Arrivo per la presentazione del libro di Michele e una notizia, quanto mai inaspettata, mi viene catapultata in petto: Micuzzu ha lasciato il suo posto di sacristianu. Durante l’incontro, nel fu Cinema Loreto di Platì, attraverso la finestra con vista sul balcone di casa sua, spero si manifesti per un istante. Tale sarebbe stata la mia letizia; niente, solo una sfuggevole Marietta. Siamo alla frutta! Lo dico perché la figura che egli rappresentava è stata l’istituzione più longeva, per quel che io ricordi da quando gattonavo in chiesa. Nel momento in cui tutto segnava il passo, i parroci, i reggenti la parrocchia, i casuali aiuti mandati da Locri, ma anche quanto attorno a lui accadeva, dai battesimi, ai matrimoni, ai funerali, alle solennità festive, si era certi che dalla chiesa Micuzzu non sarebbe svanito. Ancora: quando il coro non esisteva era sua la voce che intonava assieme all’officiante, così come la squilla era diversa quand’era lui a tirare le corde per messe, angelus o mortorio. Micuzzu è stato anche un’icona al pari di quella di San Paolo assiso su uno degli altari della navata sinistra e come il santo egli faceva fronte col mondo secolare che scalpitava fuori ed i cui rumori massacravano finanche i più semplici rituali ivi celebrati. Quel mondo secolare l’ho sempre visto come un qualcosa di staccato dagli influssi sacri, per i marcati e distinti colori che si avvicendavano in municipio ma, se ci pensate, anche per le diverse posizioni occupate: il municipio al di sotto la via XXIV maggio, la chiesa al di sopra. Quasi una linea di confine quella carrozzabile, una demarcazione che nessun prelato o sindaco osasse attraversare senza il relativo capo abbassato che era anche una disposizione. Gli unici ad valicala a testa alta erano i novelli sposi, con il loro corteo di testimoni, parenti, amici e le consuete ciurme di bambini, il loro vociare cristallino attirava gli sguardi dei più distratti, che dopo il rito in Comune si avviavano, tutti vestiti in abiti freschi di lavanda, verso la chiesa per fissare la data del vero obbligo, anche morale, dell’uno verso l’altra e viceversa.
Le opere e i giorni hanno cancellato ogni officiante comandato ai rituali laici o divini. Viepiù che il prelato incaricato dalla curia non è un nativo che parla lo stesso idioma del paese, limitato a subire le interferenze di chi occupando la carica di primo cittadino ha dimenticato, per la maggiore onestà e fedeltà del compito affidatogli, di lasciar in sacrestia le cariche ricoperte in quel contesto. Nei tempi dei miei ricordi, gli zii Ernesto e Ciccillo pur avendo avuto come compagni di gioco quanti andavano a sedere in consiglio comunale, tenevano cara la loro autonomia o, se preferite, non ingerenza pur avendo la stessa fede politica, talvolta indotta, e così in senso contrario. Quando, anche il primo cittadino, di color rosso peperoncino, teneva all’amicizia ed al rispetto del prelato figlio di famiglie che, seppur avverse politicamente, sedevano insieme nei banchetti lieti o tristi della vita. E nessuno, qualsiasi fosse il suo schieramento, avrebbe ardito portare la fascia tricolore nella processione della Madonna di Loreto o di San Rocco.
Nota
Questo scritto apparso sulla rivista in Aspromonte nell'ottobre scorso era stato redatto nel mese di giugno. La realtà ha superato la fantasia perché ho l'impressione che ci avviamo a divenire macchiette per un qualunquemente film con l'albanese di turno.
Nella foto in BN, sotto il vigile sguardo dello zio Ciccillo e di mons Minniti, Toto Delfino bacia l'anello a mons. Michele Arduino che resse la Diocesi di Locri-Gerace dal 1963 al 1972.
LA TRIBUNA DEL MEZZOGIORNO Giovedì 10 gennaio 1963
A cura
di Antonio Delfino
Le dolenti note della viabilità interna
Gli interventi d’emergenza dell’ANAS hanno bloccato il
traffico sulla S. S. 112
PLATI’, 9 – Tra le strade statali, che attraversando gli Appennini
congiungono i sue mari, la statale 112 è quella di maggiore interesse
commerciale e turistico.
Unisce, attraverso un tracciato pianeggiante, quasi 30 centri in fase
di sviluppo economico mentre vi gravita una popolazione di oltre 100 mila
abitanti.
Chiusa al traffico dal 1951 non è stata ancora ultimata perché l’Anas
interviene saltuariamente e non con un piano generale di lavori. Infatti gli
interventi passati sono stati improntati ad un piano d’emergenza.
