Vuoi per la
scelta azzeccata dei premiati, vuoi per la loro presenza, insieme a quella di
altri non meno importanti intellettuali e personaggi accorsi dalle località
della provincia, la serata del 28 dicembre 2019 è stata una ulteriore
dimostrazione delle capacità organizzative dei soci della platiota Associazione Santa Pulinara che per il
secondo anno consecutivo indice il premio Giornalistico-Letterario
ANTONIO DELFINO. Ma non era tutto oro quello che luccicava negli occhi di
quei temerari, avendo bene in testa le reali difficoltà che l’organizzazione di
un evento così importante richiedeva e la scarsa locale manodopera.
A chi era assente
comunichiamo che la serata è stata presentata da Lucia giarruneiu Catanzariti e coordinata da Maria Teresa D’Agostino.
Se per l’avvocato
Francesco Bevilacqua, vincitore per la saggistica con il suo lungimirante “Lettere meridiane. Cento libri per conoscere la Calabria”, il Premio
è solo un pretesto, la scusa per stare insieme e fare comunità, bisogno sempre
più impellente nell'era dell'apparire social. Ma la condivisone delle comuni
radici deve essere reale non virtuale.La sua opera è destinata a indicare la testimonianza della vitalità della letteratura calabrese, e degli autori
più significativi, per le future generazioni. In quella sede si è scoperto che Francesco Bevilacqua è un camminatore
alla Henry David Thoreau e un amante degli alberi alla Jean Giono!
Mimmo Gangemi, premiato per
la narrativa con il suo acuto “Un acre
odore di aglio”. Allo scrittore gli si riconosce un modo originale di
narrare, mettere in discussione, se non altro la gente d’Aspromonte, gente di non facile trattazione. Egli ci offre il suo tributo ad Antonio
Delfino, guardato a volte con invidia. Gangemi, un fedelissimo delle iniziative
pulinarote, ancora una volta ci
ricorda i legami di parentela intessuti tra Santa Cristina d’Aspromonte e Platì
e precisamente con la famiglia di don Gustinu
Mittiga, quando le carreggiate erano un legame per lo sviluppo dei rapporti
tra i territori che sconfinavano sino alla Piana;
ripresa di rapporti auspicata anche dal presidente del Parco dell’Aspromonte dottor
Domenico Creazzo presente alla serata, finendo col renderla preziosa.
La zafrata e il suo creatore Domenico Carteri al Premio Delfino, Platì 28 dicembre 2019. Premio doppio andato a Francesco Bevilacqua per la saggistica e a Mimmo Gangemi per la narrativa. In calce l'artistica entrata della residenza dell'autore presso Ferruzzano a mare.
All’udienza del dì diciassette Aprile mille ottocento settantanove il
Signor Michele Agostini Pretore del Mandamento di Ardore ha emesso la seguente
sentenza
Nella Causa Civile tra
Pasquale Zappia fu Filippo commerciante domiciliato in Platì, attore
comparente di persona =
Contro
Filippo Fera di Giuseppe possidente domiciliato in Lubrichi sotto
Comune di S. Cristina d’Aspromonte ed elettivamente in Ardore in casa del Signor
Caracciolo Carlo, convenuto, due volte citato contumace =
L’attore si è rimesso agli atti della causa dodici e quindici andante
registrati a Marca, coi quali conveniva in questa Pretura Filippo Fera di
Lubrichi citandolo nel suo domicilio elettivo qui in Ardore, per essere
condannato in linea di commercio alla consegna di una botte e mezzo di olio
d’oliva chiaro, lampante, equivalente a quintali sei e chilogrammi sessanta che
consegnar doveva all’istante a tutto Marzo ultimo al che non adempì, rimanendo
debitore di una botte ed un sesto pari a quintali cinque e chilogrammi dieci =
In mancanza del genere chiedeval’importo in Lire quattrocento venticinque; unitamente agl’interessi
pattuiti del dodici per cento da far capo dal trentuno Marzo al finale sodisfo
e le spese del giudizio colla indennità di trasferta e per scritturazione ,
nonché alla penale anche pattuita in altre Lire duecento, per danni ed
interessi liquidati e transatti; producendo in appoggio della sua domandadue biglietti ad ordine, datati entrambi il
