…
generalmente …
a proposito della formazione delle tradizioni e della storia leggendaria di un
popolo si deve tener conto
del motivo tendente a eliminare dal
ricordo tutti i fatti penosi per il sentimento nazionale. Sigmund Freud
In attesa che veda la luce quel volume troppe volte annunciato come
“Storia di Platì” non si possono non ripercorrere, a tratti e all’occasione,
avvenimenti anche tragici che videro uomini cadere tanto inutilmente quanto
brutalmente. Rocco Sergi è stato vittima di un delitto inutile come saranno
quelli di Mimmo De Maio e Ciccillo Prestia. Mimmo De Maio, al contrario degli
altri ricordati, ha avuto l’onore dell’interesse dei media, spinti dal prestigio
attribuitogli da partito politico cui apparteneva, giungendo così al tributo con
una piazza a lui intitolata. Sergi e Prestia hanno ancora l’onore… dell’oblio.
Rocco Sergi è stato il primo ed unico martire dei moti che accaddero in
paese subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale all’alba della Prima Repubblica. Cadde compiendo il proprio dovere, come si
dice per un pubblico ufficiale. Ancora oggi il putiferio che echeggiava di
corse sul selciato, colpi d’armi da fuocoe l’agitazione di quanti cercavano di sottrarsi al peggio, risulta oscuro come la notte
in cui avvennero quei tragici eventi e che portarono alla sua inutile morte. In casi del genere è l’onore di una
popolazione che viene intaccato. Nella decade che conduceva al termine del
secolo, che vide atroci sciagure e più numerose vittime di stragi organizzate dai
poteri forti, la famiglia di Rocco Sergi in procinto di innalzare la cappella di
famiglia nel cimitero pensò anche di rinnovare la lapide dietro cui egli riposa, così incaricò lo zio Ernesto il giovane di redigere un’epigrafe da apporre sulla
lastra marmorea. Epigrafe rimasta anch’essa dimenticata che oggi vede almeno
un virtuale inserimento:
QUI GIACE
ROCCO SERGI FU ANTONIO
GUARDIA MUNICIPALE
21 GENNAIO 1907 +21 OTTOBRE 1945
PADRE AFFETTUOSO
CITTADINO ESEMPLARE
DEVOTO AL DOVERE FINO ALL’ESTREMO
SACRIFICIO DELLA VITA
QUANDO IL DOVERE NON ERA TRASCURATO
SENTITO
E IL SACRIFICIO SEMBRAVA FOLLIA
forse lo zio con l’onestà che caratterizzò la sua vita vide oltre/altro
...
Cirella è un centro collinare sul versante ionico dell’Aspromonte. Il
suo abitato ricade all’interno dell’incantevole paesaggio del Parco
dell’Aspromonte.
Cirella sorge ad un altitudine di 250 metri sul livello del mare, lungo il sentiero dei “due mari”, antico cammino
commerciale che collegava lo Ionio al Tirreno, attraverso incantevoli paesaggi.
Si trova a 16 km dalla statale 106 e a 9 Ciminà e 16 km da Platì e a 5 da
località “Pantanelle” sulla cresta dei monti aspromontani. Gli abitanti sono circa 900.
Nel suo territorio, in una parte dell’immensa “vallata delle pietre”, troviamo scorci di incredibile bellezza, i torrenti inerpicandosi sui monti si
trasformano in veri e propri canyons.
Modellate dall’acqua, formano delle singolari sculture, inoltre vi è la
presenza di diverse cascate: schioppo, hjascu trippusu, scalette dell’edera;
ancora, troviamo strapiombi dei monti
Iacono, Calacuri e Pentuduri, nomi significativi come la Rocca dei Smaliditti, la Rocca dell’Agonia e l' Aria del vento.
La nascita del paese si fa risalire al XVII secolo, là dove sorgeva
l’antica Barbatano dominio del duca di Bovalino, Geronimo del Negro, conte di
Quaranta. Il duca sposò Eufrasia Serbellone Manriquez, Principessa di Marano e
marchesa di Cirella oggi frazione nel comune di Diamante in provincia di
Cosenza. Si narra che la principessa era triste pensando alla sua terra
d’origine, oltretutto distrutta da un violento terremoto. Il duca per alleviare
la nostalgia della moglie gli regalò un feudo in segno d’amore, ella allora
scelse il Barbatano al quale fu dato il nome di Cirella per ricordare l’amata
terra di origine della principessa. La città divenne luogo di svago della
principessa, prospero e ameno.
