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mercoledì 1 febbraio 2017

Seduto alla sua destra (reg. Valerio Zurlini - 1967)



ARDORE MARINA – Chiamato dalla fiducia di S. E. il Vescovo di Locri, il rev. do don Ernesto Gliozzi, che per oltre due anni resse questa Parrocchia, si è trasferito oggi nella nuova sede per completare il collegio dei canonici.
Non è un vago elogio se diciamo che questa popolazione cattolica, entusiasta dell’opera cristiana svolta da questo giovane ministro della Chiesa, è rimasta alquanto turbata, vedendosi privata del suo pastore che ispirò in tutti illimitata fiducia per serietà e correttezza nella sua delicata missione; e  si augura, pertanto, che il successore non sarà meno degno di seguire la via tracciata dal bravo sacerdote, a cui auguriamo migliori progressi ecclesiastici, non mancando in lui il grave contegno né la vasta cultura.
Il Mattino,1954

Nota. Nella foto lo zio Ernesto, alla sua destra mons. Pierantoni, davanti la chiesa di Ardore Marina, quando reggeva quella cura. Tutto questo perché domani, giorno della Candelora, ricorre l'anniversario della sua salita in Cielo.

lunedì 30 gennaio 2017

The Land of Hope (reg. Shion Sono - 2012)


 Platì 8/06/1961.  Funerali di mio nonno Rocco De Marco nato nel 1880 ed emigrato negli Stati Uniti a 18 anni con il piroscafo a vapore ‘ Patria'.
   

Ritornò in Italia intorno al 1915 con una gamba amputata e camminava con un tutore .


                           IL TRAPPETO ad ACQUA 
Insieme a don Peppino Caruso (tuppujancu) realizzò di fronte all’albergo della ‘Baggiana’uno dei primi frantoi ad acqua. L’acqua arrivava incanalata nella ‘mastra’, attraversava la strada e si riversava nei bicchieri della ruota Persiana,


un’ enorme ruota in legno che, girando, azionava, all’interno del frantoio, tre pesanti ruote in pietra da cui fuoriusciva l’olio di prima spremitura. Tre enormi presse venivano azionate poi manualmente dai ‘machinanti’ i quali spingevano i bracci di un albero girevole collegato a delle verticali viti senza fine.
Da bambino passavo molti pomeriggi invernali dentro questo frantoio al calduccio di una stufa a legna alimentata anche con la sansa esausta cioè dagli scarti dell’ultima spremitura ottenuti inserendo all’interno  delle ‘sporte’, la poltiglia rimasta nelle vasche delle macine. Osservavo l’arrivo dei muli carichi di sacchi d’ olive che, in attesa di essere lavorate, venivano collocate provvisoriamente nello ‘zzimpuni’(lo zimbone) un magazzino di stoccaggio in cui si veniva investiti dall’odore penetrante e piacevole delle olive mature ogni volta vi si entrasse.

                                                          Strumenti di misura dei nostri nonni
Va ricordato che da noi persistevano le vecchie misure del Regno di Napoli e che le nuove misure adottate dopo la Rivoluzione  Francese furono estranee al nostro mondo contadino. 

‘U Cafisu’ dall’arabo Qafiz Un contenitore di 16-17 litri
‘u menzu cafisu’ 8 litri
                   'u quartucciu’ dalla capacità di 1 litro e mezzo 
            inoltre, la salma, che equivaleva a 161,297 litri

Nota
Il testo e le foto sono un ulteriore contributo di Rocco De Marco che con zelo ha ricostruito uno dei tanti aspetti della laboriosità platiota. Il momento della raccolta delle ulive e la successiva macina scandivano uno dei momenti più attesi, sia per la manodopera impiegata come anche per il frutto ricavato, che non era solo guadagno ma gusto nonché rito, legati alla tipicità delle olive, da condividere a tavola, in famiglia, con i parenti, con gli amici. E tutti sappiamo che l’olio ricavato a Platì era unico, unicità derivata dal processo lavorativo come anche da fattori concorrenziali tipici, legati al background di cultura e tradizioni ma anche da determinanti fattori naturali come aria, esposizione, acqua, humus.








domenica 29 gennaio 2017

Strada sbarrata - Chi va piano, va sano e va lontano



OTTIME SPERANZE PER LA STATALE 112

Con piacere abbiamo notato che il segnale di strada interrotta sulla nazionale 112 è passato dal Km 70+500 al km70+100; ciò vuol dire che ben quattrocento metri di strada sono stati riaperti al traffico dopo 20 anni dacché una mina dei nazisti in fuga diede il segnale d’inizio della scissione geografica e commerciale tra la Piana di Gioia e la nostra terra: Non c’è che da rallegrarsene con l’ANAS, perché, evidentemente, vuol fare qui le cose per bene.
Dice un saggio proverbio: Chi va piano, va sano e va lontano.
Se le notizie della TV son vere, al confronto dell’autostrada del Sole, che in un baleno da Milano ha raggiunto Salerno, e in un altro … baleno di accartoccia come se fosse di carta pesta, noi abbiamo motivo di star più allegri, perché sarà tardi, è vero: ma, fatti i debiti calcoli, siamo sicuri che fra 700 anni i nostri lontanissimi pronipoti potranno finalmente realizzare i nostri sogni di amichevoli relazioni, di floridi commerci, di piacevoli ristori tra il fresco dei nostri incantevoli monti: e allora non vi sarà forza al mondo che potrà più ridurli ( i nostri pronipoti) alle miserevoli condizioni di oggi, perché la strada 112 sarà riparata tardi, ma bene.
E. G.
Ernesto Gliozzi il giovane

Nota
La foto, conservata da Francesco di Raimondo, appartiene all'archivio Delfino.



giovedì 26 gennaio 2017

Il Ritorno dei Magnifici Sette (reg. Burt Kennedy - 1966)



Poeti in vernacolo e Parafrasi volanti

Ieri come oggi, indagando la nostra storia, non si riscontrano grandi opere in prosa, piuttosto tracimano dalle memorie familiari rime d’amore e di satira, vicende intime e umane passioni, cantate di chitarra o recitate nelle serate di vino – di un distico molti platioti erano e rimangono capaci. È un patrimonio letterario in versi, generato dalle menti più ossigenate: poeta il proprietario e poeta il suo garzone, il maestro di scuola che non disdegnava il vernacolo; poeta pure l’analfabeta, anzi, a tratti inversamente proporzionale il rapporto tra calamaio e altezza delle rime. È sicuramente un capitale, lirico e umano, non indifferente in cui forse entra in gioco la componente genetica. Certamente una tradizione che chiede e impone il recupero, per non farla finire. Ieri come oggi, oggi per domani.