ventinove ottobre mille ottocento settantotto =
Il Convenuto citato non è comparso né altri per lui =
In fatto consta della domanda dell’attore nel modo come sopra
concepito, e della contumacia del convenuto due volte citato nel suo domicilio
eletto in Ardore =
Considerando che i due biglietti all’ordine, alla cui base l’attore
poggia la sua domanda, non essendo stati protestati alla scadenza con atto
legale com’era di dovere, hanno perduto la qualità di documenti commerciali, e
si riducono semplicemente a titoli privati di natura civili = Per ciò in forza
dei medesimi non può ammettersi l’azione commerciale che l’attore vorrebbe
istituire =
Considerando
per tanto e due scritture anzitutto non possono mai perdere il valore di
scritture private, le quali non essendo state in verun modo impugnate dal
Convenuto atteso la sua contumacia debbono ritenersi come legalmente
riconosciute e quindi attribuirsi loro la stessa fede giuridica e l’efficacia
degli atti pubblici, ed in conseguenza capaci a rendere pienamente giustificata
la domanda dell’attore e come tale aggiudicarsi in tutto il suo tenore tanto
per debito principaleche per
l’interesse pattuito e per la penale reclamata per l’inadempienza dell’assunta
obbligazione = art. 1232 – 1312 – 1313 e seguenti – 131 e seguenti – 1320 e seguenti
Codice Civile
Considerando
che le spese del giudizio sono sempre a carico del soccumbente art. 370
Procedura Civile. E che poggiando la domanda sopra documenti può ordinarsi
l’esecuzione della Sentenza.
- Per quali motivi
–
Il Pretore
diffinitivamente pronunziando in contumacia del Convenuto Filippo Fera di
Giuseppe di Lubrichi due volte citato, senza però le funzioni di Giudice di
Commercio, condanna il medesimo di consegnare all’attore Pasquale Zappia fu
Filippo da Platì una botte ed un sesto di olio di oliva di buona qualità,
chiaro, lampante, eguale a quintali cinque e chilogrammi dieci, dovuti giusta i
due biglietti all’ordine ventinove ottobre mille ottocento settantotto = Per
mancanza del genere lo condanna all’importo in Lire Quattrocento Venticinque = Agl’interessi convenzionali su tal
somma, al dodici per cento a far tempo dal trentuno Marzo prossimo passato fino
al totale sodisfo, ed oltre Lire duecento per danni interessi liquidati e
transatti, alle spese del giudizio liquidate fino a giusta sentenza e registro
per Lire 24:50 e Lire Cinque per indennità di comparsa e scritturazione =
Ordina L’esecuzione provvisoria di questa sentenza, la quale sarà notificata al
Convenuto Contumace Fera nel suo domicilio reale da uno usciere della Pretura
di Oppido che verrà da quel Pretore destinato.
Così
giudicato in Ardore all’udienza diciassette Aprile mille ottocento settantanove
= Il Pretore firmato M. Agostini =
Pubblicata
alla detta udienza diciassette Aprile mille ottocento settantanove in assenza
del Convenuto.
Il
Cancelliere firmato G. Fragomeni.
NOTA. La lotta Zappia
vs Fera si protrasse fino all’anno 1884 e forse non ebbe mai fine. Quel che interessa
oggi è un mondo scomparso, legato ai cicli della Terra, ancora feconda; agli
scambi tra paesi limitrofi e le strade carrabili in intenso impiego per il
transito di muli e mulattieri come anche di lavoratori stagionali; dove l’olio
era alla base di rapporti che sconfinavano in scontri a colpi di carte bollate
per il beneficio dell’erario, funzionari governativi nonché Notai e avvocati
che, allora, avevano cospicui guadagni in pecunia ed in natura.
Il regista di oggi non era Cosentino bensì Katanese!
Questa storia la scrivo di fretta così come l’ho scoperta. Stavo lavorando
ad un mio progettino quando rileggendo la lettera di Pasqualino Perri ai platiesi
mi fermo su un nome che in un primo tempo mi era sfuggito: generale Gelonesi
luminare della medicina tropicale. Incuriosito e senza nessun documento a
portata di mano mi affido al web. E questo è quanto ho scoperto.