Oggi gli antichi fasti sono ricordati nell’attuale chiesa Santa Maria
Assunta dove si possono ammirare un ciclo di pregevoli decorazioni in stucchi
di origine barocca. La chiesa prima della nascita dei cimiteri, avvenuta dopo
la legge del 1806, era anche luogo di sepoltura dei defunti.
La sapienza e maestria degli abitanti del luogo è testimoniata nel
ricco patrimonio di tradizioni nell’ambito dell’artigianato e della
gastronomia. La gente di questi luoghi vive principalmente di agricoltura,
pastorizia; di notevole importanza sono i prodotti latticini e
gli insaccati.
L’ambiente è ricco di manufatti di importanza storica quali i ruderi
della chiesa bizantina di San Nicola e alcune strutture murali quali mulini, frantoi e i classici pagghiari, un
tempo in uso per contadini e pastori e ricovero per animali. Inoltre si può
ammirare l’uso sapiente della pietra locale per realizzare selciati e muri a
secco (armacere o armacie) nel pieno rispetto del territorio circostante.
Ricca e variegata è la cucina tradizionale, si va dagli ricchi
antipasti a base di insaccati e latticini, dove predominano la soppressata ed
il caciocavallo, nei primi piatti predomina l’uso della pasta fatta in casa; la
melanzana “mbuttunata” è la pietanza forte di questi luoghi. La varietà e
tipologia di dolci segnano il susseguirsi delle feste: guti, ghiauna,
zeppole e nocatole; miele e noci gli ingredienti genuini.
La festa di San Rocco è la prima settimana di
settembre, è la più bella festa di Cirella e si protrae dal venerdì fino a
domenica. Venerdì si fanno dei giochi per ragazzi e arriva anche la banda. La
sera del sabato arrivano i cantanti. La domenica la mattina comincia a suonare
la banda assieme ai giganti, poi alle undici c’è la messa, quindi la
processione dove partecipano devoti che camminano scalzi e altri che si coprono
di spine.
Cirella la voglio sempre così, mi piace essere
cirellese e appartenere al mio dolce e incantevole Aspromonte dove ancora i
valori e le tradizioni di una volta rimangono intatti come segno di un tempo
che non ci abbatte.
Maria Lucia Malafarina
Scuola Media Cirella 1 D28/03/18
Testo
presentato alla Seconda Edizione del Premio Letterario "Ernesto
Gliozzi", 2018
Oggi vi racconto la storia di un piccolo Paesello, Cirella, il mio, con
le sue tradizioni religiose e culinarie e avvenimenti importanti che sono
rimaste nella storia. Cirella nacque nel diciassettesimo secolo e prende il
nome da una piccola isola in provincia di Cosenza anch’essa chiamata Cirella.
Anticamente Cirella si chiamava Barbatano. Il principe Caracciolo vendette al
duca Calvazzano le terre di Bovalino, Benestare e Barbatano, siccome il duca
era signore della città di Cirella di Diamante così cambiò il nome da Barbatano
a Cirella. Anticamente a Cirella vi fu la chiesa dell’Immacolata rovinata dal
terremoto del 1783 di cui ancora si conserva la statua nelle sua infinita
bellezza. Cirella ha molte tradizioni religiose tra le quali quella di San
Rocco il santo taumaturgico patrono del paese da tutti venerato anche dagli
emigranti che ancora oggi contribuiscono alle spese dei suoi festeggiamenti che
si svolgono la prima domenica di settembre. Le tradizioni culinarie sono tante
tra le quali quella di un dolce pasquale che sono le “Gute” composta da una
pasta brioche con decorazione di uovo, ci sono anche le “Jauna” fatte da pasta
frolla e ricotta vaccina, per Natale è solito fare delle ciambelle chiamate
“nocatule” ricoperte di zucchero. Due avvenimenti nella storia di Cirella sono
stati l’alluvione del 1951 e l’associazione del 1936. Purtroppo l’alluvione è
stata molto forte e non ha lasciato in pace neanche le anime del paradiso per
la forte pioggia ha portato alla luce cadaveri e scheletrii di tante persone.