1) Papalia Michele (n. 1933, analfabeta)

Femmina che allo scalino vi sedete
E a chi passa lo imitate
Lasciate stare chi la sulla miete
Che io lo so quello che fate
La notte vi coricate con i mariti
E il giorno con i visi nascosti

Quando la gallina fa l’uovo al gallo gli brucia il culo

2) Trimboli Rocco (n. 1943) 

Guardate gente che successe
Il mondo in peggio cambiò
E non si può più pregare a Dio
Che il vescovo pure il prete cacciò
Il consiglio pastorale che l’ha sciolto, che le regole disubbidì
Guardate in questo paese che succede
Che l’ Islam vuole incrementare
Queste guardate sono cose vere
La religione vogliono cancellare

Libera Chiesa in libero Stato, più o meno


3) Barbaro Giuseppe (n. 1947)

Che brutti tempi e che brutte manier
Non si conosce più peso e misura
Perdemmo la pace, il sonno e la religione
Ci albeggia e non sappiamo se ci fa scuro

Mala tempora currunt

4) Perre Francesco (n. 1959)

Paese che Platì tu sei chiamato
Stasera vengo a cantarti e a suonarti
Ti dico che mi sento assai onorato
Dell’accoglienza e del benvenuto
Ai piedi della montagna sei collocato
E la fiumara ti passa di lato
Sono contento stasera e ti dico
Che festeggiamo la Madonna di Loreto

Terra madre: sangue, suono e divine suppliche


5) Catanzariti Paolo (n. 1974)

È giorno ormai, giorno di Natale, e la mia mente fa giri strani
E sento i miei figli parlare, da dove arriva babbo natale
E cercano di conoscere quel viso nella gente che vedono passare
Io torno indietro con i pensieri di quando ero io ad aspettare
Il mio non portava i regali e non veniva neanche a orari strani
Il gesto suo mi faceva pensare alle sette di mattina sentivo chiamare
E mamma pronta lo faceva entrare

Profumo d’innocenza

6) Perre Giuseppe (n. 1981)

Con passo lento e suono di chitarra
Un giovanotto giura il suo amore
E spera che si apre quella serranda
Così per parlare con i suoi genitori

Serenata d’Ariella

7) Papalia Francesco (n. 1990)

Il castagno nella quercia
Il pesco nella prugna
Il ciliegio con la compagna
L’albero di noce che si bagna
Prugne e mandorle con chi vuoi
Fichi e nespole con i suoi
Ogni cosa innestata
Sempre la luna va guardata

Pollice verde, giovani rime

Nota - Questa traduzione, come l’introduzione, di Michele Papalia, delle poesie pubblicate qualche post addietro, rende ancor più vigorosa la testimonianza di un fermento culturale mai spento e che l’Associazione Santa Pulinara si è fatta carico di conservare e diffondere. Ancora, voglio farvi notare il senso minimalista e lirico di una quotidianità vissuta in prima persona, trasfusa su un pezzo di carta e diffusa dai navigatori in rete. LONG LIVE PLATI’!
La foto è di Francesco di Raimondo.

mercoledì 25 gennaio 2017

Strada sbarrata (reg. William Wyler -1937) antica interrogazione




Con il titolo che vedete in alto viene riproposto un tema già affrontato in altre pubblicazioni come prequel di questo serial che parte da oggi. Il soggetto è la Strada Statale 112. Se è vero che le vie di comunicazione sono fondamentali per una comunità, quella strada per il paese di Platì era tutto. E qui insisto con le parole di qualche giorno addietro: “sorge il sospetto che quanto sia accaduto a Platì non fosse che una strategia elaborata altrove, senza tener conto di un passato che aveva dato lustro all’Aspromonte”. E sì, perché non ripristinando in maniera definitiva l’accesso alla Montagna i platioti si son dovuti arrangiare come meglio potevano, esodo e crimine, compresi. Oggi l’ennesima frana di un anno fa ha sepolto le speranze residue. A Platì i giornalisti giungono per cercare qualcosa che a loro conviene e che desti l’insana curiosità di lettori e spettatori fallaci. I veri mali del paese non interessano la Chiesa, la Magistratura e nemmeno i politici, con o senza scalpo, assisi su comode poltrone pagate dai contribuenti anche disoccupati.



INTERROGAZIONE AL MINISTRO DEI LL. PP.
CHIESTA LA SISTEMAZIONE DELLA STRADA STATALE 112
Gli onorevoli Catanzariti e Girolamo Tripodi hanno presentato una interrogazione ai ministri dei Lavori pubblici e per il Mezzogiorno, per sapere “ se sono a conoscenza del grave, profondo, giustificato malcontento delle popolazioni di Platì, Bovalino, Benestare, Careri, Santa Cristina, Sinopoli, Bagnara, Delianova, Cosoleto, S. Eufemia, Oppido per il mancato ripristino della statale 112, notevolmente danneggiata dalle alluvioni del 1951; se siano a conoscenza della iniziativa promossa dall’Associazione turistica di S. Cristina d’Aspromonte, in collaborazione con l’Amministrazione comunale locale e della energica presa di posizione dei sindaci dei comuni interessati, i quali chiedono con forza la immediata soluzione del ripristino della statale 112, motivata da esigenza economiche, sociali, turistiche e civili.
 <<Gli interroganti chiedono di sapere i motivi per i quali a 21 anni di distanza un'arteria di così vitale importanza non è stata riattivata, nonostante gli strumenti legislativi predisposti a seguito delle alluvioni e gli impegni solenni assunti dal capo del Governo e dai ministri del tempo, in occasione delle loro visite ai centri duramente colpiti; 
«Si chiede inoltre di sapere: se, data la gravità della cosa, che assume l'aspetto di un vero scandalo, se non ritiene opportuno accertare le responsabilità per il mancato ripristino di tale arteria in un periodo in cui opere di maggiore rilevanza stradale sono state portate a compimento o avviate a soluzione, come le autostrade, i trafori».
<< Gli .interroganti, infine, chiedono di conoscere lo stato attuale delle cose in proposito dei tempi di realizzazione di detta strada, non solo limitatamente al tratto non aperto al traffico che va da Plati a S. Cristina, ma anche in riferimento alle opere di ampliamento,ammodernamento rettifica curve, lungo tutto il percorso e particolarmente tra Bovalino - Benestare, Careri, tenendo conto della vitale importanza di una delle poche arterie di collegamento tra lo Jonio ed il Tirreno, come è nelle giuste attese delle popolazioni interessate, che non possono non manifestare la loro sdegnata disapprovazione per la politica di abbandono di cui la strada 112 è sintomatica manifestazione”

GAZZETTA DEL SUD Mercoledì 19 Luglio 1972

 Come potete vedere nelle foto di apertura  la natura agisce come può per cassare la 112

martedì 24 gennaio 2017

Incontro (reg. Piero Schivazappa - 1971)


