Lo “sciopero a
rovescio” è una moda lanciata da Danilo Dolci in Sicilia nella seconda metà
degli anni 50 del secolo scorso in una zona compresa tra Palermo ed il Golfo di
Castellammare. Dopo 70 anni ecco che ricompare a Platì, causa: il malcontento
tra gli allevatori di bestiame ed i “coltivatori diretti” per il totale
abbandono da parte dello Stato Italiano e dell’ANAS della Statale 112. Ad
allevatori e coltivatori serve come il pane. E così un’unione di volontari, giovani
e meno giovani, dandosi il cambio e senza badare a spese, hanno deciso che
quell’arteria per loro vitale la sistemeranno con le loro braccia. È un lavoro
in alcuni tratti pericoloso per le voragini che si aprono lungo il percorso, ma
di questo non hanno paura, molti di loro sono figli, nipoti e pronipoti di
quanti quella strada l’hanno edificata. Per ora il Comune è al balcone, quei
generosi volontari hanno solo le preghiere di padre Peppe, padre Santino unite
a quelle delle mogli, nonne, sorelle e fidanzate.
sabato 6 novembre 2021
I Volontari [di Domenico Costanzo -1998]
lunedì 1 novembre 2021
Quale Cultura? [di Luciano Emmer -1971]
Il
commento del Signor Antonio Romeo inserito in margine ad una foto recentemente
postata sulla pagina Facebook I LOVE PLATI’ ha scaturito alcune considerazioni
che, per non vanificarle con un semplice mi
piace di rito o sorridente faccina sulla stessa pagina appena citata, ho
preferito postare sul blog. Il Signor Romeo trafigge il cuore di I LOVE PLATI’:
quale cultura per la Calabria, quale cultura per Platì! E’ già da qualche anno
che l’Ass. Etno-Culturale Santa Pulinara con il suo Premio Letterario “Ernesto
Gliozzi” rivolto agli studenti dell’Istituto Comprensivo De Amicis – quarta e
quinta elementare e tutte le classi della scuola media – si sforza, in mezzo ad
infinite difficoltà di qualsiasi natura, di portare gli allievi della scuola
sulla strada della conoscenza del proprio territorio e delle proprie origini,
senza dimenticare temi più importanti di attualità. Del resto la scuola a Platì
è isolata dal contesto comunale come da quello regionale, senza contare il
disinteresse da parte del Provveditorato come del Ministero della Pubblica
Istruzione. I professori della Media fanno il loro lavoro impiegatizio e solo
alcune maestre della Scuola Elementare hanno a cuore la loro missione. E dire,
ancora una volta, che Platì è il paese d’origine di Pasqualino Perri educatore
e autore di Scuola e Mezzogiorno *, l’unico
saggio – dimenticato - che affronta i il problema educativo in rapporto al
contesto in cui opera la Scuola.
* Pasquale
(Pasqualino) Perri, Scuola e Mezzogiorno,
Qualecultura editrice, Vibo Valentia 1971
mercoledì 27 ottobre 2021
Conflitto di classe [di Michael Apted -1991]
Al solito Dottor
Filippo Zappia
Oh, l’abbietta
creatura che è il Dott. Zappia Filippo! Come inverte le parti, alllor che parla
di provocazioni, di cretinismo, di faccia tosta! Figuratevi! Lui, tutt’ una
provocazione alla compassione ed allo scherno; lui, l’apoteosi del cretinismo; lui,
che à la pelle più dura di quella dell’ippopotamo, lui ... parla di tali cose! E’
da ridere. Ma davvero costui ne capisce di clinica altrettanto, quant’io d’arabo!
Lui parla
di correttezza e di scrupolosità, maggiore e rigorosa!
Lui
l’ignobile prepotenza, e la volgare sopraffazione! E dire che le sue sono tutte
cattive azioni! La sua spudoratezza non à limiti! Ha il coraggio di parlare di
buona creanza! Ma dunque à dimenticato tutto, costui! La sua ignominiosa
esistenza bestiale, la sua insulsagine, la sua ridicolagine, la sua strampalagine
..., mentecatto, tutto egli à obliato? Imbecille, ancor tutto bagnato
dell’orina dei muli, che tradizionalmente coi suoi ha menati al pascolo, o su e
giù da Bovalino pel traffico del commercio, villano insolente ed importuno, rettile
schifoso, rampollo di ibrida genia, tracotante e sicofante insieme, non vede che
per la sua infamia, ognuno ne rifugge, tante sono le azioni malvagie e prave di
che s’incornicia il riverito suo nome?! Incosciente! C’è sale a rammentarmi che
mi si è aperto sotto i piedi un baratro, quando è stato aperto dalle truffe e
dall’espoliazione di certe genti che a lui son troppo note!