L’associazione del 1936 per Cirella è rimasta nella storia a causa di un
omicidio sono stati arrestati tutti gli uomini del paese pur essendo che non
avevano nessuna colpa hanno scontato anni di carcere. Mia nonna racconta che
quando si tosavano le pecore doveva lavare la lana, pettinarla e farla asciugare quindi lavorarla al telaio come anche con la ginestra dovevano fare
gli stessi passaggi. Io sono fiera di essere Cirellese e amo il mio paese con
la sua storia.
PISTO MARIA EUGENIA
Cirella 28/03/2018
Classe 1 D
Testo presentato alla Seconda Edizione del Premio Letterario "Ernesto Gliozzi", 2018
Nella foto la navata centrale del duomo di Cirella.
Cirella è un paesino di montagna che nacque nel XVII secolo in piena
epoca classica. Fin dall’antichità il popolo cirellese andava nelle campagne
perché si viveva solo di agricoltura e per piantare gli ortaggi. Seminavano
anche il grano per poi trasportarlo al mulino dove aveva inizio la macinazione
da cui si ricavava la farina per uso quotidiano. La farina veniva utilizzata anche
per fare i dolci nel periodo pasquale. I dolci sono: Le gute e i hiauna. Le
gute sono realizzate con il lievito “Madre” con l’aggiunta di uova, zucchero,
latte e olio. Invece i hiauna sono realizzati con una base di pasta frolla
aromatizzata al limone e con il ripieno di ricotta, uova e zucchero. Tutti i
cittadini cirellesi avevano gli animali ad esempio come la mucca da cui
ricavavano il latte per fare i formaggi e i caciocavalli. Nelle loro case
c’erano due stanze, in una stanza c’era la famiglia e nell’altra c’erano gli
animali con i buoi, le capre e le galline. Le loro case erano formate dalla
cucina dal focolare e da alcuni bauli che tenevano la biancheria. Per fare gli
indumenti si facevano con le fibre tessili tra cui la seta, il cotone e la
lana. La seta veniva lavorata dal baco a maggio tra 3 – 4 settimane, quando è
nel periodo di metamorfosi produce dei bozzoli. Una volta queste uova venivano
messe nel petto delle donne per stare al calduccio, finché non usciva il
vermicello che si cibava solo di gelso. Il cotone invece proviene da una pianta
e per lavorarlo lo dovevano filare con il fuso e arrotolarlo fino a formare un
gomitolo. C’è anche la lana che viene ricavata dagli animali come la pecora che
viene sottoposta alla tosatura (una o due volte l’anno), che fornisce filati
voluminosi, morbidi e caldi. La tessitura di queste fibre viene effettuata con
i telai. La tessitura consiste nell’intrecciare fra loro i fili di ordito e di
trama. Il modo in cui si intrecciano i fili viene detta armatura.
Concludo che Cirella è un paese ricco di valori specialmente per le sue
bellissime montagne che ci circondano. Cirella è viva e vive in ogni cuore di
un cirellese.
Macrì Katya classe III D
Scuola Media Cirella
Testo presentato alla Seconda Edizione del Premio Letterario "Ernesto Gliozzi", 2018
Can you picture what will be, ... In a, desperate land. Jim Morrison
Il 29 dicembre scorso veniva a mancare il dottor Leone Fera, aveva
settantanove anni essendo nato a Platì il cinque ottobre 1939. Poco tempo prima
era deceduta la sorella Maria. Erano l’ultima progenie di Rosario, avvocato,
Fera e Giuseppina Zappia. Già da tempo si era spenta l’altra più anziana
sorella Grazia, sposa Coppola. Compiuti con successo gli studi, tutti avevano
deciso di lasciare Platì per dare avvio alle loro professioni. In paese, fin
che visse, rimase solo l’anziana madre che abitava nella casa situata dove la
via XXIV maggio incrocia il corso Umberto. E’ la fine di un distinto casato,
quello dei Fera. Ancora una volta conviene ricordare ai platioti l'amaro che
questi distacchi causano alla crescita morale di una popolazione altrimenti
lasciata a se stessa e dove anche la mancata manutenzione di un collegamento
stradale con gli altri territori, unita ad una emorragia da emigrazione,
sterilizza lo sviluppo delle coscienze, delle arti, e peggio, lo sviluppo
genetico/biologico.