INCONTRO CON LA RAGAZZA
In aprile Giacomo s’innamorò. Una ragazza, che gli era stata presentata da un amico, gli piacque immensamente, ed egli decise di farle la corte. Cercò di incontrarla quante più volte avesse potuto, l’attese all’uscita dalla scuola di belle arti, dove frequentava il corso di pittura, la fermò, cosi, come per caso, e si mise a discorrere con lei.
Passeggiavano i due giovani e l’avvenire era lieto davanti a loro: egli le espresse i suoi sentimenti, ed ella parve convincersi. << Se è destinato, saremo insieme felici» gli rispose la ragazza; e in un impeto improvviso di fede, volle separarsi da lui, andare sola a pregare nella chiesa vicina. "
 Si trovavano ogni giorno, di mattina, per un momento, e di sera più a lungo. Di sera andavano fuori porta, sulla strada polverosa delle automobili, camminavano un po’, quindi attraverso il viottolo tortuoso, uscivano nell’aperta campagna.
Si dirigevano in un boschetto vicino: lì sotto la cupa verzura degli alberi si sdraiavano, e le mani nelle mani si raccontavano storie innocenti.
— Vediamo chi ha più forza, di noi due? -- le proponeva Giacomo; e voleva provare, come se dubitasse di sé.
- No, no, mi sciuperesti il vestito e i capelli!
— E cosa importa che ti sciupi i capelli? Non mi piaceresti lo stesso? Ed io con le mie mani non te li acconcerei?
-- Ed il vestito, dopo che si fosse sgualcito o strappato? Cosa faresti tu?
-- Ma no, che non si strapperà...
Faremo cosi, per ridere! Via, Adelina, non mi scontentare! Sii buona con me!
Seduti per terra, allora, si cingevano con le braccia; e facevano come per scuotersi. Ma poi egli avvicinava la bocca alla sua; ed Adelina, confusa, cedeva.
Si abbracciavano quindi più volte e liberamente; e si baciavano a lungo senza stancarsi; mentre voci non si sentivano. Ed il canto solo degli uccelli al tramonto, volanti festosi sugli alberi prima della notte imminente, squillava alto nel cielo.
S’alzavano i due giovani ed in fretta ritornavano in città. Parlavano di rado ora e i loro visi erano tristi. La malinconia dell’insoddisfatto amore, il mistero della vita che si rivelava nel chiuso delle loro anime, la delusione che segue le ore di intensa felicità e il pensiero del distacco fino al giorno dopo accompagnavano i loro passi.
Arrivati in città, il più delle volte si separavano per non essere riconosciuti; ma qualche volta Giacomo accompagnava la donna fino alla porta di casa; ed entrato nel portone, in silenzio e come un disperato s’afferrava alla sua bocca.
Fu felice quel tempo.
Ma passo troppo presto; perché Giacomo, che era studente ed ancora doveva aspettare un anno per laurearsi, fu costretto a partire per il suo paese.
Poi il padre cadde ammalato e mori.
Gli affari vennero meno, le passività aumentarono. Sua madre, avvilita, piangeva.
Giacomo dovette abbandonare gli studi e pensare di sistemare la famiglia; e intanto col pensiero alla donna lasciata, poco riusciva a concludere.
Le scriveva di ricordarsi di lui e di attenderlo; le prometteva di sposarla; la supplicava nel dubbio.
E perché ella non dubitasse delle sue capacità, le assicurava che anche senza la laurea avrebbe potuto trovare un buon posto; che avesse la pazienza di aspettare; e dopo, l’indugio sarebbe stato compensato dalla gioia di non dividersi più fino alla morte.
In principio, Adelina ricambio l’affetto e le ansie; poi comincio a raffreddarsi; e non sempre rispondeva per tempo. 
Intanto Giacomo non riuscì a fare nulla di buono; si mise nel commercio e non aveva attitudini; e un posto, non riuscì affatto a trovarlo.
Né la famiglia lo lasciava tranquillo: la madre sempre era afflitta e stordita, i fratelli piccoli avevano bisogno di guida. Giacomo, inceppato, non poteva partire per la lontana città.
Domandò allora alla ragazza come mai così presto si fosse stancata di lui: ancora non era passato un anno! E dunque? Non gli aveva voluto mai bene?
Adelina colse la palla al balzo; disperò di poterlo mai più rivedere e gli scrisse di non pensare a lei. Ella lo aveva amato, si; ma ora, colla lontananza, di meno. Voleva essere sincera.
Che pensasse lui a dimenticarla, come pure si sarebbe sforzata di fare lei.
Giacomo, disperato, le rispose supplicandola di scrivergli e di aspettare la sua venuta, prima di dire l’ultima e irrevocabile parola. Che non gli facesse il torto di mostrarsi ingrata e cattiva.
Adelina, gentile, rispose di no, che non poteva; e che ella era indegna di lui. Non le scrivesse più; egli avrebbe potuto trovare altre migliori di lei.
Giacomo alla lettera fremé. Non sapeva se sdegno lo avesse preso o continuo e rinnovato furore d’amore. Come un pazzo le scrisse di nuovo.
Ma Adelina non si fece più viva.
Giacomo voleva partire, voleva raggiungere la donna, pregarla di nuovo o insultarla, non sapeva bene.
Ma i disordini della sua amministrazione glielo impedirono. In quel tempo i mobili della sua casa gli vennero pignorati e venduti, un piccolo podere della madre messo all'asta e venduto per poche lire.
Giurò a se stesso di rifarsi la posizione e, cambiando genera di commercio, riprese il lavoro. I guadagni erano modesti, ma sicuri. Risparmiando sul mangiare e sul vestire, qualcosa poteva mettere da parte.
La casa a poco a poco si ricostituiva.
I fratelli furono mandati a scuola; e la madre, nelle pratiche di religione, trovava il conforto di cui aveva bisogno.
Nel lavoro e nella preoccupazione passò diverso tempo. Gli amici antichi della città s’erano squagliati. Egli loro scriveva e quelli non rispondevano.
Passò, ripeto, del tempo. Ma pochi anni, cosa erano in confronto della vita d’un uomo? E dell’eternità senza confini?
E com'è che nella vita di Giacomo tali anni avevano un così grave peso? Comè che si sentiva invecchiato e stanco?
Qualche capello grigio era spuntato sulle tempie; la faccia e la pancia erano ingrossate; il colorito, una volta cosi fresco, era vizzo; ed i capelli, i bei capelli ondulati della sua gioventù, erano scomparsi come per una raffica improvvisa.
Il suo cuore pure era vecchio e stanco. L’ amore più non balenava dinanzi alla sua immaginazione. E le speranze? E le illusioni?
Giacomo a poco a poco si era adattato alla sua vita mediocre; si contentava di umili donne del popolo che come un servizio gli offrivano l’amore, era rassegnato del suo stato modesto.
Aveva lasciato gli studi per sempre; e di -rado rimpiangeva di non essersi preso la laurea.
Né soffriva più per le abitudini della provincia: ormai le aveva fatte sue, e ci stava a suo agio. E commerciante tra commercianti adoperava il loro linguaggio grossolano, le loro frasi, le loro maniere.
Solo di tanto in tanto pensava alla bella Adelina, amata per cosi breve tempo e pur cosi viva nel ricordo: la vedeva sempre giovane e fiorente. E non immaginava che potesse essere sposa di altri.
L’ignoranza che egli aveva della vita di lei lo incoraggiava a sognare secondo il ritmo del passato; e la vedeva, ardita e splendente, andare insieme a lui nella campagna del suo passe. S’accorgeva della fantasia, e smetteva.
Ma una volta —- erano passati quasi dieci anni — Giacomo volle permettersi il lusso di prendersi le vacanze e fare un viaggio. Prese il biglietto e, partì per l’antica città della sua giovinezza.
Aveva curiosità di sapere la fine di Adelina. Con cuore trepidante andò a casa di lei. Non se ne ricordava bene.
Bussò, ed una donna anziana s’affaccio.
-- Abita qui la famiglia Cozzupoli?
-- No, chi desiderava?
-- Niente, o niente. E non sa dove si è trasferita?
— Stanno a Roma, ma l’indirizzo non lo so.
— E non conosce chi me lo potrebbe dare?
— No, proprio. E’ da diversi anni che son partiti.
— Grazie tante, lo stesso! – disse Giacomo; e non rimpianse troppo di non averla veduta.
Giro per altre città e si divertì finché finirono i soldi e dovette pensare al ritorno. Capitò a Roma dove solo per qualche giorno avrebbe voluto rimanere.
Si trovava solo davanti alla piazza della stazione, quando un signore elegante parve riconoscerlo; anche lui lo riconobbe. Era Enrico Piromalli, l’amico che gli aveva fatto conoscere Adelina, e di cui poi non aveva saputo più nulla.
 -- Chi si rivede?  Come stai? – gli disse l’amico.
-- Bene! E tu? Ti rivedo con tanto piacere! — rispose Giacomo.
— Senti! Ho da fare! Debbo andare all’ufficio! Non mi puoi accompagnare?
— Ma si — rispose Giacomo contento.
Parlarono del tempo trascorso insieme, degli anni di poi, delle seccature della loro vita presente. L’amico non ricordava gli amori di Giacomo, tante cose gli erano sfuggite, e questi non gliene parlo.
Arrivarono, così, dinanzi a un Ministero.
Ci vedremo a cena stasera? – disse l’amico – vieni a trovarmi a casa, segnati l’indirizzo. Ho sposato, sai, e sto bene!
— Si, verro, ma non vorrei recare disturbo.
-- Ti pare?
E si lasciarono.
La sera dello stesso giorno, Giacomo bussò alla porta di casa dell‘amico.
Venne egli stesso ad aprire. Il corridoio era splendidamente illuminato; mobili di lusso adornavano le stanze
—-Siediti, che ora chiamo mia moglie.
-- Si, si.
Dopo un po’ s’intese di nuovo la voce dell’amico. Altri passi si sentivano ai suoi.
 Giacomo si alzò dalla poltrona dove s’era messo a sedere.
— La conosci? '-- gli disse l’amico ridendo; e gli batté una mano sulla spalla.
Comparve una donna, giovane, fresca, dall’acconciatura elegante. Col sorriso sulle labbra, agile di corpo e snella come un animale selvatico, gli fu davanti.
S’avvicinò a lui, gli- stese la mano.
Egli divenne pallido e s’appoggiò al braccio dell’alnico; il cuore gli sembrò uscisse dal petto; temé di cadere; perché la bella donna, di cui toccava tremando la mano gentile, non era che la sua fidanzata per sempre perduta.
  Mario e La Cava
Pubblicato su IL MESSAGGERO nel 1941