Se avessi
rubato anch’io fin treppiedi e scarpe, se fosse io Carmine faccia lorda; e
qualcuno avessi fatto miseramente perire; set oltre alla mia donna ne andasse
in traccia di altre; se mi intricassi dei fatti altrui, e degli atti tutti di
altri volessi far la spia; se di tutti dicessi male i tradendo la verità; se caluniassi
i buoni; se diffidasse dei gentiluomini; oh allora si, non solo la casa, di
correzione, ma anche il carcere meriterei. E così la società sarebbe liberata
di chi introducendosi in una casa, giunge al punto di rovistare, sullo scrittoio
degli altri per essere al corrente dei fatti che interessano le diverse famiglie,
e propalarle, gioiendo del male; rattristandosi del bene che possa capitare ai
proprii simili!
Cosi,
non avverrebbe che io possa vantarmi d’avere pagati con 10 mila i baci di quella
fanciulla che il Dott. sapendo di mentire per la gola, dice che io ho vilmente
abbandonata! Cosi non accadrebbe che io posso gridare di avere tempo per sistemare
di pagare a caro prezzo gli amplessi di una donna, fosse costei pure una tale più
nota all’illustre dottore!
Così, infine,
non potrei rinnovellare al mondo il fatto che anche sulle prostitute da me possedute,
qualcuno non abbia per anco esatta la camorra!
E
nemmeno si farebbe verificato che io avessi dato della roba non mia, a tutti quei
che desiderosi di, spogliarmi, ànno abusato della mia buona fede per farsi
pagare dei debiti imaginarii con proprietà della mia eredità, sia pure se all’asta
fossero stati venduti dei cespiti, che poi furono ingranditi nell'estenzione a bene
placido degli acquirenti, e per i quali l’ultima parola ancora non è stata detta!
Tutte
le turpitudini di questa carogna puzzolente ancora del letame di che s’è infiorata
la sua vita, fra striglie, cavezze, e basti; dimostrano anche una volta di più
come il nostro animale altro che sifilide à nel sangue; egli ha la corruzione
nell’anima, e nel cuore. Sicché il fango putrido e lurido che egli con accorgimento
tenta di buttare sul viso degli onesti a tutta prova, riconosciuti da tutto il
mondo per mali, rimbalza e ricade sul viso di lui!
A
certi individui, però, è duro il constatarlo, non basta la vergogna di sostenere
delle lotte con mezzi dei quali non si può contestare la provenienza! Non basta
a certa canaglia, no, di esercitare la più largai bugia! Costoro, venuti su dai
bassi fondi, e in essi vissuti e pasciuti, costoro, dico, vogliono che nella storia
della canaglieria di tutto il mondo, resti, a caratteri cubitali, impressa la
loro, piena di vituperii e di disonore!
E così
sia!!!
Filippo Oliva dei Conti Ricciardi
Il Circo di NERONE Anno I – N. 15 PLATI’-GERACE 11 DICEMBRE 1904
<><><><>
Poco si sa e poco
è rimasto de IL Circo di NERONE,
Giornale semi-umoristico con sede in Platì-Gerace. Dei 15 numeri che videro la
luce nell’anno 1915 è rimasta solo questa copia appartenuta a Ernesto Gliozzi il vecchio.
"Considerate la vostra semenza: - fatti non foste a viver come bruti -
ma per seguir virtute e canoscenza", la citazione dal Canto 26° del
Sommo Poeta posta a ridosso della testata è un monito quasi scagliato
all’intera popolazione platiese di quel tempo. Direttore responsabile,
proprietario ed amministratore il dottor Vincenzo Papalia, Il Conte Filippo
Oliva-Ricciardi redattore capo e l’avvocato Alberto Mercurio redattore.
Redazione ed amministrazione in Corso San Nicola numero civico 1. Un numero
aveva il costo di 10 centesimi delle lire di allora. Il dottor Filippo Zappia in
quel tempo era il bersaglio del triumvirato sopra citato: il medico Papalia
nella sua Istorosofia(1) del 1896, il
conte Oliva-Ricciardi e l’avvocato Mercurio(2) con vari
procedimenti penali circa i raggiri per impossessarsi dei beni del casato Oliva
di cui il dottor Zappia era accusato. Purtroppo non si hanno pubblicazioni di
eventuali difese da quest’ultimo sostenute, a meno che non si ventili l’ipotesi
che dietro Marco da Scazia (3) non si celasse che lui.