Nella foto, una cortesia della Signora Nunzia Coppola, il dottor Leone Fera con la sorella Maria.
L’epigrafe iniziale apposta nella prima puntata di STILL
LIFE ad alcuni può essere apparsa poco inerente al testo ad essa legato. Thomas
S. Eliot e soprattutto Henry James sono da considerarsi gli adeguati
riferimenti per la lunga narrazione a quattro mani, dove un identificato gruppo
familiare è innalzato a protagonista della fluviale composizione che solo
grandi autori possono tentare ed Henry James a detta di tutti era tra questi. Come
oggi Rosalba Perri e Attilio Caruso per una storia che nasce da Platì, ne varca
i confini e sfocia nei continenti australi e americani. Il testo complessivo è
anche un valzer come quello della Band proposto sotto, gioioso e allegro ma
allo stesso tempo serio. Meglio di altre volte il concorso tra scrittura,
suoni, noise e immagini è servito a
ricreare, negli animi di quanti vanno a leggere, una condizione spirituale corrispondente
ai propositi degli autori. Niente di simile è mai stato tentato per Platì. Comporre
un metatesto che sfiora la scientificità, utile a ricostruire legami e affetti,
personaggi e attività … il corso della vita. La nascita di un casato e la sua
naturale disgregazione, questa volta senza rimpianti perché quelle vite rinate
per un istante hanno fatto ridestare altre vite, sommerse nel presente
quotidiano, che negano la dispersione annunziata nel precedente post. There is no end, but addition, come
chiudeva sempre lo stesso post. NOTA - Nella foto i fratelli Caruso:in primo piano Antonio (Totò) e a sinistra,
tagliato e accosciato, Rosario (Rorò) con in braccio Attilio piccolino e in pantaloncini cortissimi. Se ci fate caso doveva essere un Venerdì Santo sul Calvario, vista la presenza di un confratello di spalle in mantellina nera, di fronte l'aria di ventu.
"niente voglio e niente spero
ca tenerte sempe affianco a me" Califano-Cannio,1915
4
Gli
anni ’50 furono anche quelli dell’inizio della dispersione delle famiglie: i
giovani emigravano in Argentina o in Australia oppure andavano a studiare a
Roma, Torino, Milano e non tornavano se non per le vacanze estive. La morte del
capo-famiglia, poi, dava il colpo finale. Le madri si trasferivano a vivere con
uno dei figli, le case si riaprivano solo per l’estate e nemmeno tutti gli
anni. Non fece eccezione la grande famiglia di zio Francesco: la prima a
partire fu Marianna, figlia della seconda moglie, che andò in Argentina e fu
seguita dopo qualche anno da Rosario.
Anna
è l’unica ad essere sempre vissuta a Platì: “era figlia della prima moglie di papà, ricordo la casa dove abitava
all'inizio dell'Ariella, dopo il negozio dei giarruni. Abitava sopra la bottega
di falegname del marito, Pasquale Giorgio. Hanno avuto due figli: Domenico, che
vive a Platì e lavora al Comune, e Tita (Teresa) che vive in Australia, sposa
di Domenico Addabbo, morto un anno fa circa; a Platì, essendo molto
industrioso lo richiedevano tutti, da monsignor Minniti, ai componenti
la banda musicale o quanti avevano bisogno di un elettricista. Chi fu bambino
tra gli anni ’50 e gli anni ’60 lo ricorda soprattutto come proiezionista del
cinema parrocchiale .”
Giuseppe
fu disperso in guerra. “Tre fratelli l'hanno combattuta,” - racconta ancora Attilio - due sono stati feriti e uno, Giuseppe,
risultò disperso e mai ritrovato. Quindi, ormai da tempo, è stata dichiarata la
morte presunta. Ovviamente nessun risarcimento dallo Stato, con la scusa che
avrebbe fatto parte della "cessata Repubblica di Salò".* Cornuti e
mazziati, direbbero a Napoli. Era figlio di primo letto di mio padre. Nato
e vissuto a Platì, faceva il falegname. A casa mangiavamo su un tavolo da
pranzo fatto da lui, che, all'occorrenza, si poteva aprire e diventava il
triplo, con l'inserimento di otto tavole.”