Nota. Questo ritaglio, come quelli riguardanti Francesco Perri, fa parte dell’archivio di Ernesto Gliozzi il vecchio. Anche se i bovalinoti ora mi daranno addosso, consideriamo, causa i suoi antenati, Mario La Cava uno scrittore platiotu, aggiungendolo al nostro “Pantheon” di glorie paesane,  mi pare anche, che le note del Maestro rendano bene gli affanni di Giacomo in questo racconto poco noto. 

lunedì 23 gennaio 2017

Il terzo uomo (reg. Carol Reed - 1949)


Correva l'anno 1863 ed a Napoli alle ore diciassette dell'8 giugno, presso  l'Uffiziale di Stato Civile si presentava don Luigi Mittiga di Platì, Calabria Ultra prima, di anni quarantuno, Uffiziale al Retiro, domiciliato in Salita Petrajo numero quattordici  per presentare una femmina nata il giorno avanti da lui e da Donna Margarita Spinandi di anni trentadue a cui  davano il nome di Marianna Giuseppa Paolina Maria.
Don Luigi, stando ai registri battesimali della parrocchia, era nato il diciassette giugno del 1819 da Domenico Mittica e Meladoni Giuseppa.

domenica 22 gennaio 2017

Heart of Darkness (reg. Nicolas Roeg - 1994)


L’ASSASSINIO DI DUE NEGOZIANTI E’ L’ULTIMO EPISODIO DI UNA VIOLENZA CHE HA TRASFORMATO UN PAESE DELLA CALABRIA
L’ ANTICO CUORE PERDUTO DI PLATI’
Dove c’erano contadini e artigiani ora ci sono banditi e spacciatori
Scomparsi i prodotti della terra come l’olio, il pane e il formaggio che erano tipici della zona- Una tradizione di malavita cominciata nell’Ottocento e via via degenerata in una ferocia sempre più sanguinosa

