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giovedì 14 ottobre 2021

La morte cammina nella pioggia [di Carlos Hugo Christensen - 1948]


Nel 70° Anniversario

Platì 18 Ottobre 1951


Na data tristi chi veni sempri ricordata
l’affidamu ai posteri non m’esti mai dimenticata.
 
Morti e distruzioni nto paisi dassau
quandu u dilluviu universali di jà passau.
 
S’ apriru i catarratti e l’acqua du cielu calava
Ciancio, ntantu a valle s’ingrossava.
D’arretu da Rocca fici breccia
trasiu nto paisi comun na freccia.
 
Ci fu nu pigghja pigghja chija notti
pe casi e pa li strati passau la morti….
Urla disperate! ... Mani avvinghiate! …
19 vite,
dalla furia dell’acqua, trascinate.
 
Quella notte, pure Acone nel campo entrava
disturbando il sonno di chi in pace riposava.
 
A distanza di 70 anni
una Preghiera  
per chi lottò quella notte
contro l’ingrata morte.

Silvana Trimboli
Caraffa del Bianco, 2021

.:.:.:.

A tutt’oggi l’elenco definitivo delle vittime è nebuloso. Il NOTIZIARIO DI MESSINA(*) in data 8 novembre 1951 riportava  i 15 nominativi già citati nel video. La tradizione popolare ne ricorda18/19. Non vengono in soccorso né i registri comunali né quelli parrocchiali. In questi ultimi sono elencati solo:
Marando Giuseppe di Rosario anni 13
Marando Rosario di Domenico anni 47
Portolesi Caterina fu Pasquale anni 77
Sergi Michele di Pasquale anni 15.
A questi bisogna aggiungere:
Iermanò Serafina di Francesco di 5 mesi
Zappia Filippo di Domenico di 8 mesi
segnati nel registro dei morti della parrocchia in data 18 ottobre 1951
e Iermanò Saverio di Antonio di anni 90 registrato in data 20 ottobre 1951.
Antonio Schimizzi morto durante i lavori di sgombero delle macerie era nato il 29 giugno del 1900 da Francesco e Musitano Francesca. Il 10 febbraio del 1929 sposò Domenica Carbone di Antonio e Martino Anna Maria di 23 anni ed ebbero 6 figli.

(*) https://iloveplati.blogspot.com/2017/05/acque-del-sud-reg-howard-hawks-1944.html

In apertura:
Particolare del monumento alle vittime dell’alluvione del 1951 di Platì realizzato dal pittore e scultore messinese Antonello Bonanno Conti.

Nel video: Antonio Vivaldi, Concerto per Violino op. 7 No. 12 in re maggiore RV 214, Grave Assai, Claudio Scimone dir. - To be played at maximum volume.


martedì 12 ottobre 2021

Notte di terrore [di Andrew L. Stone - 1955]


DUE PAESI DELLA CALABRIA CANCELLATI DALLA TERRA
Pazzi ad Africo e Casalinovo per il terrore dell’alluvione
Il drammatico esodo di 2.300 persone per un sentiero esposto ai pericoli
delle frane – Centinaia di malati nella scuola di Bova
 