(1)https://iloveplati.blogspot.com/2014/09/dottore-nei-guai-reg-ralph-thomas-1963.html
(2)https://iloveplati.blogspot.com/2021/09/la-vita-risorge-natile-gli-oliva-plati.html
(3)https://iloveplati.blogspot.com/2017/05/il-romanzo-di-un-medico-regjurgen-von.html
https://iloveplati.blogspot.com/2017/05/il-romanzo-di-un-medico-medici-di.html
https://iloveplati.blogspot.com/2017/05/il-romanzo-di-un-medico-pitazzu-di.html
(2)https://iloveplati.blogspot.com/2021/09/la-vita-risorge-natile-gli-oliva-plati.html
(3)https://iloveplati.blogspot.com/2017/05/il-romanzo-di-un-medico-regjurgen-von.html
https://iloveplati.blogspot.com/2017/05/il-romanzo-di-un-medico-medici-di.html
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Storia della Famiglia Oliva
martedì 26 ottobre 2021
Zona di guerra [di Tim Roth -1998] - Tramonto sul campo
“Cittadini
e soldati
Siate
un esercito solo”
V.
Emanuele III
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Papà ma che cosa hai fatto in guerra?
domenica 24 ottobre 2021
La Valle dell'Inferno [di Gustavo Serena -1918]
ANTICHE LEGGENDE
CALABRESI
LA COLLINA “LACCATA”
della Valle dell'Inferno
La triste storia delle tre sorelle Agra, Darussa e Suia
LA COLLINA “LACCATA”
della Valle dell'Inferno
La triste storia delle tre sorelle Agra, Darussa e Suia
Platì, 3 ottobre
Nel punto più basso e strisciante della Valle dell’Inferno, situata in mezzo
all'estrema punta dell'Aspromonte, rosseggia perennemente una collinetta,
bassa, bruciata dal sole, e la cui composizione geologica è di natura silicea
con abbondanza di pirite ferruginosa.
Nessun pastore ha
mai fatto pascolare le sue capre nella fanghiglia laccosa della collina e,
d'altra parte oggigiorno non esistono più capre che si mettono su terreni
ricchi di minerali, come quelle, favolose del pastore polacco Drungonar.
Fino a qualche secolo fa, esisteva, in mezzo alla «Laccata» rossastra, il rudere del castello che la leggenda vuole sia appartenuto alle tre fatidiche sorelle di Alessandro XXXVII le quali si ritirarono in quel desolato paesaggio non resistendo al dolore per la tragica disfatta del fratello.
Per chi non lo
sapesse, Alessandro XXXVII era, sempre secondo la leggenda, uno dei favolosi
principi dello Stato di San Polinardo.
Ma non divaghiamo e torniamo alle sorelle di quell'ultimo, della cui triste storia ancora è impregnata la mortifera terra rossastra che non conosce erbe.
Quando le tre sorelle, la bionda Agra, con la rossa Darussa e la nera Suia, vennero ad abitare nel grande palazzo, i pastori di capre che osarono avventurarsi nella zona, ebbero una sgradita sorpresa: Le tre sorelle, infatti, dimostrarono di non avere nessuna intenzione di vedere adibite a pascoli le loro rossastre terre. Agra, che era la maggiore delle tre, si assunse l'incarico di «spulicare», come diceva lei, la piccola collina. Detto fatto, chiamò a raccolta i pastori avendo in precedenza affilato il più grosso dei coltelli di famiglia, quello che il fratello Alessandro
buonanima aveva
immerso, da piccolo, nel sangue di Samuele di Samotracia.
Nel suo linguaggio stregonesco, che i pastori però, capivano a meraviglia, Agra cominciò: — «Cosa fi? Tent! Nenti, chiurrin, Garicà!»
I pastori risposero
arrogantemente. Troppo arrogantemente, per il gusto di Agra, che li distrusse
nella sua furia alluvionale di giovane strega.
Dopo il sanguinoso avvenimento, nessun pastore, fino ai giorni nostri, portò a pascolare le capre nella laccata rossastra circostante il castello.
E le tre sorelle?
Gli anni passarono anche per loro, e un bel giorno Agra disse a Darussa con voce malinconica: «Oggi, per tirare il secchio dal pozzo, ho dovuto faticare quanto Briareo quando dové infilare i cesti da boxe per lottare contro Padre Giove!»
E Suia intervenendo
nel discorso delle sorelle, confidò che nel chiudere la porta del «Mabì» (il
loro ripostiglio segreto), aveva sentito nello stridore dei cardini, la tragica
voce di «Testa di Jizzo» che le chiedeva irritante: — «Suia, Suia,
quando ti fermerai?»