Il generale di nome andava Gregorio ed era nato a Cirella il
15 dicembre 1882, il registro di quell’atto riporta ancora Cirella come
frazione di Benestare. I suoi genitori erano Francescantonio di anni trenta
contadino e Maria Mavrelli levatrice. All’infante viene posto il nome di
Gregorio Natale. Testimoni dell’atto sono Antonio Mediati di anni cinquanta, bovaro
e Matteo Varacalli di anni trentotto, pecorajo. Malgrado l’umile origine
Gregorio raggiunta la maturità nel 1907 si iscrive in Medicina all’Università
di Napoli. E lì probabilmente ebbe come compagno di studi lo zio Giuseppino, al
secolo Giuseppe Mittiga figlio di Rocco e Caterina Fera. Nel 1908 lo troviamo
come soccorritore tra Reggio Messina subito dopo il disastroso terremoto. Prese
parte alla guerra italo turca del 1911-1912 e alla Grande Guerra imbarcato
sulla Caio Duilio. Al termine del conflitto abitava a Napoli in via Margellina
al numero 205 e sempre in quella città si specializzò in batteriologia per cui fu
destinato dapprima a varie aziende agricole coloniali e successivamente ricoprì incarichi di primo piano presso Ospedali Militari e diverse Facoltà di Medicina
tra cui quella dell’ateneo Messinese, ma qui siamo già sotto il “Regime Nero”.
A cui egli prese parte facendovi carriera ed ottenendo diverse onorificenze tra
cui la medaglia d’oro della Sanità Pubblica e Cavaliere dell’Ordine Militare d’Italia.
L’11 settembre 1942 si trovava a bordo della nave ospedaliera “Arno” quando
questa fu silurata e abbattuta dagli inglesi. Tratto in salvo, dopo due giorni
e due notti in mare, fece ritorno in patria e reintegrato nei corpi della
marina e lì lo ritroviamo come Tenente Generale medico della disciolta regia
marina che prese parte alla Repubblica Sociale di Salò. Fatto ritorno a Napoli
dopo il 1945 vi rimase fino al 29 giugno 1954 giorno della sua morte. All’attivo ha
diverse pubblicazioni inerenti la sua specializzazione universitaria riconosciute
a livello mondiale.
Una curiosità: i giapponesi il nostro l'hanno tradotto così 格雷戈里奥·格隆内西,ma lui non è arrivato a scoprirlo!*
La morte del vostro Sig. Padre, matura come l’età, non come
intelligenza, la quale ultima, non ostante quella, era giovane ancora, non
poteva nel dolore che me ne ha colpito, non impormi a scrivere queste poche
pagine, che sono un segno, come tributo di devozione alle sacre sue ceneri,
dell’autore che io serbavo e serberò sempre per sì illustre collega.
All’urna, che custodisce le venerande sue spoglie, sarà conforto
imperituro l’Eden; al vostro eterno dolore, la virtù d’un padre, padre adorato,
che spirò tra il culto della scienza e la preghiera dei nostri antichi avi.
Vi riverisco.
Vostro Devotissimo Compare
V. PAPALIA
Platì, 7 Marzo 1894
Le foto si riferiscono a quel che rimane dei coniugi Giuseppe Morabito (1845-1925) e Maria Filomena Luscrì fu Rocco (1876-1947).
A Platì, durante la novena che si svolge prestissimo, alle 5.00, secondo la più fedele tradizione, in una chiesa gremitissima ogni mattina,
è stato posto nel cuore della chiesa un grande albero spoglio e nudo. Colpiva la sua nudità. Esistenziale. Altamente simbolica per
attese di giustizia, gridi di pace, speranze nascoste nel cuore di tutti...
Tutto vi era rappresentato. A Natale, il miracolo. L 'albero “nudo” ' è stato
sostituito da un grande olivo verdeggiante. Non da un albero di abete, che non
appartiene direttamente alla nostra cultura, ma da un albero di olivo, quell'albero
cioè che orna le nostre colline e ricrea il cuore nel vederlo argenteo al sole,
pur nella dura fatica, quest'anno, di un raccolto sotto la pioggia insistente.