PLATI’ -  Un giallo tutto da dipanare. Martedì di carnevale, tra le 18 e le 19, a Platì, un paese a ridosso di una contrafforte dll’Aspromonte orientale, che si innalza minaccioso sull’abitato, a fianco del torrente Careri che rumoreggia d’inverno con le sue acque che finiscono, a pochi chilometri di distanza nel Mar Ionio, un fatto terribile commosse la popolazione del luogo: due anziani coniugi che gestivano una misera rivendita di tabacchi, nella quale l’incasso non poteva superare nei giorni comuni, 30 o 40 mila lire, vennero massacrati da ignoti a colpi di scure, e uccisi. Il marito Francesco Prestia era stato sindaco comunista del paese o vice sindaco per più anni. Dal 1975 non svolgeva più politica attiva, era ritenuto da tutti un uomo giusto. La moglie, Domenica Di Girolamo, ufficiale postale, servizievole e garbata, era da pochi mesi in pensione.
Sono andato ai funerali avvenuti in paese dopo che si era vinta l’avversione elle tre figlie a celebrarli alla presenza di una folla in mezzo alla quale verosimilmente si sarebbe nascosto il colpevole (o i colpevoli), percorrendo in macchina i quindici chilometri di distanza lungo la stradale 112 che da Bovalino porta a Platì. Ero commosso; pensavo al fatto della figlia che aveva invocato aiuto ai frequentatori di un bar accanto, quando aveva scoperto la fine dei suoi genitori, e nessuno era accorso. Mi venne in mente un altro viaggio che avevo fatto a Platì con Filippo Sacchi inviato della “Stampa” di Torino, dopo l’alluvione del 17 ottobre 1951, che aveva travolto il paese, provocando 17 morti e ingenti danni alle colture. Allora ci aveva fatto impressione l’umanità della gente.
Quella data è stata memorabile nella storia di Platì, per le conseguenze apportate. Allora vivevano a Platì seimila abitanti degli ottomila e più degli anni precedenti. Cominciò la grande emigrazione che dimezzò la popolazione ai tremila abitanti di oggi. Gli emigranti che si spostarono a catena. Richiamandosi tra di loro, si
Sono concentrati nell’Hinterlad milanese e in quello torinese. Gran parte di essi finì in Australia, quasi sempre sistemandosi in gruppi. Altri andarono negli Stati Uniti.
In paese le campagne vennero abbandonate. I proprietari terrieri perdettero il loro potere; scomparvero gli artigiani, bravi e numerosi, scomparvero i contadini volenterosi nel coltivare la terra. Oggi 280 capi famiglia lavorano nella Forestale, per 101 giorni all’anno. Ricevendo poi per i restanti giorni il sussidio agricolo di disoccupazione.
Gli emigranti non sempre si trasformarono in operai delle industrie; spesso miravano a far gli imprenditori; e tra le imprese risultò per loro più remunerativa quella del crimine organizzato e della droga. Non c’è stato sequestro in Lombardia, di cui si siano scoperti i colpevoli, tra i quali non fosse implicato qualcuno di Platì. In Australia, Saro Trimboli era considerato un re della droga. Dopo la sua morte, funzionari del governo australiano arrivarono a Platì, per assicurarsi che la salma fosse stata riportata al luogo d’origine.
Non la ritrovarono. Dall’Australia arrivarono pure le sementi di marijuana, perché fosse coltivata sull’Aspromonte, nei campi di granoturco co le cui foglie si sarebbe confusa.
Non meno intraprendenti si sono dimostrati quelli rimasti in paese. In questi ultimi anni sono rimasti ignoti gli autori di oltre dieci omicidi; e ora del povero Prestia e di sua moglie c’è poco da sperare che si scoprano i colpevoli.
Perché tutto questo? In che modo si è sviluppato l’istinto di ferocia che si annida nell’uomo, sopraffacendo i buoni sentimenti collettivi che pure esistono? Sono i molti o i pochi che caratterizzano la società? E’ giusto che i molti paghino nella considerazione pubblica i delitti dei pochi?
Mi diceva un dottore in chimica del luogo: “ Sono di Platì, se qualcuno me lo domanda mi vergogno di dirlo”.
Un esattore delle imposte, che già era stato rapinato dell’incasso nella frazione di Cirella, rispose: “Dispiace molto, è vero; ma i delitti che avvengono nelle città non sono meno atroci: solo che non fanno spicco nella massa della popolazione”.
Bisogna ricordare che Platì non fu mai un paese di “agnellini”: la sottigliezza, sfociante a volte nella furfanteria, era proverbiale nei paesi della locride. La litigiosità dei suoi abitanti alimentava abbondantemente i lucri degli avvocati. Un mio avo di Platì lasciò morendo nei primi anni dell’Ottocento sette cause in corso nei tribunali borbonici. Ma contro chi? Contro i danneggiatori della sua proprietà. Era un uomo molto ospitale, aveva amici con i quali si compiaceva di intrattenersi, era avvocato, ma, come il suo lontano nipote che ora lo ricorda non esercitava la professione: Benché rigido contro i malviventi, non ebbe mai a subire ritorsioni da coloro che egli denunziava ai tribunali.
La società del tempo era molto stabile, non consentiva facili cambiamenti di stato. Vi erano proprietari, le cui terre erano di origine feudale; e tra questi il più grande, Oliva, che aveva proprietà che da Palmi arrivavano ininterrottamente a Bovalino e a Locri, sullo Ionio. Quasi tutto il popolo, composto di contadini e di pastori, viveva delle sue terre. Famosi erano i formaggi locali che ora non si possono comprare a nessun prezzo, famoso il pane fatto in casa con una qualità di grano duro detto “dimini” di cui resta oggi solo il nome. L’olio, spremuto nei torchi a mano dalle olive nere piccoline, era leggero anche agli stomaci delicati. Vi erano i proprietari di origine borghese; e poi gli artigiani, numerosi e bravi. Il popolo era molto devoto alla Madonna di Loreto a cui è intitolata la chiesa del luogo.
Certamente gli spiriti liberali non erano diffusi nemmeno tra gli esponenti più importanti delle classi civili. Garibaldi li convertì facilmente al suo passaggio; ma poi, fin dal 1861, sorsero condizioni perché i borbonici trovassero in Mittica un capo per guidare la guerriglia. A lui si unì il generale spagnolo Borjes, per raggruppare le forze della campagna anche risorgimentale, che passò alla storia come brigantaggio politico o comune.
Il Mittica fu preso e ucciso; la sua testa, ficcata su una pertica, fu portata in giro per il paese.
Anche Platì fu amministrata verosimilmente nell’interesse prioritario dei suoi dirigenti come il resto della Calabria; mai nei ceti dirigenti di quel paese, che allora era una piccola città, con maggiore ribalda avvedutezza. Questa sommandosi alla tendenza attuale della società a privilegiare i beni materiali a qualunque costo, ha determinato la presente sfrenatezza che stupisce e preoccupa, fra gli altri, i tutori dell’ordine. E qui torna a concio ricordare che bastava un uomo, il maresciallo Giuseppe delfino, negli anni precedenti alla guerra del ‘$0, per tenere a freno i malviventi di tutto l’Aspromonte orientale, oggi non sarebbe sufficiente un plotone di esperti poliziotti.
Tuttavia sono sempre i pochi che tengono in agitazione i molti della società. Mi son trovato, confuso tra la folla, ai funerali di quei poveretti. Tutto il paese accorse; e non solo donne, ma anche uomini, piangevano. Notai alcune facce cupe di montanari: sarebbero potute sembrare anche dure; ma erano semplicemente addolorate per quanto era accaduto nel loro paese, di cui facevano parte. Nessuno, fra i tanti che commentavano i fatti, poteva ricordare cose nel passato di Francesco Prestia e sua moglie che avessero potuto spiegare il gesto di una postuma vendetta. No, c’era solo da dubitare che fosse possibile conoscere il cuore segreto degli uomini.
MARIO LA CAVA, Corriere della Sera 19 febbraio 1986