La povera Suia non
poté completare il discorso, che cadde stecchita ai piedi di Agra e Darussa.
Queste, a distanza di pochi attimi la seguirono nella mortale caduta. E il
favoloso castello si disgregò intorno ai loro miserabili colpi.
Questa è la storia di Agra, Darussa e Suia, che è una delle più strane e insieme delle più, belle leggende calabresi. Il pastore che me la raccontò, mi confidò terrorizzato che nelle notti in cui la luna è al suo primo quarto, dalle zolle rossastre della collina si sente la voce di Agra cantare al vento il suo motto abituale, che uccide chi lo sente.
MICHELE FERA
GAZZETTA DEL SUD, 4 ottobre 1956
Fino a qualche secolo fa, esisteva, in mezzo alla «Laccata» rossastra, il rudere del castello che la leggenda vuole sia appartenuto alle tre fatidiche sorelle di Alessandro XXXVII le quali si ritirarono in quel desolato paesaggio non resistendo al dolore per la tragica disfatta del fratello.
Ma non divaghiamo e torniamo alle sorelle di quell'ultimo, della cui triste storia ancora è impregnata la mortifera terra rossastra che non conosce erbe.
Quando le tre sorelle, la bionda Agra, con la rossa Darussa e la nera Suia, vennero ad abitare nel grande palazzo, i pastori di capre che osarono avventurarsi nella zona, ebbero una sgradita sorpresa: Le tre sorelle, infatti, dimostrarono di non avere nessuna intenzione di vedere adibite a pascoli le loro rossastre terre. Agra, che era la maggiore delle tre, si assunse l'incarico di «spulicare», come diceva lei, la piccola collina. Detto fatto, chiamò a raccolta i pastori avendo in precedenza affilato il più grosso dei coltelli di famiglia, quello che il fratello Alessandro
Nel suo linguaggio stregonesco, che i pastori però, capivano a meraviglia, Agra cominciò: — «Cosa fi? Tent! Nenti, chiurrin, Garicà!»
Dopo il sanguinoso avvenimento, nessun pastore, fino ai giorni nostri, portò a pascolare le capre nella laccata rossastra circostante il castello.
E le tre sorelle?
Gli anni passarono anche per loro, e un bel giorno Agra disse a Darussa con voce malinconica: «Oggi, per tirare il secchio dal pozzo, ho dovuto faticare quanto Briareo quando dové infilare i cesti da boxe per lottare contro Padre Giove!»
Questa è la storia di Agra, Darussa e Suia, che è una delle più strane e insieme delle più, belle leggende calabresi. Il pastore che me la raccontò, mi confidò terrorizzato che nelle notti in cui la luna è al suo primo quarto, dalle zolle rossastre della collina si sente la voce di Agra cantare al vento il suo motto abituale, che uccide chi lo sente.
GAZZETTA DEL SUD, 4 ottobre 1956
Foto: S. Carannante
Enigmatico, autunnale, dantesco Michele Fera, che innalza Santa Pulinara (San Polinardo) a stato e la suia a fata stecchita da «Testa di Jizzo».
venerdì 22 ottobre 2021
mercoledì 20 ottobre 2021
Fango bollente [di Vittorio Salerno -1975] - Una rievocazione del prof. Pipicella
Ai primi del mese di ottobre c'erano state delle piogge e la
fiumara in piena aveva travolto un bovino. la notizia appena diffusa, aveva
colpito la popolazione, in quanto la perdita di un bovino era considerata una grossa
perdita!!
Dopo una breve pausa, riprese a piovere ininterrottamente sino alla notte del 17, quando verso le due, un boato assordante fece tremare la terra e il cielo svuotò improvvisamente tutte le nuvole che l'avevano coperto per una settimana.
Le povere case, che non avevano un solo angolo asciutto, furono completamente allagate. I cittadini tutti svegli e preoccupati non riuscivano a comunicare tra di loro, perché le strade erano trasformate in ruscelli impetuosi e i tizzoni accesi con i quali solitamente squarciavano le fitte tenebre non erano utilizzabili.
Abbandonati i letti inzuppati c'eravamo portati vicino al focolare fino a quando il tuono non spense completamente la brace.
A casa mia, i quattro figli eravamo avvolti in una coperta. Mia madre pregava e piangeva, mio padre si affacciava sull'uscio e rientrava gocciolante.