Spesso i ponti e le altre opere non appena ultimati o cadono o vengono
coperti da detriti.
Un mese fa il ponte delle “ Cromatì “, già ultimato (e forse
collaudato), venne coperto da 500 tonnellate di detriti, secondo la perizia
dell’Anas.
Un solo cantoniere, saltuariamente, è preposto alla manutenzione del
fondo stradale, impervio e sconnesso ed ancora esistente in qualche punto,
mentre l’erba vi cresce come nei migliori prati inglesi.
E si lamentano che manca il pascolo!
Vengano i tecnici sul posto, e non in visite turistiche per vedere di
sfuggita qualche opera ed ammirare il panorama veramente stupendo.
Diceva Ferdinando IV di Borbone che “ le strade si collaudano con il sedere “. Aveva ragione, perché oggi
si collaudano con apparecchiature tecniche intrigate e moderne.
Le opere finora fatte con criteri slegati, dove spesso c’è contrasto
tra gli stessi enti operanti, portano al paradosso che prima si sistema la
valle e poi si iniziano i lavori a monte. Di questa drammatica situazione ne
risente la popolazione di Platì, che da quasi 12 anni è priva di una strada che
rappresenta la vita del paese per gli intensi traffici e commerci che si
svolgevano con i paesi della ricca Piana.
Mentre a monte la situazione è questa descritta, L’Anas continua a
costruire strade, autostrade e superstrade (persino di materie plastiche!),
mentre fa devolvere per i terreni attraversati dalla statale 112 la somma di
219 milioni, che la Cassa aveva destinato alla bonifica del Careri.
Questo è l’esempio più evidente di come l’Anas non intende dare un
assetto organico e definitivo alla statale 112.
Sulla costruenda strada della bonifica la situazione non cambia. Platì,
ai primi anni di questo secolo, doveva essere collegato con Bovalino attraverso
una strada che, costeggiando l’argine sinistro del corso del Careri avrebbe
dovuto portare al mare dopo pochi chilometri.
A questo progetto si interposero persone influenti per censo e per
politica, sicché i Platiesi ebbero un tracciato che per raggiungere Bovalino si
snoda per ben 25 km., con grave danno economico e spesso di … stomaco.
La bonifica del Careri riprese il vecchio progetto con qualche modifica
e si iniziò una strada che sembra il duplicato della statale 112.
Non viene mai alla luce, anzi, mentre dal ponte di Giulia verso
Bovalino sono stati iniziati i lavori di bitumazione, il rimanente tratto verso
Natile è ancora in fase di sistemazione di tracciato.
Come sempre i lavori iniziano dal mare verso la montagna.
Tralasciando il fatto che il progetto originario è stato modificato con
grande dispendio di fondi che sono poi quelli dei contribuenti, è possibile che
per la prossima primavera i Platiesi abbiano la nuova strada?
Noi ce lo auguriamo, in modo che Platì attraverso queste due strade
possa ridiventare un centro di traffici, di commerci e di turismo, che la
posizione geografica offre, in modo da recuperare gli anni perduti per
incomprensione generale, quando venne usurpata nei suoi sacrosanti diritti.
Vista con gli occhi di don Salvatore Carannante, la Siberia nel golfo di Napoli fa venire in mente Sepolto vivo, film, American International Pictures del 1962, di Roger Corman.
Il sette novembre (lo ricordato molto tempo addietro) è l'anniversario della morte del più grande scrittore di tutti i tempi: Sergio Leone Tolstoj. In famiglia però era l'onomastico dello zio Ernesto il giovane, non dimenticando per questo lo zio dello zio, Ernesto il vecchio. In quel clima autunnale a ridosso della commemorazione dei defunti, i più vicini (nella geografia) eravamo soliti sedergli accanto. Passed away, all, è tempo solo per il ricordo, e qui, ancora una volta voglio ripetere che senza lo zio Ernesto queste pubblicazioni non sarebbero esistite, è lui il vero artefice. Per festeggiarlo virtualmente ecco che viene fuori questo " omaggio augurale " di don Giacomino, scritto in occasione dell'ascesa all'altare dello zio, mentre nella foto egli è seduto sulla scalinata che porta alla Grotta di Bombile con i suoi giovani pellegrini.
Tassoni Oliva Giacomo
Platì (Reggio Cal.)
Platì 5 Dicembre 1937 – XVI
Al Neo Sacerdote don Ernesto Gliozzi
Entro la tua vigna, o Signore
Un fresco operajo oggi arriva:
la fede, già ardevagli in cuore,
si come una lampa votiva,
ancora fanciullo, allorquando,
lasciava la mamma e i balocchi
e l’arce ascendeva esultando
con lampi di sogni ne gli occhi.