Attilio
continua con il ricordo dei fratelli: “Rosario
faceva il barbiere in paese. Frequentava i vitelloni del tempo: Peppino
Gliozzi, Gianni e Mario Spadaro, Saro Morabito, Saro Zappia, poi emigrò in
Argentina, dove si sposò ed ebbe quattro figli. Li vivono la moglie Norma e i
figli.
Antonio, nato dopo di Rina, seguì le orme di
papà facendo il commerciante di generi alimentari, frutta e verdura. Lui fu
l'unico maschio a non sposarsi. In un certo periodo si vociferava di un
interesse per una delle figlie di Peppantoni, ma non se ne fece nulla.”
Domenico,
istruito come tanti a Platì nell’arte della sartoria maschile, fu collaboratore
di suo cugino Mimì Perri, grande sarto della borghesia romana e fratello di mio
nonno Peppantoni. Successivamente emigrò in Canada dove vivono la moglie
Colomba e tre dei quattro figli, la figlia Elisa è mancata un anno fa circa.
Benito
imparò a fare il sarto da mastro Nicola Addabbo che aveva la bottega verso “u
vajuni” e poi dal cugino Peppino u
muttuiu, ma frequentava anche la bottega di mastro Saverino Marando sulla
piazza del mercato, una specie di salotto paesano dove gli uomini si riunivano
anche a chiacchierare e, perché no, a fare una partitina a carte. Partito soldato,
in Piemonte dove si sposò, a Novara, aprì una sartoria con buon successo, ebbe
due figli, prima di separarsi dalla moglie. Benito ospitò il fratello più
piccolo, Attilio, che così lo ricorda ancora: “Ho potuto riprendere a
studiare ed ho iniziato a lavorare nelle assicurazioni. A Platì ero candidato a
fare il falegname da mastro Rosario Stancati. In seguito, ci raggiunsero mamma
ed Antonio e prendemmo casa vicino a Benito. Franca invece andò a vivere con
Marietta a Camigliatello, per via della prima figlia che era malata. Antonio
trovò lavoro alla Rhodiatoce, ma in seguito decise insieme a Benito di aprire
un negozio di Articoli Sportivi a Camigliatello Silano (Sci in particolare).
Quindi a fine anni Sessanta il grosso della famiglia si concentrò a
Camigliatello, mentre io andai a completare l'Università a Napoli, quando ero
già dipendente della SAI. A Napoli ho trovato ospitalità da Elisa che viveva lì
con il marito. Rina abitava a Catanzaro”.
Lo
zio Francesco contrasse una asma bronchiale cronica che lo portò alla fine, a
71 anni, nel 1958; la sua famiglia si è dispersa, tra l’Italia, le
Americhe e l’Australia, la sua casa sulla piazza del mercato non esiste più. ROSALBA PERRI & ATTILIO CARUSO
There is no end, but addition.
Thomas S. Eliot*
NOTE
- * In effetti Giuseppe, nella foto in apertura, col grado di sergente, cadde a
Pola, sotto il bombardamento, conseguentemente disperso, il 17 febbraio 1945. La notizia l’ho trovata qui:http://www.laltraverita.it/elenco_caduti_e_dispersi.htm
- Le foto incorniciate dal brano di Alan Lomax e Diego Carpitella ritraggono i piani di Zervò in autunno
- Nella foto centrale: Saro Morabito e lo zio Pepè (Gliozzi), un pò vanitoso, dove finisce la via Roma e si diparte la via XXIV maggio.
- Rosalba come commento musicale a STILL LIFE aveva pensato alle canzoni napoletane. Su questo argomento sono poco incline. Optando sulla tradizione calabra, per finire, non potevo tralasciare 'O surdatu 'nnamuratu eseguita dalla Fanfara di Piminoro il sabato sera, vigilia da festa i santu Rroccu all'uscita della messa celebrata, lo voglio ricordare, da don Pino Strangio alla fine dei ricordati anni '90 del secolo della bomba atomica. Devo ammettere una registrazione poco efficace, la foto appartiene agli eredi di Mimì "Colonnello" Fera.
*In my beginning is my end
per ricondurvi al principio di questo immenso racconto degno di Bernardo Bertolucci.