A San Luca protagonisti del messaggio natalizio sono stati i
ragazzi della Scuola elementare guidati dalle maestre e sostenuti
entusiasticamente dal parroco. Hanno ricostruito luoghi e ambienti del tempo di
Alvaro, hanno lanciato un messaggio di riscoperta delle tradizioni più genuine
del popolo calabrese, pur nella consapevolezza che è “dura la vita dei pastori
in Aspromonte”. L ‘intero paese si è mosso, rispondendo con favore alle sollecitazioni
e agli stimoli offerti. “Un Natale con i fiocchi”, appunto, anche se di neve
non c 'era l 'ombra.
Da Africo è partito invece un chiaro messaggio di impegno ed
una proposta decisa. L 'hanno rilanciata i ragazzi, i docenti e soprattutto la
coraggiosa preside della Scuola Media. Chiedono un edificio per la scuola. Per
capirli, basta visitare un attimo l'attuale sede della scuola, alloggiata in
una angusta casa popolare. Le aule, soprattutto del piano inferiore, strette e
buie, con una rigida (e purtroppo necessaria!) inferriata alle finestre, danno
a tutti un immediato sapore di tristezza. Lì non si coglie il sorriso della
vita che dovrebbe accompagnare la voglia di studiare. Eppure, all'ingresso del paese,
le fondazioni e i pilastri della scuola ci sono. Svettano verso il cielo, quasi
mani imploranti ascolto, ormai stanche per la ruggine e l 'abbandono. La recita
in dialetto ha dimostrato, lì come a San Luca qualche giorno prima, che nelle
scuole i ragazzi nascondono spesso talenti impensati. Sono un po' tutti attori
in questi paesi. A noi adulti, alla scuola soprattutto, la gioia di scoprire
che, “dentro il marmo, la statua già c 'è e che va solo liberata dal marmo che
la stringe”.
Testo e foto: L'Avvenire di Calabria, 6 gennaio 1996
Certifico io sottoscritto Ingegnere Civile, residente e domiciliato in
Reggio Calabria, che il fabbricato urbano del Signor Francesco Gliozzi fu
Domenico, sito nell’abitato di Platì e propriamente sulla via principale di
esso, subì tali danni per effetto del terremoto del 16 Novembre 1894 da rendere
necessaria la spesa di lire tremila circa per potergli ridare le primitive
condizioni di stabilità e abitabilità.
Tanto attesto in seguito ad ispezione locale ed a richiesta dell’interessato.
Platì 1° Novembre 1895
L’ingegnere Civile
Rodolfo Zehender
L’Ingegnere Civile Rodolfo
Zehender (in apertura), nacque a Reggio Calabria il 14.07.1862.
L’origine della sua famiglia
è svizzera. Il padre Giovanni, proveniente dalla Spagna dove era presso la
Corte del Re, fu trasferito nella Calabria Ulteriore e precisamente nel suo
Capoluogo Reggio Calabria dove assunse la direzione dell’Intendenza di Finanza,
sposò Maria Grazia Raho ed ebbero molti figli. Quindi crebbe in questa famiglia
patriarcale fino alla morte del genitore quando lui era in giovane età
assumendo parte del carico di responsabilità. Nel 1906 fondò la “Riunite di
Elettricità” e fu precursore in tutto il meridione, a seguito del terremoto del
1908 buona parte degli impianti furono distrutti ma con grande caparbietà li
ricostituì. Quindi diede vita alla “Zehender & C.” con sede a Palmi e
installazioni anche a Bagnara e Scilla fornendo a queste cittadine energia
elettrica per l’illuminazione. Il suo impegno non si fermò a Reggio Calabria ma
si espanse in provincia di Salerno precisamente a Casoletto Spartano dove
eseguì il complesso della “S.I.E.B.”, fondò in Aspromonte la “Società
Idroelettrica Vasì” per l’illuminazione di quella zona. In fine fondò la
“Società Tranvie Elettriche Reggine”, fece costruire una centrale
termoelettrica in via Possidonea e altra a carbone nella rada Giunchi. Fu
presidente della “Società Forestale delle Calabria” fino alla morte che avvenne
nel 1930 all’età di 66 anni. La foto dell'ingegnere Zehender proviene da qui: https://www.strill.it/rubriche/memorie/2015/02/memorie-rodolfo-zehender-lingegnere-reggino-che-porto-luce-e-progresso/ La breve biografia da qui: http://www.strettoweb.com/2016/10/reggio-calabria-pillole-di-storia-u-stratuni/466101/
Ho avuto la netta impressione che il mio soggiorno fosse
diventando un lento viaggio di avvicinamento al grande monolite che vedevo
quotidianamente dalla finestra della cucina a casa dei nonni. Avrei voluto raggiungerla,
ma un problema ad una caviglia mi ha impedito di camminare a lungo.