Da l’arce – ove in tempi lontani
Il vecchio Suera à piantato
Con sue apostoliche mani
La santa ceppaja che à dato
Ne’ secoli a Cristo i polloni
Del Presule santo la voce
Chiamava : - Venite, voi Buoni
Voi Eletti – si appella la Croce!
E il piccolo Ernesto v’accorse
Al dolce richiamo, festante,
e tutto, d’allora, si assorse
di Dio nel pensiero costante.
E crebbe qual fiore di serra
Che il proprio profumo non perde,
ma dentro se stesso il rinserra,
né soffio contrario il disperde.
E Iddio del suo vergine cuore
Quel sogno degnossi appagare
Ed oggi, tra un vivo splendore
Di luci, egli ascende l’altare
Del Tempio ove il primo lavacro
Egli ebbe, bambino vagente,
e dove pur l’Ordine Sacro
riceve da Dio sorridente.
Ascendi, Levita di Cristo,
ascendi il raggiunto suo altare
cui oggi, più rabido e tristo
il mondo si affanna ad urlare
l’insulto di Satana, atroce.
Ascendi, o Levita, l’Altare
Su cui alta svetta la croce
Qual faro su torbido mare …
E al candido disco rotondo
Che il Corpo racchiude dio un Dio,
tu implora: i peccati del mondo
cancella, Tu Agnello di Dio.
Implora che venga il suo regno
Quaggiù, sovra l’arida terra,
e che la sua Croce sia pegno
di Amore che fughi ogni guerra.
E voi illustre Presule, al cuore
Stringete il novello Levita,
si come a trasponder l’ardore
di santa, apostolica vita:
l’ardore che tutti vi prende
nel Vostro sì gran ministero,
l’ardore che tutto vi accende
per tutto che è Santo, che è vero.
E su questa casa novella
Che apresi per la tua festa
Non strida giammai la procella,
non rombi giammai la tempesta
ma oggi e per sempre infinito,
si assida la pace e l’amore
e il prossimo nido fiorito
ricolmi ogni gioia il cuore.
GiacomoTassoniOliva
Questi umili versi gettati di un fiato, senza lima e senza contorni, dovevano
essere letti nel convivio di jeri. Per ragioni indipendenti dalla mia volontà,
non sono stati letti e, non essendo sicuro se il giorno dell’Immacolata son
presente, partendo domani per Reggio, li mando, a te, Ernesto, perché li tenga come l’omaggio augurale del
mio animo nella fausta ricorrenza della tua consacrazione Sacerdotale.
Il 10 gennaio (giovedì) 1963, La Tribuna del Mezzogiorno, quotidiano che si pubblicava a Messina, diffuse un intera pagina con il titolo Il progresso non passa per Platì, curata da Toto Delfino. Gli articoli e le foto che vi apparivano li andrò riproponendo per qualche giorno. Oggi è la volta del pezzo di presentazione, Siamo fermi al 1951. Sono parole emblematiche, ancora valide, ma, quello che più mi preme farvi notare, è la somma dei tradimenti con cui la realtà si scontrava e che non poteva dare origine a quanto è accaduto successivamente. E continua ad accadere ancora in questi giorni.
Siamo
fermi al 1951
PLATI', 9 - Dal 1851 al 1951 la popolazione di Platì era
aumentata con un ritmo più che proporzionale passando da 1635 abitanti a 4411,
tenendo conto delle guerre, emigrazioni, terremoti, mortalità ed altri fattori
che hanno influito sulle statistiche demografiche.
Sino al 1951 la popolazione per il 74 per cento si dedicava
all’agricoltura, mentre la rimanente parte ad altre attività. I redditi, pur
non essendo eccessivi, si contenevano in limiti di benessere. Fiorivano le
piccole imprese artigiane; i raccolti agricoli erano ottimi; i traffici ed i
commerci erano intensi, sicché ci si avviava verso un miglioramento delle
condizioni di vita.
Si arriva all’alluvione dell’ottobre 1951 che segna una data importante
nel destino di questa gente.
I morti furono 17; campagne devastate, colture distrutte, strade scomparse;
due terzi delle abitazioni invase dai detriti, raccolti perduti e redditi
nulli.
Vennero i primi soccorsi, si apprestarono i primi interventi di
emergenza che si rilevarono sin dall’inizio d’una provvisorietà sconcertante.
Si erogò l’assistenza in varie forme ma con metodi paternalistici.
Tuttavia il governo stanziò dei fondi che dirottarono verso altri
centri, in seguito
a varie pressioni di ordine politico.
La popolazione di Platì, che aveva subìto perdite umane rilevanti e
danni materiali non estimabili, ebbe la più esigua parte.