Le ore che precedettero l’alba durarono un’eternità e la luce del giorno ha aperto ai nostri occhi uno scenario spettrale: a valle un’immensa distesa di acqua e fango con piante e cose semoventi; a monte frane dovunque e dai fianchi squarciati delle montagne possenti gettiti d'acqua.
La pastorizia e l’agricoltura, uniche fonti dell’economia natilese, erano state spazzate via: il patrimonio ovino e bovino era stato completamente travolto e depositato lungo la fiumara dalla montagna al mare; i campi sconvolti e ridotti pietra su pietra!
Ma di tutto questo la popolazione non ebbe percezione, in quanto subito si cercarono gli assenti e si capì che cerano stati dei morti.
In un primo momento i dispersi erano molti, ma il giorno dopo il tragico elenco fu definitivo.
I morti furono dieci: due persone anziane e otto giovani.
Dopo una breve pausa, riprese a piovere ininterrottamente sino alla notte del 17, quando verso le due, un boato assordante fece tremare la terra e il cielo svuotò improvvisamente tutte le nuvole che l'avevano coperto per una settimana.
Le povere case, che non avevano un solo angolo asciutto, furono completamente allagate. I cittadini tutti svegli e preoccupati non riuscivano a comunicare tra di loro, perché le strade erano trasformate in ruscelli impetuosi e i tizzoni accesi con i quali solitamente squarciavano le fitte tenebre non erano utilizzabili.
Abbandonati i letti inzuppati c'eravamo portati vicino al focolare fino a quando il tuono non spense completamente la brace.
A casa mia, i quattro figli eravamo avvolti in una coperta. Mia madre pregava e piangeva, mio padre si affacciava sull'uscio e rientrava gocciolante.
Le ore che precedettero l’alba durarono un’eternità e la luce del giorno ha aperto ai nostri occhi uno scenario spettrale: a valle un’immensa distesa di acqua e fango con piante e cose semoventi; a monte frane dovunque e dai fianchi squarciati delle montagne possenti gettiti d'acqua.
La pastorizia e l’agricoltura, uniche fonti dell’economia natilese, erano state spazzate via: il patrimonio ovino e bovino era stato completamente travolto e depositato lungo la fiumara dalla montagna al mare; i campi sconvolti e ridotti pietra su pietra!
Ma di tutto questo la popolazione non ebbe percezione, in quanto subito si cercarono gli assenti e si capì che cerano stati dei morti.
In un primo momento i dispersi erano molti, ma il giorno dopo il tragico elenco fu definitivo.
I morti furono dieci: due persone anziane e otto giovani.
Di seguito i nomi in ordine alfabetico e il loro tragico destino:
Domenico e Pietro Callipari, fratelli, si trovavano assieme al padre ed altri familiari nell’ovile posto nel bacino della sorgente della fiumara Acone. La sera del 17 ottobre, poiché nel loro ricovero era filtrata dell'acqua, avendo saputo che il capanno di un ovile vicino era asciutto e più sicuro, sono stati mandati dal padre a rifugiarsi e a tenere compagnia ai due giovani che custodivano quel gregge. Questa decisione sarà motivo di rammarico e di rimorso per il povero genitore che andava ripetendo: per mettere in salvo i figli maschi, li ho mandati a morire, mentre io e le femmine cl siamo salvati!
Il persistere delle piogge aveva reso impraticabile il suo pagliaio, per cui il i7 aveva cercato rifugio in una struttura più solida. Si era portato infatti presso un mulino, esattamente in quello centrale rispetto ai tre esistenti. Qui ha incontrato altre persone che avevano tentato inutilmente di attraversare la fiumara per rientrare in paese quando si accorsero che la portata diventava sempre più minacciosa, tutti insieme abbandonarono il mulino per recarsi verso la montagna con la speranza di trovare qualche soluzione.
Sarà trovato raggomitolato ai piedi di un albero in contrada Lacco di torno. Si è detto che sarebbe caduto dall'albero sul quale aveva cercato scampo, come avevano fatto altri, o che sarebbe stato colpito da un macigno staccatosi dalla frana.
Riportarlo a casa su una scala di legno improvvisata è stata un'impresa difficile e straziante.
Domenico Marvelli, quasi novantenne, viveva assieme ai familiari in una casa di campagna in contrada Acone. Quando è stato invitato a cercare verso l'alto un rifugio più sicuro, ha incoraggiato gli altri a farlo, ma lui volle rimanere a casa sua. Aveva una grande fede e trascorreva parecchie ore a pregare.
Antonio Mirto, di anni 27, una settimana dopo sarebbe dovuto partire per l'Australia. Si trovava nell'ovile della Costa Dabate, dov'erano andati a rifugiarsi i fratelli Callipari.