"... i ricordi d'infanzia sono plasticamente visivi, anche in quelle persone i cui ricordi ulteriori mancano dell'elemento visivo". Sigmund Freud
3
I
miei ricordi d’infanzia non sono legati strettamente allo zio Francesco che
certamente conobbi, troppo piccola per ricordarlo, ma alla sua famiglia,
specialmente a due delle sue figlie: Lisa (Elisabetta) che era la maestra di
cucito di mia zia Lisa, e Marietta che aveva una figlia della mia età, nata con
un grave handicap. Di Marietta ricordo il volto da madre dolente anche quando
sorrideva. Conservo ancora un’immagine: un lungo tavolo in una stanza da pranzo
usata anche come stanza da cucito con le due Lisa, maestra ed allieva, sedute
alla macchina da cucire, e Marietta che imboccava una ragazzina di sei anni
seduta in un seggiolone mentre sorrideva a me. C’erano altre donne nella
stanza, forse anche la zia Bettina, la loro madre, ma nell’immagine ci sono
solo Marietta e Lisa. È stata forse la prima volta in cui mi sono chiesta il
perché del caso: perché io ero una bambina sana, vivace, cicciottella e rosata
mentre la figlia di Marietta doveva essere imboccata dalla madre? Un senso di
colpa si insinuò in me, lo vissi come un’estrema timidezza. Per fortuna allora
gli adulti oltre a fare una carezza, offrire un sorriso ed un dolce, poco si
interrogavano sugli stati d’animo dei bambini e li mandavano fuori a giocare
con gli altri.Lo zio Francesco doveva
essere deceduto forse da un anno perché le figlie indossavano il lutto. Se ne
era andato a 71 anni, lasciando l’ultimo figlio appena tredicenne.
Il ricordo di Attilio:
“Papà, come si vede dalla foto, era elegante,
considerando tempo e luogo. È una foto degli anni Cinquanta, lui è morto l'11
febbraio '58. Sicuramente era un uomo che apprezzava i piaceri della vita, tra
questi il mangiare e il vestire bene. Ho impressi nella memoria i suoi cappelli
che indossava malgrado i folti capelli. Era comunque un uomo saggio e
dispensava consigli a noi figli e anche a chi frequentava abitualmente. Sapeva
essere diplomatico, riuscendo a gestire la varietà di caratteri e ceti sociali
degli abitanti del paese e dei dintorni che, per lavoro, frequentava. Era
rigoroso con noi nell'educarci al rispetto e all'onestà. Ricordo che diceva:
"ai soldi degli altri dovete dare del Voi, ai vostri date pure del
tu". Purtroppo, negli ultimi anni ha attraversato problemi economici
e di salute. Nonostante l'asma che lo ha condotto alla morte, ha fumato sino
alla fine. A noi figli ha saputo dare buona educazione insegnandoci la dignità
e l’etica del lavoro, dando un mestiere a tutti. Marietta era la prima delle
figlie femmine e presto imparò a fare la sarta da donna Concettina, moglie di
Rocco Barbaro. Caterina (Rina o Cata alternativamente) era la più
"folle": simpatica, espansiva, dalla battuta facile, faceva la
ricamatrice come pure Franca che, in più, lavorava benissimo
all'uncinetto. Franca insieme a Rina erano bravissime ai fornelli (leggi
fornacetta). Elisa pure faceva la sarta e confezionava gli abiti per sé e per
le altre sorelle. Devo dire che anche loro vestivano bene. Tranne Franca, che
fu la prima a lasciarci, tutte le sorelle si sposarono ed ebbero figli.” (continua) ROSALBA PERRI & ATTILIO CARUSO
NOTE
- La foto di Francesco Caruso, come quella di Lisa, Marietta e Rina sono di Attilio che le ha gentilmente concesse per questa occasione.
- La foto dell'uscita in processione della Madonna appartiene agli eredi di Mimì "Colonnello" Fera.
- Le registrazioni musicali sono mie: la prima in Platì negli anni '90, il Passu Cantandu è un "live in ciurr...."con suonatori locali.
Cicciu
come molti uomini della sua generazione, ma anche di quelle successive fino
alla Seconda Guerra Mondiale, era un autodidatta non tanto nell’imparare a
leggere e scrivere ché a quello ci pensava la scuola, ma nell’istruirsi nelle
lettere. Mio nonno Peppantoni, suo nipote, diceva di lui che con lo zio Ciccio
si poteva parlare di qualsiasi argomento.