Finché la Cassa per il Mezzogiorno(come nella classica favola della
montagna che partorisce il topolino), nella compilazione del piano regolatore
di massima per la Calabria, incluse il territorio di Platì nei bacini di V categoria
(che è poi l’ultima), con una dicitura alquanto amena:
“ Bacino molto dissestato, con
interventi da effettuare soltanto per fini sistematori locali, in rapporto a
situazioni di emergenza per la difesa di particolari interessi pubblici “.
Quali fossero questi “ interessi
pubblici “ dovevamo saperlo più tardi, quando la Cassa devolse per la
sistemazione idraulica dei terreni attraversati dalla statale 112, 319 milioni,
già destinati alla bonifica del Careri.
Così il paese dal 1951 è in completo abbandono, la popolazione, in un
decennio (1951-1961), ha subito un decremento, le campagne sono abbandonate; i
numerosi torrenti (specialmente l’Acone, Mannara e Sanello) vagano liberi in
nuovi terreni ulivetati, completando l’opera devastatrice. La statale 112 è
chiusa al traffico dal 1951, frane e valanghe si accentuano sui fianchi
montani.
Aumentano le emigrazioni transoceaniche
(nel 1961-62 164 unità), mentre quelle interne ed europee si mantengono
con oltre 550 unità fluttuanti.
Mancano le iniziative individuali per l’insicurezza del domani in
questa valle soggetta a disfacimento. Le opere pubbliche fatte e che si fanno
sono improntate alla più netta provvisorietà. Abbondano i “ cantieri scuola “,
che disamorano l’operaio al lavoro. Però le tasse le contribuzioni arrivano.
Appunto da queste conosciamo nel nostro territorio di Enti di Bonifica.
L’illustre professore Bandini definisce l’opera di questi enti consorziali come
“ l’insieme armonico di tutti gli
interventi che si attuano su un territorio per portarlo ad un grado superiore
di produttività “.
Tralasciando il fatto che spesso il tutto è disarmonico e irrazionale,
possiamo affermare che i consorzi di bonifica sono strumenti creati dallo Sato
per sviluppare le infrastrutture necessarie allo sviluppo economico e sociale
delle popolazioni.
Quali infrastrutture necessarie sono state create in questi anni se non
qualche opera pubblica di lieve entità? E se opere pubbliche non sono state
fatte, come si giustificano i tributi che la popolazione paga a questi due
Enti?
La popolazione di Platì è stanca: Ha bisogno di fiducia. Occorre creare
“ ex novo “ un piano di sviluppo per il paese, con la creazione di opere
pubbliche di vasta portata che esulino dalla frammentarietà. Abbiamo bisogno di
una sicurezza naturale, presupposto alla sicurezza economica.
Miceli Pasquale, di
Francesco ed Elisabetta Catanzariti, di Platì (Reggio), nato nel 1804, vaticale*.
Condannato a 19 anni di ferri dalla Gran Corte Speciale di Reggio il 20
dicembre 1851, per discorsi in luoghi pubblici provocanti direttamente gli
abitanti ad armarsi, ma senza effetto.
Ricevuto a Nisida il 24 luglio 1852. Trasferito a Procida 15 giorni
dopo. Con un r. decreto del 26 ottobre 1858 la pena diminuita di 4 anni. Il 6
luglio 1859 in Darsena e quindi liberato per effetto del r. decreto del 16
giugno precedente.
Fu processato con altri sei, fra i quali una donna, Rosa Miceli, ma per
questi la Corte dichiarò abolita l’azione penale.
Al Sessanta fu nominato sindaco di Platì, e si adoperò a estirpare il
brigantaggio. Mittiga con la sua numerosa banda gl’impedì per 3 mesi di uscire
dall’abitato, e, quando venne il giorno dell’assalto Pasquale Miceli si batté
personalmente con lui. Arrestò il brigante Domenico Carbone, e fece che si
costituissero Jermanno e i fratelli Bisbanco.
La galera di Procida era la più vasta dei luoghi di pena dei dintorni
di Napoli e le facevano corona quelle di Nisida e d’Ischia e l’ergastolo di
Santo Stefano.
Monaco Attilio,I galeotti politici napoletani dopo il
Quarantotto, Libreria internazionale
Treves-Treccani-Tumminelli, Roma, 1932
Note:
* mulattiere
- Leggendo le pagine dell’Attilio oritano, si viene a conoscenza che la
Siberia era nel Golfo di Napoli per i rivoluzionari del Regno delle Due
Sicilie.
