICATO IN HTTP://WWW.INASPROMONTE.IT/RACCONTO-PLATI-ANNO-GRAZIA-2040/ IL 30 GIUGNO 2016.
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