Si era dato al commercio gestendo una bottega di
tessuti prima ed una di vino in seguito.
Come commerciante di stoffe, lo chiamavano Manganaro, paragonandolo ad un grande
commerciante di stoffe di Messina. Prosperava lo zio Francesco, tanto da far
nascere leggende, come il fatto che accendesse la sigaretta coi soldi di carta.
Oppure suscitava scandalo ed invidia che lui portasse un piatto di pasta
con sopra il formaggio alla gatta che teneva nella bottega. A me fa venire in
mente l’immagine di un uomo con un lato tenero ed affettuoso.
Sicuramente ha avuto alterne fortune nella sua vita economica. Stava
bene prima della guerra, poi la guerra ne rovesciò le sorti. Un
incarico amministrativo lo vide protagonista a Caulonia nel ventennio (non a caso diede al figlio
nato nel '37 il nome di Benito) ricevendo anche un’onorificenza. Il dopoguerra regalò
invece anni bui e di stenti che, come commenta il figlio Attilio, “in casa si facevano sentire e molto”. In
quegli anni aveva una bottega alla "cresiola"
all'angolo tra la 112 e via San Pasquale, dove vendeva il vino e qualche genere
alimentare, praticamente di fronte alla casa della sorella Cata. “Ricordo”, racconta il figlio Attilio, “che verso giugno, ogni anno prendeva delle
piante di fico in affitto per raccogliere i frutti dell'annata. Questo fondo mi
pare che fosse di Furore e si trovava di fronte al cimitero. Si chiamava
"u cianciano" forse dal nome del colono. Ricordo che veniva un perito
che stimava i frutti della singola pianta e con un coltello faceva sul tronco
tante tacche per quanto dovesse essere il canone: ogni tacca valeva dieci lire.
Il canone per i frutti dell'annata costava di solito 90-110 lire. Papà prendeva
tre piante coi fichi diversi: bianchi, neri e schiavi. Questi ultimi erano di
un nero scuro e vellutato, in assoluto i più squisiti. Spesso papà mi portava a
raccoglierli col paniereche, una
volta colmo, copriva con le foglie e a piedi tornavamo a casa. In quel tempo i fratelli Mittiga - Cicciu, Rosi e Ninu – impiantarono subito dopo l’alluvione
del 1951 il forno elettrico che, per il tempo e per Platì, fu un evento
straordinario, un panificio innovativo che arrivava a rifornire le botteghe di
alimentari dei paesi circostanti e perfino nelle marine. Una delle prime
mattine di attività del nuovo forno, all'ora della prima sfornata, rientrando
con i fichi appena colti, papà facendo la discesa che portava al forno, situato
nella traversa della Strada Statale 112 che divide ancora il paese, nota come
via 24 maggio, dove c'era anche il bar di Dante De Maio, prese dei filoncini
caldi e fragranti e, tornatomi vicino, ne estrasse uno e lo tagliò per la
lunghezza; sbucciando alcuni fichi, imbottì con essi il panino offrendolo a me
affinché lo gustassi. Al solo pensiero ancora ho l'acquolina in bocca.” (continua) Rosalba Perri & Attilio Caruso
Note.
- In apertura la Croce al merito di Guerra ricevuta da Francesco Caruso, bersagliere, per la sua partecipazione alla Grande Guerra.
- La foto centrale ritrae le Signore del forno elettrico dei fratelli Mittiga, dalla sinistra: Rosina Mittiga moglie di Rosi du bar, Ciccina Miceli, moglie di Ninu ca lapa e Caterina Marando moglie di Cicciu u carrarmatu.
- La registrazione musicale del primo video con Micheli u giamba e Silvano Barbaroè stata effettuata da me negli anni novanta del secolo delle stragi durante l'annuale festa du ritu.
- La foto del secondo video con registrazioni di Alan Lomax e Diego Carpitella, dalla vostra sinistra: la zia Jola sposa Tripepi, la zia Amalia, lo zio Pepè seduto e un non identificato signore.