Per andare a Polsi, tanto dal versante del Jonio come da quello del Tirreno, si percorre per lungo tratto l’antica via Consolare o Traiana, che mette capo a Montalto, la più alta vetta della Calabria, esistente nel territorio della diocesi di Gerace, a 1950 m. sul livello del mare.
Oggi vi si può arrivare in automobile fino al Sanatorio, e quindi restano tre buone ore di strada mulattiera, giungendo a 1900 m. sul mare, alla contrada detta Cerasara e scendendo per giungere alla Valle prodigiosa, che resta a 900 m. sul livello del mare, ai piedi del gigantesco Montalto.
È precisamente il lungo tratto che Mons. Mittiga aveva sognato di trasformare in via carrozzabile, sogno che con molta probabilità avrebbe realizzato se gli amici, che lo circondavano, fossero stati sempre sinceri. Viceversa, il sogno ardito e geniale ha segnato l’inizio di una dolorosa odissea, culminata con la incompatibilità dell’alta carica di Superiore di quel Santuario, ove pure aveva tanto lavorato.
La posa della prima
pietra del Sanatorio pei tubercolotici di guerra ad Acqua del Faggio è avvenuta
ai primi di settembre 1923, presente il Vescovo Giov. Battista Chiappe che ha
eseguitola benedizione di rito, il Prefetto della Provincia, comm. Nobile, il
dott. Mannarella del Comitato Centrale dell’Associazione Mutilati, il dott.
Capua rappresentante la Croce Rossa, l’Ing. Pirrello con una eletta schiera di
professionisti e di quasi tutti i Sindaci dei Comuni più vicini. È stato quello
un giorno memorando che segnava l’inizio di una
imponente costruzione sorta per merito del Regime Fascista.
Il Sanatorio dedicato
al Re Vittorioso, è stato solennemente inaugurato il 28 Ottobre 1929 con
l’intervento di S. A. R. il Duca di Bergamo, di S. E. l’On. Manaresi, Sottosegretario
alla Guerra, presente il Comm. Birelli in rappresentanza della Presidenza del
Consiglio dei Ministri, il Prefetto di Reggio Calabria ed i Rappresentanti dei
Prefetti di Cosenza e di Catanzaro e molte altre Personalità del Senato, della
Camera, dell’Esercito, della Federazione Fascista ed ella Milizia V. S. N. con
molti Professori di Università. La cerimonia si è svolta preceduta dalla benedizione
impartita dall’Arcivescovo di Reggio Calabria, Mons. Carmelo Pujia.
Il Sanatorio consta dei seguenti fabbricati:
Il padiglione dei
servizi generali. -- È composto d’un corpo centrale unito a due laterali da
due ampie gallerie d’accesso, fabbricato su due piani e provveduto di locali
sotterranei. Il piano terreno del corpo centrale è destinato agli uffici di
direzione ed'amministrazione ed alla accettazione degli ammalati; il
primo piano comprende gli alloggi del personale
amministrativo. Nelle due ali sono sistemati gli alloggi per le suore e l’altro
personale d’assistenza e di servizio, maschile e femminile.
La cucina e la sala da
pranzo. -- Il fabbricato della cucina è retrostante al precedente. Costruito
con ogni ampiezze vi trovano posto tutti i servizi per la preparazione degli
alimenti, le operazioni di lavaggio e di disinfezione delle stoviglie, un
frigorifero Frigidaire, e numerosi
locali per dispensa e deposito. La cucina
ha diretta comunicazione con la sala da pranzo, spaziosa,
bene illuminata, aereata e riscaldata, a sezione semicircolare.
I padiglioni per gli
ammalati. - Sono in numero di due ed hanno la capacità complessiva di circa
170 ammalati. La loro orientazione verso Mezzogiorno assicura ad essi il
massimo dell’insolazione.
I due padiglioni sono identici: ciascuno è costruito su due
piani con un corpo centrale e due ali che si concordano con esso ad arco di
cerchio; nella parte frontale dei padiglioni sono distribuite le camere degli
ammalati - a due letti con doppio lavabo ad acqua corrente calda e fredda e
pavimento rivestito di linoleum - e le spaziose verande di cura. Inoltre ogni padiglione
possiede due sale di riunione, una camera da bagno con quattro vasche, un
servizio medico-chirurgico con sale di medicazione ed operazione, gabinetti per
indagini chimiche, batteriologiche e microscopiche, gabinetto di radioscopia e
radiologia, locali per disinfezione, cucina, guardaroba, magazzini ecc.
Oltre gli edifici ora descritti sono da noverarsi:
L'abitazione dei
medici, villino che sorge nelle adiacenze immediate del sanatorio.