Unico figlio maschio, era lui che badava alla famiglia costituita dall'anziana madre e dalle sorelle.
Del suo corpo e di quello degli altri tre, nonostante le lunghe e amorevoli ricerche, non si è vista traccia.
Francesco Pangallo, di anni 18, la sera del 17 era partito assieme al padre dall'ovile per rientrare a casa. Ad un certo punto poiché il padre, attraversando un ruscello in piena stava per essere travolto, ha consigliato Francesco di non rischiare e di ritornare a tenere compagnia ad Antonio Mirto. Rifacendo la strada è passato dall'ovile dei Callipari ed è stato lui a riferire che nel suo ovile tutto era tranquillo e la “casetta” era asciutta e riscaldata. Fu la quarta vittima inghiottita da quella frana.
Antonio Pipicella, di anni 20, assieme al fratello Domenico ed al padre si trovavano nell'ovile di contrada Lacco di torno.
Aveva fatto la visita di leva ed era in attesa di partire per il servizio militare. Di lui è stato reperito un arto superiore ed uno inferiore, a diversi chilometri di distanza cercando e scavando tra le carcasse dei suoi animali.
Domenico Pipicella, di anni 16, è stato trovato in un posto impensato dopo un certo periodo di tempo.
Infatti lo zio ha sognato il ragazzo (ma la moglie ha sempre sostenuto che non dormiva) che lo rimproverava di averlo lasciato morire mentre l'avrebbe potuto salvare.
Egli, infatti, era stato mandato dal padre ad avvertire i due pastori dell'ovile vicino che dovevano allontanarsi perché a rimanervi si correvano grossi rischi. Ma i due pastori erano già andati via, egli non era potuto ritornare dai suoi ed era rimasto bloccato dal crollo della struttura dell'ovile. La persona che aveva avuto questo sogno o visione, anziché continuare a cercare lungo la fiumara, decise di tentarne il riscontro. Scavando tra le macerie di quell'ovile, in una intercapedine, apparve il corpo senza vita di Domenico.
Molti dei presenti ricordarono che il giorno del primo sopralluogo avevano sentito dei lamenti, ma avendo saputo che i pastori che si trovavano in quell'ovile erano sani e salvi, hanno pensato si trattasse di qualche bovino.
Paolo Pipicella, di anni 13, era affetto da una leggera balbuzie, ma era loquacissimo ed aveva una memoria eccezionale; ripeteva quasi integralmente i panegirici e le prediche della settimana santa, salendo sugli alberi o dal balcone dell'arciprete Filippo Ietto, che lo ascoltava entusiasta.
Queste sue qualità lo rendevano particolarmente simpatico zio Sebastiano, il quale aveva pensato di fargli prendere il posto del figlio Antonio che sarebbe andato a fare il servizio militare.
Alla sua prima settimana di lavoro, la frana e la fiumara non hanno consentito ai genitori di reperire qualcosa che gli appartenesse. Nonostante le ricerche si fossero protratte per anni.
Sebastiano Pipicella, di anni 46, era una delle persone che godeva di grande prestigio in seno alla comunità natilese.
Perso il padre in tenera età, aveva assunto la guida della famiglia ed era riuscito a costruire, assieme al fratello, un discreto patrimonio di capi di bestiame, circa 300.
Era sempre pronto ad intervenire quando qualcuno subiva un torto, e i casi più frequenti erano gli abigeati.
Il carattere gioviale e il senso dell’umorismo non sminuivano ma accentuavano il carisma di uomo saggio che aveva il culto dell'amicizia, della famiglia e della parola data.
Le sue qualità le dimostrò anche come amministratore comunale: infatti era consigliere in carica.
Di lui rimase proverbiale l'espressione:
”na cosa sula non pozzu supportari: a farsitutini" .
Testo del Prof. Pino Pipicella
Foto S. Carannante
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1951,
prof. Pipicella
martedì 19 ottobre 2021
Come quel giorno [di Mario Caserini -1916] - Un suffragio 70 anni dopo
Platì 18 ottobre 2021
L'Associazione Etno-Culturale SANTA PULINARA
ringrazia Padre Santino & Domenico I.
e quanti hanno partecipato al Rito
per essersi presi cura delle vittime del
18 ottobre 1951
giovedì 14 ottobre 2021
La morte cammina nella pioggia [di Carlos Hugo Christensen - 1948]
Nel 70° Anniversario
Platì 18 Ottobre 1951
Na data tristi chi veni sempri ricordata
l’affidamu ai posteri non m’esti mai dimenticata.