Non ero però preparata alla sorpresa che mi aveva riservato
Mimmo invitandomi ad una cerimonia religiosa in una chiesetta vicino Pietra
Cappa.
Marilisa, la sera prima, mi ha regalato alcune delle
sue collane composte da un grosso pendente-fibbia di ceramica Raku ed uno
spesso laccio di stoffa elasticizzata. Ne scelgo una da indossare sulla
camicia. Incontro Mimmo a Bovalino da dove ci inoltriamo verso Natile sulla sua
Panda 4x4 chiacchierando di amicizie comuni e di Panduri che spero diventi in
futuro un altro capitolo di questa mia scoperta della Calabria. A Natile torno
dopo 58 anni; mia madre vi aveva insegnato non so se per qualche mese o per
tutto l’anno scolastico 61-62. Ci andavamo da Platì, lasciavamo la provinciale
a Cuccumo attraversando i serri e la fiumara a dorso di mulo. Questa volta
saliamo da Natile nuovo e vi incontriamo un interessante gruppo di persone che
hanno dato vita alla Pro-Loco ed organizzato l’evento di oggi. Degli
escursionisti del CAI di Reggio stanno salendo a piedi e si uniranno a noi
sotto Petra Cappa. Riprendiamo la strada in salita verso la nostra meta: a
destra ho la vallata della fiumara e Platì, a sinistra splendidi scorci
dell’Aspromonte e di Petra Cappa. Dopo un tempo che mi è parso breve per le
bellezze dei paesaggi e lungo per lo sballottolamento in auto, ci fermiamo nei
pressi di un bosco. Percorriamo a piedi un breve tratto fra castagni, pietre ed
un torrentello a secco ed ecco apparire, fra gli alberi, circondati da una
distesa di pietre e mattoni sparsi nella boscaglia, i ruderi di un’antica
chiesa bizantina. L’emozione
è forte.
Mimmo mi indica i materiali con cui è stata costruita:
pietre dell’Aspromonte, mattoni sia del periodo della costruzione, sia di
periodo Romano poiché, come sempre è avvenuto nei secoli, i materiali di altri
ruderi venivano usati per le nuove costruzioni. A terra ci sono un paio di
colonne, una terza sembra sia a Polsi ed una quarta nel giardino di una casa
privata a Reggio. Mimmo, Anna Maria Sergi (anima della pro-loco) ed altri che
ci hanno raggiunto preparano l’altare ed una croce: due rami incrociati che non
si sa come tenere insieme ed allora offro la mia collana così anche Marilisa,
che non è potuta venire, sarà con noi. Il gruppo del CAI arriva quando l’altare
è pronto e si celebra la messa, in mezzo ad un bosco di castagni, accanto a ciò
che resta dell’antica chiesa degli eremiti, mentre Petra Cappa ci osserva
dall’alto.
Dal “Catalogo dei monasteri e dei luoghi di culto fra Reggio
e Locri (Domenico Minuto, 1977):
“Le fonti ci parlano di una cittadella e di un fiume detti
di Pietra Cucca o Pietra Cafcas, di una chiesa di stile Bizantino tra la
contrada di San Giorgio e Pietra Cappa (…) Quanto a Btrqûqah (terra) b.t.rqùqah (fiume)
e πέτρα
καύκας (…) mi sembra giusta l’opinione del Minasi che identifica questa
località con Pietra Cappa il cui territorio circostante dovette avere una vita
alquanto fervida attorno al Mille se ci presenta resti di una chiesa
probabilmente a cinque cupole (S. Giorgio) …
… I ruderi si trovano in una zona montana a 500 metri in linea
d’aria a nord ovest della caratteristica rocca di Pietra Cappa. Della chiesa
restano brandelli di muri perimetrali che tuttavia mostrano ancora chiarissimo
il disegno della pianta quadrata, orientata, triabsidata e, sparsi per terra,
monconi di colonne, numerosi frammenti di marmo bianchi e policromi (con alcuni
di questi i pastori hanno costruito un casotto) e di tegole. Come si è visto
dalle misure della pianta, essa è leggermente più grande di quella di
Stilo.”