La autorimessa,
per i veicoli in servizio del sanatorio, fra i quali è compresa una comoda
autoambulanza; il fabbricato comprende anche l’officina per le riparazioni, il deposito
del carburante e l’alloggio del personale addetto agli autoservizi.
La lavanderia,
fornita di acqua abbondantissima e degli apparecchi tecnici più moderni. Vi è annessa
una stazione di disinfezione con impianti completi per le disinfezioni generali
ed speciali.
La cappella per i
servizi religiosi. Nel sottopiano di essa è situata la camera mortuaria.
Il sanatorio è pure
munito dei seguenti servizi generali:
L'acqua potabile
derivata da sorgive purissime alla temperatura costante di 7° C. -- convogliata
al sanatorio per mezzo di un acquedotto espressamente costruito e distribuita
abbondantemente a tutto l’istituto.
Il riscaldamento
centrale, a termosifone, esteso a tutti gli edifici del sanatorio.
L'energia elettrica,
provveduta da una linea propria, tanto per illuminazione che per forza motrice.
Il telefono; la
linea telefonica del sanatorio si innesta alla rete generale della Calabria,
mettendo in comunicazione l’istituto con tutta l'Italia.
Alle confortevoli condizioni di soggiorno e di cura offerte
dall’istituto, si associano le attrattive dell’incantevole natura che lo circonda.
Secolari faggete e giovani abetine fanno da ogni lato corona al sanatorio per
vaste estensioni, ove gli ammalati trovano il conforto di comode passeggiate e
di soste riposanti. Splendidi panorami ne allietano la vista che per imponenti
discese dell’Aspromonte può spaziare sino all'uno ed all'altro mare.
Nel concetto dell’O. N. I. G. il Sanatorio Vittorio Emanuele
III sull’Aspromonte vuol essere la testimonianza tangibile dell’attaccamento
che l’Opera porta alle popolazioni meridionali. Quest’istituto benefico è il
primo che sorge nel Mezzogiorno continentale: presidio poderoso di lotta contro
il male e quindi emblema di civiltà, esso si apre tanto ai minorati della
guerra come a tutti i malati di petto, che tra le sue pareti ospitali troveranno
vigile, saggia e fraterna assistenza.
Attualmente il Sanatorio è da tre anni chiuso per costosi
lavori di restauro e trasformazione, a cura dell’I. N. F. P. S.
MONS. VINCENZO RASCHELLA’, Nuove Luci sul Santuario di Polsi, Pompei,
1938 - XVII
Note:
- Mons. Raschellà a Siderno, dove risiedeva, probabilmente non visionò mai il cinegiornale dell'Istituto LUCE. Oggi il suo testo è diventato il commento ideale a quelle immagini.
- Mons. Giosofatto Mittiga si avvalse di tutte le sue energie ed il suo potere per la costruzione della strada e l'edificazione del Sanatorio, per questo il ricorso al titolo in apertura. Leni Riefenstahl mi è sempre piaciuta come attrice e come regista ed, al di là della retorica e della propaganda nazista, il film citato rimane un esempio di vero cinema, che come ho detto in un post addietro, ha le sue origini in Caligari e Fritz Lang.
- Mons. Giosafatto Mittiga è ormai praticamente ignorato a Platì come don Gesufattinu Trimboli, anche lui per anni alla direzione polsiana, e nessun pezzo di marmo in paese li ricorda.
A polsi Mons. Mittiga gode ancora di questo ricordo ad opera dello scultore Vincenzo Jerace
Nel 1631, il detto casale fu visitato da D. Giovanni Mottamaros che, in sede di visita fiscale, vi eseguì un
censimento della popolazione attraverso il registro dei defunti della chiesa si
S. Maria di Loreto. Il controllo effettuato porta per porta, (ostiatim) potè
accertare la presenza di 80 famiglie e di 210 abitanti. Nel 1642, una « nova
numeratio Casalis fundaci, alias Platì », vide decrescere la popolazione a 132
abitanti,dediti, per la maggior parte, alla pastorizia. Oltre a un esiguo
gruppo di case, esisteva, allora, un’altra chiesa, nella parte centrale
dell'abitato, più « un carcere senza carcerati» ed una sola via di transito.
Durante il terremoto del 5 febbraio 1783, il nuovo centro che contava 1143
abitanti, subì la distruzione di gran parte dei suoi edifici, con 25 vittime e
danni considerevoli, per l’ammontare di centomila ducati, in base alle cifre
della perizia condotta dalla Giunta di corrispondenza e della Cassa Sacra.