Note

- E’ un figlio di Platì che scrivendo, confuso per il dissolversi dell’identità di un paese che aveva attraversato momenti di gloria, ci sprofonda nel cuore di tenebra conradiano. Ancora una volta sorge il sospetto che quanto sia accaduto a Platì non fosse che una strategia elaborata altrove, senza tener conto di un passato che aveva dato lustro all’Aspromonte. Rivive altresì il dolore provato trenta anni fa dalla famiglia Prestia, che coinvolse l’intera comunità senza distinzione di classe, macchiata quest’ultima, se volete, dal mancato soccorso; ma a distanza di tempo ci macchieremmo anche noi, additando quella comunità, di viltà.

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- L'avvocato antenato di Mario La Cava si chiamava Raffaele, figlio di Muzio Lentini e Dorotea Roy, come potete notare dalla attenta genealogia fatta da Francesco di Raimondo. In essa traspare la parentela, rimossa nell'articolo, di don Raffaele con Ferdinando, Caci, Mittica/ga, avendo Dorotea sposato in seconde nozze Francesco Mittica/ga, già messa in luce da Michele Papalia nel suo Caci il Brigante del 2016.





giovedì 19 gennaio 2017

Gli eroi della domenica (reg. Mario Camerini - 1952)

And we'll keep on fighting - till the end 
 Freddie MercuryWe are the champions


PLATÌ. CAMPO SPORTIVO: UNA SCONFITTA SOCIALE


C’era stato promesso: «Se vincerete il campionato, l’anno prossimo avrete il campo». Forse, anzi col senno di poi certamente, chi promise considerandoci pressappoco un’Armata Brancaleone, non conosceva l’agonismo e la caparbietà di quei dirigenti e di quei ragazzi. Si, perché se gli avversari sognavano di calcare campi più importanti, noi avevamo diverse e più basse pretese: nessuna velleità, ci sarebbe bastato un normale campo sportivo in terra battuta, un nostro campo, un nostro settore giovanile e una tribuna dove uomini donne e bambini avrebbero fatto il tifo.
Prima dei sogni dunque dovevamo giocare e vincere il campionato di terza categoria. Si mise su una squadra di giovani, i più senza alcuna esperienza calcistica e si cominciò il campionato. Già alla vigilia della prima partita, in piazza si udiva il solito mormorio di alcuni vecchi disfattisti: «Ma chi ve lo fa fare!». Una squadra senza campo eravamo, con tutti i pronostici contro. Le partite casalinghe, che tali non erano visto che quando si giocava in casa dovevamo percorrere 22 km, si disputavano al comunale di San Luca.
Si continuava così una tradizione che risaliva agli anni ‘70 quando le prime squadre del Platì elemosinavano agli altri paesi un campo sportivo. Ma quelli erano altri tempi, ora almeno i calzettoni non erano bucati. Durante la settimana non ci si poteva allenare e in campo per vincere bisognava buttare il cuore oltre l’ostacolo, tirando fuori una rabbia agonistica senza pari. La carica di capo ultrà spettava a Natali du Zi Savu, oggi compianto e mai dimenticato, unico per la sua capacità di caricarci e per essere stato sempre presente al fianco della squadra. Tutti i direttori di gara avevano imparato a conoscerlo; a ogni punizione fischiata contro scattava in piedi a chiedere ragione all’arbitro, «Quarant’anni di Platì» diceva, pretendendo spiegazioni.
Una domenica mattina al paese arrivarono le telecamere e i giornalisti di Rete 4, a loro dire a documentare il disagio giovanile al Sud. Pensavamo di approfittare, di mettere pressione sulle istituzioni, speravamo che qualcuno finalmente si stesse interessando ai noi giovani di Platì. Presto ci accorgemmo di aver pensato e sperato male perché bastarono poche e strumentali riprese, qualche intervista “tagliata” ed ecco confezionato su misura il servizio per il padrone, i soliti luoghi comuni su santi e santini, affiliazioni e cognomi pesanti. Rimanemmo gabbati, noi che in testa avevamo un pallone da rincorrere e un campo da calcare, noi generazione senza campo né strutture sportive. Ma noi, imperterriti, continuammo a vincere.
A primavera i campi impolverati della provincia davano il seguente verdetto: imbattibilità casalinga e due sole sconfitte esterne, così a fine campionato la squadra risultò prima a pari merito con la Stilese: in piazza non sentivamo più il mormorio dei vecchi. La Lega dilettanti Calabria decretò data e luogo dello spareggio. A Siderno, partita secca, ci si giocava la promozione in seconda categoria contro la Stilese che portò sugli spalti poche decine di tifosi al cospetto di circa trecento platiesi padroni di una intera tribuna.
Si vinse per due reti a uno e si ritornò al paese accompagnati da caroselli di auto a festeggiare con la riaccesa speranza di bussare nuovamente e più forte ai portoni dell’amministrazione locale. Ed infatti, all’indomani si bussò, qualcuno aprì, ma lì sul terreno della politica e delle pastoie burocratiche non riuscimmo, senza ben capirne i motivi, a battere un avversario più forte di noi. Continue tergiversazioni, impedimenti vari e agognati finanziamenti che stentarono ad arrivare ci scoraggiarono, il resto lo fece l’estate che sopraggiunse afosa mandandoci al mare.
Nonostante tutto, l’anno seguente – caparbiamente, senza nessuna preparazione atletica e senza allenamenti settimanali come l’anno prima – iniziammo il campionato di seconda categoria che ci ricordò come alla base di ogni percorso sportivo, anche dilettantistico, vi era programmazione e preparazione. Giocoforza a metà stagione, al ritorno da una lunga trasferta, decidemmo di desistere e fu quella l’ultima partita giocata, con i soliti scettici che non mancarono di rimarcare: «Ve lo avevamo detto».
Dall’ultima partita giocata – nel frattempo due commissioni prefettizie intervallate da un consiglio comunale sciolto causa infiltrazioni – non si è ovviato a questa pesante assenza sociale, segno evidente che nella Calabria del Sud certe carenze endemiche, qui più che altrove potente antidoto a ogni forma di dispersione, hanno sempre prescisso dai colori e dall’estrazione politica di chi ha retto la casa comunale.
Dall’ultima partita giocata sono trascorsi otto anni, pochi se ragguagliati alla folle velocità del tempo moderno, molti, anzi troppi se pensiamo a quanti bambini platiesi è stato ancora negato il fondamentale diritto alla pratica sportiva. E noi che eravamo giovani, rassegnati abbiamo mandato in soffitta i sogni di gloria mentre molti di quelli che hanno promesso di sicuro non si ricordano più di averlo fatto, dimentichi che Platì, comune tra i primi per tasso di natalità, è l’unico paese del circondario a non avere il campo sportivo e, di conseguenza, una squadra. Che dormano sonni tranquilli almeno loro.
Portieri: Amante Luciano, Tropeano Francesco.
Difensori: Barbaro Pasquale, Barbaro Rocco, Barbaro Rosario, Carbone Bruno, Perre Giuseppe, Sergi Domenico, Sergi Francesco, Strangio Bruno.
Centrocampisti: Agresta Domenico, Barbaro Francesco, Carbone Antonio, Molluso Rocco, Papalia Michele, Trimboli Bruno, Trimboli Giuseppe, Trimboli Pasquale.
Attaccanti: Barbaro Francesco, Barbaro Saverio, Pangallo Natale, Sergi Rocco.
Allenatore: Ciampa Tino.
Dirigenti: Carbone Franco, Morabito Antonio, Trimboli Antonio.