He’s
like an amalgam of Henry Jamesand T.S. Eliot’s
di Rosalba Perri & Attilio Caruso
1
Circa
quattro anni fa, io, frequentatrice di quella folle piazza che è Facebook,
ricevo una richiesta di amicizia da una persona il cui nome mi suona familiare,
ma che non riesco a collocare nei ricordi se non come persona originaria di
Platì. Accetto la sua richiesta di amicizia e gli scrivo un messaggio:
“Siamo
forse parenti?” perché il dubbio mi era sorto.
“Se
sei la figlia di Pasqualino, allora lo siamo.”
“Sì,
e come?”
Lui
mi spiega, la mia memoria arrugginita non riesce ad inquadrarlo, però in sottofondo
cova ed in un lampo, qualche tempo dopo, ricordo.
La
mia bisnonna Caterina Caruso, madre di mio nonno Peppantoni, è vissuta fino
agli anni ’60. La ricordo vecchissima, seduta accanto al braciere, vestita di
nero, che tagliava vecchi abiti a striscioline per fare il gomitolo che poi
sarebbe servito a tessere le pezzare.
Aveva l’abitudine, quando riceveva la pensione, di dare del denaro a mio nonno
per comprare quei cioccolatini triangolari, simili a formaggini, avvolti in
lucida carta colorata, che poi nascondeva nel cassetto della “cifunera” (by the way, cifunera* viene dal francese chiffonnière) e dava a noi nipoti più
piccoli, spesso mesi dopo che erano stati comprati quando ormai sapevano di
stantio. Le mie zie li snobbavano, ma poi li mangiavano lo stesso. Ai nipoti
più grandi regalava del denaro, dicendo a ciascuno di non dire nulla agli
altri: era il suo modo di far sentire ognuno un po’ speciale.
La
nanna Cata aveva un fratello di nome Francesco. “U zi’ Cicciu Carusu” nato nel
1887, ultimo di cinque figli di Giuseppantonio, falegname, e Elisabetta
Mittiga, tessitrice.
Cicciu si sposò una prima volta a ventitré anni nel
1910 con Maria Trimboli e nel 1911 ebbero due gemelli: Giuseppe ed Anna. I
gemelli non devono essere sopravvissuti perché nel 1914 nacque un altro figlio
di nome Giuseppe Antonio e nel 1915 un’altra Anna. Maria non sopravvisse, forse
prese anche lei la spagnola che in
quegli anni mieteva vittime tra tutte le classi sociali, e nel 1919 lo zio sposò
Marianna Virgara da cui ebbe una figlia, Marianna come la madre. Anche la
seconda moglie morì e, a trentacinque anni, Francesco sposò Elisabetta Romeo,
di ben sedici anni più giovane di lui, da cui ebbe nove figli. In tutto, lo zio
Francesco ebbe ben quattordici figli, 12 dei quali sopravvissuti alla prima
infanzia. La persona che mi aveva contattato in Facebook era proprio l’ultimo
dei suoi figli, Attilio Caruso, che pur essendo cugino di mio nonno ha solo
nove anni più di me. (continua)
NOTE
-
Il film che Uberto Pasolini ha girato in Inghilterra con il testo oggi proposto e con le intenzioni con
cui questo blog si presenta hanno molto in comune: congiungere e ricostruire eventi fondanti dell’esistenza – la nascita, la
morte -quindi quel still è più da intendere come fermo; alla fine ne vien fuori una sinfonia
raffinatissima di immagini in cui il cromatismo di ogni narrazione riflette lo
stato d’animo degli autori e, come in un crescendo musicale, alza gradualmente
i toni riflettendo la metamorfosi emotiva da
risultare tanto apparentemente comune,
quanto profondamente speciale. - Per una volta tanto la base sonora è affidata alla musica
folk calabrese con registrazioni live effettuate nel 1954 da due tra i più
illustri etnomusicologi che attraversarono la nostra regione: Alan Lomax
(1915-2002) e Diego Carpitella (1924-1990)*.
- Attilio Caruso detentore dell’immagine d’apertura: “La foto con la casa: a piano terra abitava
una certa donna Pasqualina che aveva due figlie senza padre. Al primo piano
invece abitava don Giovannino Zappia. L'arco era una "lamia" dalla
quale si passava per andare verso la casa di Francesco Caruso. Questa casa fu
abbattuta agli inizi degli anni settanta”.
- *cifunera: mobile alto per riporre la biancheria con
tre cassetti e una cassa (baule) nella parte superiore .