Nel 1861 il territorio di Platì fu teatro di un sanguinoso brigantaggio
capeggiato da Ferdinando Mittiga, il quale aveva inquadrato nella sua banda,
grosse schiere di contadini renitenti alla leva e di delinquenti comuni, al fine di provocare la reazione contro il nuovo Stato unitario
italiano. Tale banda fece credere ai legittimisti di Francia e di Napoli che il
Mittiga disponesse di forze ingenti, sicchè fu inviato il generale spagnolo Josè Borjes, con altri 22
ufficiali, che avevano il compito di galvanizzare le velleità combattive dei
banditi.
Ma la spedizione militare dall’esterno non poteva che fallire, ciò che
determinò l'uccisione del Mittiga e la fuga del Borjes. Si concludeva così, tristemente, uno dei
tanti episodi del brigantaggio politico, fenomeno non trascurabile della questione
meridionale, dalla quale, peraltro, non andavano disgiunte le cause di ordine
economico e sociale.
A distanza di un secolo
dall’unità italiana il comune di Platì ha visto il graduale aumento della sua
popolazione, nonostante il salasso di due grandi guerre, e la forte spinta migratoria
verso il Nord e i rovinosi effetti delle più recenti alluvioni.
L'espansione demografica in atto, accompagnata da vivi fermenti di
rinascita, induce alle migliori speranze sull'avvenire economico e civile del
Paese, che ha, tra l'altro, un'eccellente posizione geografica, a cavaliere
dell' Jonio e del Tirreno.
Antonio Delfino
ALBO D’ONORE
1 Giuseppe Delfino,
maresciallo dei carabinieri, ebbe notorietà in Calabria, col nome di « massaro
Peppe ››, per le sue brillanti azioni poliziesche. Corrado Alvaro gli dedica una
novella, nel libro « L'amata alla finestra ›
2 Giuseppe Fera (vivente),
insigne medico e valoroso combattente, è
la persona più rappresentativa della cultura locale aperta, nello stesso tempo,
al culto delle lettere e delle scienze.
3 Vincenzo Papalia, medico
chirurgo, scrisse alcune opere di carattere scientifico, andate purtroppo
disperse. Professionista e filantropo, egli seppe coraggiosamente affrontare le
vessazioni dell'odio politico, senza mai rinnegare le sue idee.
4 Agostino Mittiga, avvocato
e giornalista, visse a Roma, esercitando l'attività forense, presso la Sacra
Rota. Era una delle figure più note nella Capitale, per la sua profonda conoscenza
dei problemi giuridici.
5 Francesco Portolesi,
professore di chiara fama, latinista rinomato e poeta versatile, pubblicò numerose
poesie che trovarono larghi consensi. Più famoso è il libro intitolato: «La luce
››.
6 Giacomo Tassone,
agricoltore e poeta umorista, scrisse decine di poesie, già tanto ricercate, e
anche oggi non prive di freschezza immaginativa. Letterato ed uomo di profonda
cultura, ha lasciato di sè durevole ricordo.
7 Nicola Spadaro, farmacista
attivissimo, fu uomo di grandi virtù e chimico esperto.
Con generoso altruismo, egli profuse, intorno a sè, la luce del sapere
e della bontà.
Tratto da:
STORIA E CULTURA DELLA LOCRIDE,
a cura di G. Calogero, Editrice LA SICILIA Messina, 1964
Note:
-Saverio Mittica, per l’esattezza Mittiga,
sacerdote, professore e scrittore, trascorse buona parte della sua vita
lavorando e servendo Dio a Napoli. Egli era fratello di Rocco Mittiga, padre
della nonna Lisa. Mentre Giuseppe Fera, sempre alla nonna, veniva cugino per via della mamma, Caterina Fera.
Agostino Mittiga era cugino del primo Abate Nullius di Polsi, Mons Giosofatto Mittiga.
Il suo personale albo d’onore il simpatico e
lodevole Toto Delfino lo apre e chiude in famiglia: per altro, la sua cronistoria
platiota è indiscutibile, illuminante, facendo sorgere l’idea che un tempo,
inizialmente, esistessero due comunità in quel territorio, quella di Sancta Barbara e quella che avrebbe dato
origine al paese vero e proprio. Su questo può indagare solo Francesco di
Raimondo.
Rimango e vi costringo a sostare ancora nelle pagine del libro citato nelle
ultime pubblicazioni. Ci spostiamo a sud- est di Bombile: altra terra, altro
passato, altre vicende che ancora non trovano sosta, il nostro paese.