Morti e distruzioni nto paisi dassau
quandu u dilluviu universali di jà passau.
S’ apriru i catarratti e l’acqua du cielu calava
Ciancio, ntantu a valle s’ingrossava.
D’arretu da Rocca fici breccia
trasiu nto paisi comun na freccia.
Ci fu nu pigghja pigghja chija notti
pe casi e pa li strati passau la morti….
Urla disperate! ... Mani avvinghiate! …
19 vite,
dalla furia dell’acqua, trascinate.
Quella notte, pure Acone nel campo entrava
disturbando il sonno di chi in pace riposava.
A distanza di 70 anni
una Preghiera
per chi lottò quella notte
contro l’ingrata morte.
l’affidamu ai posteri non m’esti mai dimenticata.
Morti e distruzioni nto paisi dassau
quandu u dilluviu universali di jà passau.
Ciancio, ntantu a valle s’ingrossava.
D’arretu da Rocca fici breccia
trasiu nto paisi comun na freccia.
pe casi e pa li strati passau la morti….
Urla disperate! ... Mani avvinghiate! …
19 vite,
dalla furia dell’acqua, trascinate.
disturbando il sonno di chi in pace riposava.
una Preghiera
per chi lottò quella notte
contro l’ingrata morte.
Silvana Trimboli
Caraffa del Bianco, 2021
.:.:.:.
A tutt’oggi l’elenco
definitivo delle vittime è nebuloso. Il NOTIZIARIO DI MESSINA(*) in data 8
novembre 1951 riportava i 15 nominativi già citati nel video. La tradizione popolare ne
ricorda18/19. Non vengono in soccorso né i registri comunali né quelli
parrocchiali. In questi ultimi sono elencati solo:
Marando Giuseppe
di Rosario anni 13
Marando Rosario
di Domenico anni 47
Portolesi
Caterina fu Pasquale anni 77
Sergi Michele di
Pasquale anni 15.
A questi bisogna
aggiungere:
Iermanò Serafina
di Francesco di 5 mesi
Zappia Filippo di
Domenico di 8 mesi
segnati nel
registro dei morti della parrocchia in data 18 ottobre 1951
e Iermanò Saverio
di Antonio di anni 90 registrato in data 20 ottobre 1951.
Antonio
Schimizzi morto durante i lavori di sgombero delle macerie era nato il 29
giugno del 1900 da Francesco e Musitano Francesca. Il 10 febbraio del 1929 sposò
Domenica Carbone di Antonio e Martino Anna Maria di 23 anni ed ebbero 6 figli.
(*) https://iloveplati.blogspot.com/2017/05/acque-del-sud-reg-howard-hawks-1944.html
In apertura:Particolare del
monumento alle
vittime dell’alluvione del 1951 di Platì realizzato dal pittore e scultore
messinese Antonello Bonanno Conti.
Nel video: Antonio Vivaldi, Concerto per Violino op. 7 No. 12 in re maggiore RV 214, Grave Assai, Claudio Scimone dir. - To be played at maximum volume.
Etichette:
1951,
PERRI,
Silvana Trimboli
martedì 12 ottobre 2021
Notte di terrore [di Andrew L. Stone - 1955]
DUE
PAESI DELLA CALABRIA CANCELLATI DALLA TERRAPazzi ad Africo e Casalinovo
per il terrore dell’alluvioneIl
drammatico esodo di 2.300 persone per un sentiero esposto ai pericoli delle
frane – Centinaia di malati nella scuola di Bova
REGGIO CALABRIA
27 – Le montagne che circondano che circondano Africo cominciarono a franare
nel pomeriggio di martedì 16 ottobre e investite in pieno dai macigni le prime
case, quattro persone rimasero seppellite sotto le macerie. Pioveva
ininterrottamente già da due giorni e che da un momento all’altro la montagna
potesse franare era stato l’incubo della popolazione. Ma durante il temporale
da quanti anni aveva vissuto sotto quell’incubo? Ora il rombo pauroso delle
rocce che precipitavano e la visione del terreno che lentamente slittava a
valle davano consistenza reale al timore di intere generazioni.
Sotto la pioggia
torrenziale, annaspando nel fango, la gente si precipita fuori delle povere
case che potevano trasformarsi in tombe da un momento all’altro. La montagna
continuò a franare. Pensarono in principio di trovare salvezza andando a
Casalinovo, ma già da quella vicina frazione cominciavano ad arrivare ad Africo
i primi fuggiaschi i quali avevano anch’essi abbandonato le case minacciate
dalle frane, raccontarono che durante il tragitto sei di loro avevano trovato
la morte.