REGGIO CALABRIA 27 – Le montagne che circondano che circondano Africo cominciarono a franare nel pomeriggio di martedì 16 ottobre e investite in pieno dai macigni le prime case, quattro persone rimasero seppellite sotto le macerie. Pioveva ininterrottamente già da due giorni e che da un momento all’altro la montagna potesse franare era stato l’incubo della popolazione. Ma durante il temporale da quanti anni aveva vissuto sotto quell’incubo? Ora il rombo pauroso delle rocce che precipitavano e la visione del terreno che lentamente slittava a valle davano consistenza reale al timore di intere generazioni.
Sotto la pioggia torrenziale, annaspando nel fango, la gente si precipita fuori delle povere case che potevano trasformarsi in tombe da un momento all’altro. La montagna continuò a franare. Pensarono in principio di trovare salvezza andando a Casalinovo, ma già da quella vicina frazione cominciavano ad arrivare ad Africo i primi fuggiaschi i quali avevano anch’essi abbandonato le case minacciate dalle frane, raccontarono che durante il tragitto sei di loro avevano trovato la morte.
E ora dove fuggire? Africo e Casalinovo sono due fra i tanti paesi di Calabria non legati da strade con il resto del mondo. C’è solo una mulattiera che porta a Bova Superiore. Su questa mulattiera cominciò l’esodo della popolazione: 2.300 persone. Quanto terrificante sia stato il viaggio a piedi, sotto la tempesta, per percorrere quei 2 chilometri in mezzo a burroni e precipizi, nessuno potrà mai raccontare perché quelli che erano gli abitanti di Africo e di Casalinovo erano soli con la loro disgrazia e con il loro terrone.
Quando finalmente arrivarono a Bova, che è un paese privo d’acqua, di luce, di fognature, credettero di essere giunti in paradiso. Ma fu solo una fugace illusione perché subito cominciò l’inferno di Bova.
Ci siamo recati ieri a Bova. Nella nostra vita di giornalisti, che pure ci ha fatto assistere a tanta spettacolare desolazione e miseria, nulla avevamo visto fino ad oggi di così terrificante sofferenza umana.
Siamo stati alloggiati in un edificio scolastico, i profughi di Africo e Casalinovo, avevano assicurato le autorità. Ma noi avevamo saputo già a Reggio Calabria che tra essi si erano verificati, nei giorni scorsi, veri casi di pazzia. Però solo quando siamo penetrati nell’oscuro corridoio della scuola di Bova abbiamo potuto capire come un essere umano possa, per sofferenze fisiche, perdere la ragione.
 200 persone in un’alula.
Centinaia di persone coperte di stracci, inzuppate, scalze, tremanti dal freddo, affamati, stavano immobili, sedute per terra o in piedi, appoggiate alle pareti. Dovunque volti scavati e sguardi pieni di terrore. Fuori pioveva, faceva freddo e le finestre dovevano essere tenute chiuse. C’era un’aria irrespirabile ma non riuscivamo a restare più di due minuti nell’inferno di quell’aula. In una di esse ampia meno di dieci metri quadrati, vivono da martedì 16 ottobre 200 persone. E sono le più fortunate. Altre centinaia vivono in ambienti ancora più piccoli o sono per i corridoi dove non penetra la luce ma il vento e la pioggia.
Da dodici giorni vivono così i profughi di Africo e Casalinovo. Non hanno materassi, non hanno coperte, non hanno sedie, nella scuola non ci sono gabinetti, non c’è acqua corrente, non c’è luce elettrica. 2.300 persone, in gran parte donne e bambini, vivono da dodici giorni in questo inferno. Sulla strada non possono uscire perché piove continuamente e fa anche più freddo. Altri sono stati ricoverati nella sala municipale e vivono nelle stesse condizioni. Pochi sono quelli rimasti nelle campagne intorno ad Africo sperando di poter salvare qualche capo di bestiame che rappresenta tutta la ricchezza del paese.
 Hanno perduto tutto
Molte donne sedute sul pavimento tenevano attaccati alle mammelle aride i figli, nell’inutile speranza di poterli nutrire. I vecchi supini, con lo sguardo fisso in alto, già sembravano cadaveri. In un angolo del corridoio. Presso una porta della cui fessura penetrava furtoso il vento freddo dei monti, c’erano tredici bambini seduti intorno alla madre, distesi su un mucchio di stracci. La donna si lamentava sordamente, tremava, ansava e gettava intorno sguardi come per chiedere soccorso. Stava per partorire. Ma chi poteva soccorrerla. Che cosa potevano fare per lei le altre donne?
Un uomo ci venne incontro con le mani tese in avanti, inciampava continuamente: ci accorgemmo poi che era cieco. Ma quanti vecchi rasi dal tracoma non incontrammo in quel triste edificio scolastico di Bova Superiore? L’immobilità di alcuni bambini ci fu spiegata quando tornammo sulla strada fangosa, era paralisi infantile, permanente.
Fuori continuava a piovere e una nebbia densa veniva giù dai monti. Sulla strada ci fu più facile rivolgere la parola a qualcuno. Quali soccorsi avete ricevuto? Un po' di pastasciutta. Dove andrete? Non lo sanno, hanno perduto tutto, ad Africo non possono più tornare. Il nome del paese può già essere cancellato dalla carta geografica della Calabria.
RICCARDO LONGONE
Testo e foto: L’UNITA’, Domenica 28 ottobre 1951
 

domenica 10 ottobre 2021

Un medico, un uomo [di Randa Haines - 1991]

Giuseppe Mittiga
Platì 03/01/1897 -  Palmi 18/01/1982

E intanto la pioggia fitta e continua pesta sul tetto ... sui vetri ... sul suolo”. Ernesto Gliozzi il vecchio