MICHELE PAPALIA
in Aspromonte,febbraio 2016
nella foto un terzetto d'eccezione: Sergi, Taliano, De Maio


mercoledì 18 gennaio 2017

I sogni nel cassetto (reg. Renato Castellani - 1957)




Un campo sportivo che non fu mai costruito

A Platì, nel cuore dell'Aspromonte,
i ragazzi aspettano da anni
un posto dove fare sport,
ma, in una realtà sociale irta di difficoltà,
questo viene ritenuto ancora
un problema di importanza minore


Valerio Giacoia

«U faciti?››. Nella lingua del posto significa: «lo fate?››. I ragazzi sono in un primo momento timidi, nessuno - forse - è mai venuto da queste parti a chiedere loro che cosa vogliono, cosa fanno. Vinta la paura, siamo circondati. In un baleno ci avvolgono, gli occhi intelligenti, tutti in coro a chiederci se e quando possiamo costruire il campo di calcio. Cosa rispondere? Non siamo noi, spieghiamo mortificati, a doverlo fare. Noi vogliamo capire cosa succede; qui non è mai esistito un impianto sportivo, uno spazio dove giocare a pallone è considerato un miraggio.
Siamo a Plati, paesino situato nel mezzo, tra il leggendario Aspromonte, conosciuto ai più solo come rifugio e terra di briganti, prigione di sequestrati, e il mare dello Jonio calabrese, quello dei bronzi, dello stesso colore che narrava Omero. La zona, in provincia di Reggio Calabria, è proprio quella che batterono i figli di Zeus dall'ottavo secolo avanti Cristo in poi.
Tutto qui rimanda alla Magna Grecia: l'aria che si respira, il mare, i resti dei santuari e, soprattutto, l'ospitalità della gente. Come allora, pur sconosciuto, l'ospite è sacro. Ci accolgono, per loro è un giorno di festa. Per arrivare a Plati, dal nord, abbiamo attraversato, lungo la statale ionica, tanti paesi e grossi centri, simili tra loro e uniti dallo stesso destino: quello riservato, ai luoghi del sud, quello veramente profondo. Nessuno può negare che qui lo Stato è per certi versi troppo lontano. Chi viene da queste parti per la prima volta non può fare a meno di restare affascinato e al tempo stesso sconcertato. Lungo la costa, mossi appena dal vento, gli agali; stanno lì a osservare il mare e le spiagge, solitarie le lunghissime. Sull'asfalto della statale, invece, ogni due passi un posto di blocco dei carabinieri. Si resta allibiti per la quantità. E segno che le cose non'vanno spesso per il verso giusto. Quando chiediamo il perché, nessuno ci sa rispondere. Loro sono abituati.
Passiamo da Riace, città dei bronzi melanconicamente dimenticati, arrivando in pieno sole a Bovalino, sul mare. A una quindicina di chilometri verso l'interno c'è Platì. A Bovalino ci attende Domenico Marando, avvocato, che ci guiderà su per quella che lui chiama «una buona strada».
Verifichiamo di persona ciò che ci aveva raccontato al telefono: a Platì non c'è nulla. Oltre alle case, spesso ancora grezze, neanche una piazza che possa così chiamarsi. Nelle stradine del paese si sta in gruppi; parlano e gesticolano i vecchi, sulla testa il cappello, e i ragazzi in giro oppure al bar. Qualcuno lo incontreremo sull'Aspromonte, a guardare le capre, in solitudine. Altri, chi ha la macchina, fuggono a Bovalino; lì trovano la vita, le ragazze. Non esistono ulteriori occupazioni. Molti, ad esempio, non sono mai andati al cinema e l'edicola più vicina e situata fuori dal paese, non si sa bene dove.
L'avvocato Marando scrisse alla nostra rivista qualche anno fa, denunciando queste e altre cose. I ragazzi di Platì non hanno nemmeno un posto dove andare a giocare. Una breve indagine e scopriamo che è proprio vero. Un campo di calcio non è mai esistito. Una palestra, poi, è fantascienza. Perche? «Trenta anni fadice un ex assessore allo sport - ricordo che a Platì c'erano addirittura due squadre di calcio. Una specie di Guelfi e Ghibellini, in continua rivalità ovviamente sportiva. II calcio e lo sport rappresentavano tanto per noi. Poi è venuta I'alluvione, nel '51, e ha portato via tutto. Avevamo il campo, ora i ragazzi sono costretti a giocare per le strade, le donne gli urlano dietro perché rompono i vetri. Intanto cosa si può fare? Se gli togli anche il pallone, che fanno?››.
L'avvocato Marando va oltre. Lui fondò - qualche tempo prima di scrivere a Sportgiovane - un gruppo denominato «Alfa››, che riuniva un buon numero di giovani; aveva coinvolto quasi tutti. Marando ebbe un'idea coraggiosa; tra mille difficoltà, infatti, tentò pian piano di far capire ai propri concittadini che i ragazzi di Platì non potevano continuare a restare fuori dal mondo. Al Gruppo Alfa ci si batteva anche per il campo sportivo. Domenico Marando, pur in totale solitudine e con seri problemi fisici (fu colpito dalla poliomelite a 18 mesi), non si diede per vinto, almeno per un po'. Condusse e vinse la battaglia per l'installazione del ripetitore RAI. «Naturalmente nessun elogio, nessun umano riconoscimento», come si legge nella lettera inviata alla nostra rivista il 30 luglio 1982.
«Io penso però che è sempre meglio un po' di bene - continua - anche se si ha la certezza di essere mal ripagati, piuttosto che non fare niente e attendere che facciano gli altri. In questa direzione, secondo quest'ordine di idee si sta muovendo il Gruppo Alfa... Ora vogliamo intraprendere la lotta per il campo sportivo e pertanto chiediamo a Sportgiovane di appoggiare la nostra iniziativa. Questa deve essere la risposta civile a quella gente matura-immatura che sa solo protestare quando vede i ragazzi per strada che tirano quattro calci al pallone. A Platì è necessario il campo sportivo››.
Noi rispondemmo, promettendo di occuparci del «caso» Platì non appena possibile. E passato del tempo.