Finché la Chiesa, il mondo contadino, la borghesia
paleoindustriale erano un
tutto unico, la Religione poteva essere riconosciuta in tutti e
tre questi momenti
di una stessa cultura. Anche – ed è tutto dire – nella Chiesa: nel
Vaticano. I
delitti contro la religione perpetrati dalla Chiesa – se non altro
per il fatto stesso
di esserci – erano giustificati dalla Religione. Era possibile
prestar credito, cioè,
al qualunquismo umanistico dei suoi prelati secondo cui, appunto,
il fine poteva
giustificare i mezzi: un’alleanza col Fascismo per esempio poteva
parere un
mezzo giustificato dal fine, consistente nel preservare, per i
secoli futuri, la
Religione. D’altra parte niente poteva far pensare che il mondo
contadino,
religioso (e la borghesia paleoindustriale di origine contadina)
sarebbe così
rapidamente
finito.
Pier Paolo Pasolini, Marzo 1974.
Ancora una volta con voce ferma e robusta ripeto: “D’Italia la gioia e
l’offesa divide la Chiesa”. Come nelle giornate tristi della Patria in cui le
bandiere si alzavano imbrunate, come abbiamo visto, dicevo, affollarsi le
chiese di moltitudini piangenti per santificare il dolore di madri e
pargoletti! così nelle giornate liete, come questa, la chiesa spalanca le sue
porte per fare entrare una moltitudine giubilante.
E cantano a Dio – Ottimo Massimo – il Te Deum del ringraziamento per la
grandezza delle grazie ricevute, che sono, per avventura, tali e tante le
grazie che non basta la parola umana a enumerarle.
Si Te Deum laudamus, ti lodiamo o Signore, perché hai voluto dare
piena, grande, completa vittoria all’Italia da trionfare sulle barbare nazioni
più o meno fraternizzate fra loro.
Insegni Ginevra.
Ti lodiamo, o Dio, perché hai voluto che un Re latino, stirpe di eroi e
di Santi cingesse la corona di quello impero di Salomone, caduto dopo lunga
teoria di anni nella barbarie e nel fango.
Ti lodiamo per il nostro condottiero e Duce che con mano ferma regge i
destini della Patria fatta da Lui più bella e più grande.
Ti lodiamo perché hai voluto darci dei generali sommi, degli scienziati
che sono l’invidia del mondo, dei soldati che sono semplicemente magnifici.
Si ti lodiamo o Dio degli eserciti Deus Iabahot che fosti presente a
Veyhelli, ad Axum, a Macallé, che fermasti il tuo sguardo su Addis Abbeba che è
nostra.
Che facesti del tuo sacerdote, il padre Giuliani, un novello martire
della Religione e della Patria.
Che nei terribili fiumi impetuosi, nelle zone infocate della Somalia,
sulle alture inaccessibili del Tigrai, fosti fortezza nel braccio e nel cuore
dei nostri fanti, che si aprivano il passo con la spada e con la zappa per il
trionfo di quella Roma, per cui il tuo Cristo è romano.
Si, ti lodiamo o Signore, per l’aiuto che ci desti in mare, in terra in
cielo, è piena la terra della tua Gloria. Tu Re gloria e Christe!
E intendo che si associano al nostro canto le innumerevoli schiere
degli angioli e dei santi tutti del cielo, come delle anime buone della terra
perché in te, Domine, speravi.
Nel Signor chi si confida col Signor risorgerà.
In te Domine speravi, non confundar in aeternum
ERNESTO GLIOZZI il vecchio, Platì 10/5/ 36
«E forse ci voleva
anche un uomo come quello che la Provvidenza Ci ha fatto incontrare, un uomo
che non avesse la
preoccupazione della scuola liberale››.