L’autore
non ha bisogno di presentazioni incastonato com'è con la storia del paese che
qui ci svela. Ancora: questo post è dedicato a Giuseppe Barbaro (30 - 09 -1962/20-10 -2016) vittima della pace. http://www.inaspromonte.it/plati-barbaro-giuseppe-discriminato-vita-morte/
PLATI’
L’etimologia di Platì, secondo la tradizione locale sostenuta anche da Saverio Mittica nel 1878, risale alla voce « prata » (prati), che ha sapore di poesia idillica. Il Moscato, invece, fa derivare il nome del Paese, dall'etimo greco << platus >> (largo, ampio, esteso) da cui sarebbe spiegata anche la topografia della valle. Si tratterebbe, in questo caso, del greco bizantino, anzichè di quello antico, in considerazione del fatto che nell'Aspromonte orientale, ad opera di monaci basiliani, vennero a costituirsi delle fiorenti « grancie ››, che erano altrettanti centri di vita economica e spirituale. Detta tesi è però contrastata dal prof. G. Roholfs che propende per l'origine del nome dal greco antico, più che da quello neo-ellenico. Finalmente, della questione controversa ebbe ad occuparsi anche il prof. Zangari, uno dei cultori più dotti di storia patria, il quale prospetta, invece, un'altra versione, secondo cui la voce << pratos ›› (venduto) starebbe a significare il passaggio del feudo, da un possidente all'altro. In definitiva, per lo studioso sopra citato, il nome di Platì deriverebbe dalla successiva alterazione delle voci « protì ›› e « prati ».
Lungo i fianchi dell'Aspromonte orientale, si diparte da Monte Scorda, verso il mare Jonio, una dorsale, con pendio prima lieve e poi più ripido, che raggiunge la valle in cui scorre l'impetuoso Careri. Là dove il fiume si contrae in una specie di strozzatura, sorge l'abitato di Plati, la cui origine, stando alle fonti più accreditate, deve farsi risalire al secolo XVI. In quel periodo, mancando ai centri arroccati sui monti, ogni possibilità di espansione demografica, ebbe inizio l'esodo degli abitanti verso le valli, con la conseguente formazione dei primi agglomerati urbani. Tale pressione si accentuò per effetto del rapace fiscalismo che colpiva le famiglie più povere, tassandole per numero di fuochi, e mettendole in condizioni di dover abbandonare i vecchi centri medioevali, già sorti a causa delle incursioni piratesche e della malaria dapprima imperversante nelle zone costiere. Nel 1496 il re Federico d'Aragona concesse al conte Tommaso Marullo ( che aveva già ricevuto l'investitura del feudo di Condojanni e della baronia di Bianco) alcune foreste, riservandosene l'uso, per l'allevamento delle giumente reali. Poi, verso il 1507, Ferdinando il Cattolico rivendeva le foreste allo stesso conte, sotto vincolo di pagamento del canone, alla scadenza di sei anni. Secondo una comparsa anonima feudale, esisteva allora, fra quelle foreste, << quoddam territorum nominatum del Plati et de Sancta Barbara », lo stesso che il re aveva venduto precedentemente (20 febbraio 1505) a don Carlo Spinelli. Da una situazione cosi aggrovigliata, scoppiarono interminabili liti tra il Conte Marullo e don Carlo Spinelli, protrattesi per decenni, e riguardanti la delimitazione dei confini e delle rispettive pertinenze territoriali. Senonchè nel 1517, Carlo V e la regina Giovanna (Carolus et Joanna Reges) confermarono definitivamente, a don Carlo Spinelli, le terre del Fondaco di Platì e di Sancta Barbara. Gli succedette il figlio Pirro Antonio che verso il 1546 fece costruire, nella valle del « flumen Chareria ››, le prime rozze capanne di pastori costituenti il primo nucleo urbano. A Pirro Antonio, fondatore di Platì, tenne dietro, nel 1555, il figlio Carlo, il quale, pagando il relevio, venne investito dei beni paterni, ottenendo, nel 1557, il titolo di duca sullo stesso feudo. Disavventura volle, però, che il crescente sviluppo del nuovo abitato suscitasse le invidie e le gelosie del conte Vincenzo Marullo, nipote di Tommaso e figlio di Giovanni. La contesa si trascinò, così, per alcuni anni, finchè, nel 1568, il sacro regio consiglio non ebbe riconosciuto i diritti a Carlo Spinelli, ratificati ed omologati anche dal conte Marullo, in omaggio alla volontà del sovrano. Nel frattempo (1465) era rimasta erede della contea di Cariati, donna Francesca, figlia di Giovanni Spinelli, la quale, in seguito a dispensa apostolica, potè sposare Scipione, figlio di Carlo e duca di Seminara. Fu lui, difatti, ad assumere, nel 1569, i diritti ereditari sul casale di Motta Platì.
continua ...
Antonio Delfino
Tratto da:
STORIA E CULTURA DELLA LOCRIDE,
a cura di G. Calogero, Editrice LA SICILIA Messina, 1964