E ora dove
fuggire? Africo e Casalinovo sono due fra i tanti paesi di Calabria non legati
da strade con il resto del mondo. C’è solo una mulattiera che porta a Bova
Superiore. Su questa mulattiera cominciò l’esodo della popolazione: 2.300
persone. Quanto terrificante sia stato il viaggio a piedi, sotto la tempesta,
per percorrere quei 2 chilometri in mezzo a burroni e precipizi, nessuno potrà
mai raccontare perché quelli che erano gli abitanti di Africo e di Casalinovo
erano soli con la loro disgrazia e con il loro terrone.
Quando finalmente
arrivarono a Bova, che è un paese privo d’acqua, di luce, di fognature,
credettero di essere giunti in paradiso. Ma fu solo una fugace illusione perché
subito cominciò l’inferno di Bova.
Ci siamo recati
ieri a Bova. Nella nostra vita di giornalisti, che pure ci ha fatto assistere a
tanta spettacolare desolazione e miseria, nulla avevamo visto fino ad oggi di
così terrificante sofferenza umana.
Siamo stati
alloggiati in un edificio scolastico, i profughi di Africo e Casalinovo,
avevano assicurato le autorità. Ma noi avevamo saputo già a Reggio Calabria che
tra essi si erano verificati, nei giorni scorsi, veri casi di pazzia. Però solo
quando siamo penetrati nell’oscuro corridoio della scuola di Bova abbiamo
potuto capire come un essere umano possa, per sofferenze fisiche, perdere la
ragione.
200
persone in un’alula.
Centinaia di
persone coperte di stracci, inzuppate, scalze, tremanti dal freddo, affamati,
stavano immobili, sedute per terra o in piedi, appoggiate alle pareti. Dovunque
volti scavati e sguardi pieni di terrore. Fuori pioveva, faceva freddo e le
finestre dovevano essere tenute chiuse. C’era un’aria irrespirabile ma non
riuscivamo a restare più di due minuti nell’inferno di quell’aula. In una di
esse ampia meno di dieci metri quadrati, vivono da martedì 16 ottobre 200
persone. E sono le più fortunate. Altre centinaia vivono in ambienti ancora più
piccoli o sono per i corridoi dove non penetra la luce ma il vento e la
pioggia.
Da dodici giorni
vivono così i profughi di Africo e Casalinovo. Non hanno materassi, non hanno
coperte, non hanno sedie, nella scuola non ci sono gabinetti, non c’è acqua
corrente, non c’è luce elettrica. 2.300 persone, in gran parte donne e bambini,
vivono da dodici giorni in questo inferno. Sulla strada non possono uscire
perché piove continuamente e fa anche più freddo. Altri sono stati ricoverati
nella sala municipale e vivono nelle stesse condizioni. Pochi sono quelli
rimasti nelle campagne intorno ad Africo sperando di poter salvare qualche capo
di bestiame che rappresenta tutta la ricchezza del paese.
Hanno
perduto tutto
Molte donne
sedute sul pavimento tenevano attaccati alle mammelle aride i figli,
nell’inutile speranza di poterli nutrire. I vecchi supini, con lo sguardo fisso
in alto, già sembravano cadaveri. In un angolo del corridoio. Presso una porta
della cui fessura penetrava furtoso il vento freddo dei monti, c’erano tredici
bambini seduti intorno alla madre, distesi su un mucchio di stracci. La donna
si lamentava sordamente, tremava, ansava e gettava intorno sguardi come per
chiedere soccorso. Stava per partorire. Ma chi poteva soccorrerla. Che cosa
potevano fare per lei le altre donne?
Un uomo ci venne
incontro con le mani tese in avanti, inciampava continuamente: ci accorgemmo
poi che era cieco. Ma quanti vecchi rasi dal tracoma non incontrammo in quel
triste edificio scolastico di Bova Superiore? L’immobilità di alcuni bambini ci
fu spiegata quando tornammo sulla strada fangosa, era paralisi infantile,
permanente.
Fuori continuava
a piovere e una nebbia densa veniva giù dai monti. Sulla strada ci fu più
facile rivolgere la parola a qualcuno. Quali soccorsi avete ricevuto? Un po' di
pastasciutta. Dove andrete? Non lo sanno, hanno perduto tutto, ad Africo non
possono più tornare. Il nome del paese può già essere cancellato dalla carta
geografica della Calabria.
RICCARDO
LONGONE
Testo e foto: L’UNITA’,
Domenica 28 ottobre 1951
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