[PIO XI, Discorso ai docenti e agli allievi della Università
del Sacro Cuore, 13 febbraio 1929]
L'uomo che la divina
Provvidenza fece incontrare a Pio XI, per «restituire l'Italia a Dio e Dio
all'Italia››, era un ateo integrale, un bestemmiatore abitudinario di Gesù
Cristo, della Madonna e di tutti i Santi, disposto sempre, anche dopo la
Conciliazione, a riprendere i temi del più volgare anticlericalismo, in cui
aveva battuto ogni primato, prima di passare dal sovversivismo anarchico alla
reazione, in difesa del trono, dell'altare e del portafoglio dei «pescecani››.
Ernesto Rossi, Il
manganello e l’aspersorio, Kaos edizioni, Milano 2000
Ho indugiato molto a pubblicare questo manoscritto redatto a seguito della conquista della regione del Tigrè da parte dell'esercito italiano nell'ottobre del 1935. Come
altre volte mi sono trovato ad un bivio, continuare o smettere le
pubblicazioni. Allo stesso tempo non voglio giudicare azioni e fatti passati
perché non ho la capacità di mettermi nei panni di chi quelle azioni e fatti li ha vissuti, come mi manca la lucida riflessione di Pasolini. Il senno di poi non
basta. E i tempi attuali, recenti e meno recenti, il futuro preparatoci – e su
questo lo scrittore e regista ci aveva già anticipato tutto - non sono affatto dissimili dagli anni in cui
lo zio scrisse e lesse in chiesa questa apologia. Ad onestà del vero, e non per
minimizzare quanto sopra scritto, riporto che in quegli anni lo zio non era
solo: mons. Giosofatto Mittiga fece carriera grazie alla cura fascista,
l’avvocato Rosario Fera scrisse fogli di aperto plauso a quel movimento, mons.
Minniti esibiva dei baffetti molto Führer, senza contare i vari Podestà che approfittarono,
con la gestione personale, della cosa pubblica; nonno Luigi e di seguito don
Gustinu Mittiga amministrarono con nomina del Prefetto di Reggio l’ammasso
delle olive e del grano. Tutti in men che non si dica, se non passarono a
miglior vita, al primo sentore di scricchiolio del Regime fecero un tempestivo
volta faccia con allineamento abbracciando lo scudo crociato, e l’anticomunismo
ormai di moda. Ancora, cosa strana, l’unico a non trarne nessun beneficio fu il
maresciallo Giuseppe Delfino che, rubando il Ciconte, in pieno fascismo rifiutò di iscriversi al partito e questo suo atto di
ribellione gli costò la «mancata promozione a maresciallo maggiore»,
tenendo, per giunta, nel primissimo dopoguerra, sotto l’ombra da spica, le redini del paese.
Per uscirmene vi propongo Bob Marley & The Wailers con il suo inno rastafari
A Platì ci sono molte
tradizioni, una di quelle è di accendere il fuoco la notte di Natale. La
inventarono i nostri antenati, e noi ancora oggi portiamo avanti. Gli è
piaciuto così tanto che hanno deciso di accendere il fuoco anche per la veglia
Natalizia che si svolge dall’8 al 24 dicembre. La tradizione del fuoco va
avanti anche grazie ai ragazzi che prendono la legna nelle case delle persone
“senza chiedere il permesso” ci sono persone che apprezzano e altre che si
arrabbiano molto. Nel 2015 hanno acceso un fuoco così alto che tra un poco non
bruciavano la chiesa. Questa tradizione va avanti dal 1800. Un’altra tradizione
è quella della “cardara” che si svolge nel periodo Natalizio, cioè la carne
messa nella brace a cuocere. Un’altra tradizione è quella della lavanda dei
piedi, gli uomini vanno in chiesa e il prete gli lava i piedi. Un’altra è
quella della festa di Sant’Antonio ed è che le bambine fanno “i virgineji” si
vestono di bianco, appena arrivano fanno colazione, poi prendono un giglio e
vanno in chiesa a pregare Sant’Antonio, le donne portano il pane, e il prete lo
benedice e alla fine le bambine prendono il pane e se ne vanno. Insomma Platì è
un paese pieno di tradizioni.
TROPEANO ESMERALDA 5 A
Testo presentato alla seconda edizione (2018) del premio letterario "Ernesto Gliozzi"