Abbiamo volutamente lasciato trascorrere degli anni, per vedere cosa ne sarebbe stato del campo sportivo, del paese, dei ragazzi del Gruppo Alfa. Ora siamo qui, abbiamo conosciuto l'avvocato che scrisse tanto appassionatamente quella lettera. Senza dubbio un avvocato povero. Abita con i suoi, una casa modesta, uno studio che per nulla ricorda gli studi ai quali siamo abituati.
«Non guadagno, facendo tutte le somme, neanche un milione al mese - dice, col sorriso sulle labbra - ma non mi lamento troppo. E poi, cosa devo farne...››.
Marando non nasconde il fatto di non essere ricco, come lo sono altri colleghi. Per lui è motivo di orgoglio non lamentarsi, accettando quello che la vita ha potuto offrirgli.
«Le cause non ci sono - ci spiega - e quelle poche che ci sono magari non me le assegnano. Poi, per certi versi, sono anche un personaggio scomodo, perché dico e faccio quello che penso, nella mia condizione di handicappato››.
E la «causa» del Gruppo Alfa e del campo sportivo?
«Vede, uno non può annullarsi completamente per gli altri, specialmente se ti accorgi che, in fondo, stai lottando da solo e sei anche criticato ››. 
Queste parole ci lasciano un po' sorpresi, ma capiamo perfettamente. Domenico Marando ha fatto ciò che ha potuto. ll Gruppo Alfa non esiste più. La biblioteca, la cineteca, il campo sportivo, tutti sogni nel cassetto di un uomo coraggioso, onesto, estremamente altruista, ma troppo solo.
«l ragazzi cominciavano a seguirmi - racconta sconsolato e quasi scusandosi con noi per non avere avuto la possibilità di accoglierci in una Platì diversa - mi accorgevo che si interessavano alle attività che gli roponevo. Avevo costruito piano piano una piccola biblioteca, con volumi che richiedevo direttamente alle case editrici, pregando di inviarceli gratuitamente. Spesso riunivo i ragazzi per la visione di un film, di un documentario, poi ognuno doveva dire la sua; ci raccoglievamo per fare lo sport. Cercavo di spiegare loro che stando assieme, iocando, anche con un po' di agonismo, potevamo lasciare fuori dalla porta I mali che affliggono tanti giovani. Lo sport può fare grandi cose per ragazzi di un paese che potrebbe coinvolgerli in tutt'altri affari››.
Quali? Platì appartiene a una delle province più turbolente d'ltalia. Mario La Cava, scrittore e giornalista, scriveva il 19 febbraio del 1986 sul Corriere della Sera: «...Bisogna ricordare che Platì non fu mai un paese di agnellini: la sottigliezza, sfociante a volte nella furfanteria, era proverbiale nei paesi della Locride...››. L'articolo si intitolava «L 'antico cuore perduto di Platì››. Un ex cittadina modello, così la ricordano Marando e gli amici, famosa per l'artigianato e per la laboriosità dei suoi abitanti. L'alluvione del 1951 portò via tutto, lasciando Platì senza forze. Da allora, come dicono, il declino.
Ma un figlio di quel «cuore» ora «perduto››, Domenico Marando, aveva cercato di cambiare le cose, che non andavano e non vanno bene non solo per colpa di calamità naturali, ma per la difficile mentalità dei più. «A un certo punto mi sono accorto che era inutile - prosegue l'avvocato - i risultati erano scarsissimi, e i ragazzi erano anche ostacolati dalle famiglie. Il campo sportivo che tanto avevamo sognato non fu mai costruito. Ero stanco e afflitto, così decisi di mollare tutto e pensare di guadagnare qualche soldo per me››.
- Perché al tempo del Gruppo Alfa si rivolse a noi?
Qui Marando ci dà una risposta che lascia intendere molte cose:
«Questo non è un paese dove lo sport non si può fare perché non esistono impianti, nemmeno un campo di calcio, anche piccolo; qualcuno pensa di fare qualcosa per la sua gente, affinché i giovani restino lontani dal male che ci circonda, ma non ci riesce. Per questo mi rivolsi a voi, a una rivista che tratta anche di questi problemi, al Coni. Credevo di rivolgermi al Padreterno››.
«Sono d'accordo che lo sport sia una cosa importante per i nostri ragazzi - ribatte il Sindaco di Platì, Natale Marando, parente dell'avvocato - ma qui mancavano ' strutture primarie, come luce, acqua e strade. Abbiamo dovuto pensare prima a queste cose ››.
ll progetto per un campo sportivo è stato fatto, presentato e - a quanto dice l'ingegner Gelonesi di Bovalino- approvato dalle autorità competenti:
«Credo che Platì avrà al più presto il suo campo ››, dice pieno di ottimismo. Il Sindaco è dello stesso parere, ma ci tiene a ribadire che qui mancano «certezze sociali» più importanti.
Domenico Marando, invece non ci crede: «Sono completamente pessimista, ma con immenso dispiacere». 

Nota
Dei giornali nazionali, tra tutti gli inviati (qui invitato) Valerio Giacoia è stato il più onesto, illuminato, sia per il motivo di base dell’investigazione (un campo di calcio) sia per chi in paese, novello Virgilio, lo aveva accolto e guidato: Mimmo Marando. Oggi questa riedizione vuole essere un omaggio a quest’ultimo ed in particolare un’esortazione agli amici pulinaroti affinché dal rintracciato fallimento di un’esperienza traggano motivo per un coinvolgimento che escluda qualsiasi perdita d’animo come di intenti, per portare avanti gli obiettivi prefissati in statuto, sfidando chi questo esperimento di ribaltare le sorti del paese pensa che non durerà.
Per tornare a Valerio Giacoia ed alla testata che lo aveva incaricato, Sportgiovane, importante è l’analisi fuori dal coro, di quei tempi andati e di quelli contemporanei, che questi fa delle condizioni, chiamiamole morali, in cui si trovava il paese, analizzate senza nessun pregiudizio come presupposto mediatico che portasse ad additare un territorio ed una comunità come dei farabutti, compresa la guida spirituale, che vi ricordo, in quel tempo, per usare un’espressione rituale, era lo zio Ernesto il giovane.
Nella foto i ragazzi del Gruppo Alfa con Mimmo Marando alla sinistra e lo zio Ernesto in centro.