A settanta anni da quella tragica notte tra il 17 e il 18 ottobre del 1951 non c’è stato chi raccontasse integralmente quel dramma in un’opera letteraria, solo singole vicende, singoli episodi legati a chi ne trattiene ancora il ricordo. A questi ultimi si aggiunge il ricordo di quei giorni per tramite di Lisa Mittiga figlia del dottor Giuseppino, per me, che riporto quei ricordi, zio. Il dottor Giuseppe Epifanio Mittiga aveva 64 anni quando visse sulla sua persona il dramma di un intero paese. Egli si laureò in Medicina e Chirurgia a Napoli nel 1912 a 25 anni. Figlio di Rocco e Caterina Fera dopo la scuola elementare a Platì fu mandato nella città partenopea per la scuola media, successivamente si trasferì a Gerace per compiere gli studi ginnasiali. Ritornò di nuovo a Napoli dove da tempo risiedeva lo zio Saverio Mittiga, sacerdote e docente presso la locale Università Teologica, autore di racconti e poesie editi nella stessa città. Presso la Regia Università di Napoli studiò con profitto con l’illustre prof. Antonio Cardarelli (1831 – 1927) ormai in procinto di lasciare quell’ Accademia per raggiunti limiti d’età. Era Ufficiale Sanitario presso il Comune di Platì quando l’alluvione si infranse sul paese. Non bisogna però pensare che quel disastro fu un fenomeno casuale. Già da diversi giorni una fitta pioggerella cadeva incessantemente senza che il sole apparisse, anche per pochi minuti. Alle volte si rafforzava, alle volte diminuiva. La terra, le campagne, gli orti diventavano di giorno in giorno impraticabili, non solo per le zappe ma anche per le scarpe e gli stivali. Molti di quelli che abitavano in campagna cercarono rifugio presso i parenti in paese; molti, fiduciosi rimasero nelle proprie abitazioni coloniche. La notte tra il 17 e il 18 dalla montagna verso Santa Cristina, da Arcopio e a monte di Sanello si precipitò un torrente impetuoso che andò a colpire maggiormente la contrada Due Valloni, il cimitero e la zona tra la fiumara Ciancio, il corso Umberto e la via San Pasquale. Per diciannove vite la mattina del diciotto ottobre 1951 non si schiarì, centinaia erano i bisognosi di pronto soccorso. La casa del medico Mittiga era posta all’entrata del paese. Essa con altre vicine diventò un ospedale da campo dove il dottore ebbe modo di prestare il soccorso a chi riportò le ferite più gravi non potendo sperare in aiuti esterni. I feriti arrivavano adagiati sulle carriole, sulle scale fatte barelle, su lenzuola o coperte imbrattate di sangue. Bisognò amputare o ricostruire le parti lacerate, molte teste, molte braccia, molte gambe, molti piedi. C’era anche da soccorrere i feriti meno gravi nelle proprie abitazioni e le partorienti, e qui il medico era assistito dalla signora "mammina" Francesca Portolesi, moglie di don Umberto. A distanza di tempo la figura e l’opera del dottor Giuseppino Mittiga è ricordata dai più anziani, ma specialmente per chi lo ebbe come padre amoroso o zio affettuoso.

 

Hanno partecipato Lisa Mittiga di Giuseppe e Saro Mittiga di don Agostino.


giovedì 7 ottobre 2021

Come quel giorno [di Mario Caserini -1916]


L'evento è reso possibile grazie alla partecipazione di Padre Santino e Padre Peppe.

 

mercoledì 6 ottobre 2021

Vivere ancora - Gino Paoli

"Vivere ancora
Soltanto per un ora"
Gino Paoli


VIVERE


Vivere
per non morire
sconfitto
dalle illusioni


PRIGIONIERO
 
Prigioniero
in una stanza
con le porte aperte
e senza guardie.
prigioniero del dolore
lontano dalla mamma


A Mimmo "la malinconia e il dolore dell'assenza, in un crescendo di archi morriconiani esplosivo e straordinario".

giovedì 30 settembre 2021

Un apprezzato professionista di sicuro avvenire [di Giuseppe De Santis - 1972]




 Stimato ed elogiato professionista, Saro Zappia non rinnegò mai le sue origini platiesi. Quando egli si affacciò alla vita, in quel lontano 3 settembre del 1939, i genitori, al nome già mariano, vollero aggiungere Maria di Polsi, Vergine Calabrese per eccellenza, festeggiata il giorno prima. E dire che il padre, il mitico Su Rrosariu, in quella data aveva già compiuto i settanta anni e la madre Cristina Mercurio molti di meno, ventisette. E in quel matrimonio, oggi impensabile, tra un settantenne ed una donzella, chi scrive non può fare a meno di notare lo zampino e la scaltrezza dell’avvocato Alberto Mercurio, ma questo è un altro film che varrà la pena raccontare in altre occasioni. Saro Zappia più che ragazzo partì per Napoli ed in un collegio dei Padri Gesuiti compì i suoi studi, dalle elementari a quelli ginnasiali. Dopo la laurea in giurisprudenza e prima di stabilirsi a Vicenza vinse il concorso alle Poste come ispettore. Successivamente, nei primi anni sessanta, nella città veneta contrasse matrimonio ed avviò uno studio legale in cui più tardi si assocerà la figlia Cristina. Il legame con Platì l’avvocato Zappia l’ha voluto sugellare disponendo che le sue ceneri fossero tumulate assieme alla famiglia d’origine nel cimitero platiese.

mercoledì 29 settembre 2021

Il cammino della speranza [di Pietro Germi - 1956]

 «Nun avemu speranza di un avvenire megghiu. Che svago ca è mezzogiorno e ancura nun haiu assaggiatu acqua?». Danilo Dolci, Banditi a Partinico


QUANDO A NAUFRAGARE ERANO I MIGRANTI DELLA POVERA ITALIA

La fuga dalla miseria, ieri come oggi, è la causa della morte di tanti migranti in mare, ma la storia non sembra aver sradicato i pregiudizi

di Enzo Romeo

Il 25 luglio 1956, al largo di Nantucket, l’Andrea Doria (*), ammiraglia della flotta mercantile italiana, entrò in collisione con una motonave svedese. A bordo c’erano persone famose, come l’attrice Betsy Drake, moglie di Cary Grant, e poveri sconosciuti che emigravano negli Stati Uniti in cerca di fortuna. Persero la vita 46 dei 1706 passeggeri, tra cui Concettina Zappia di Platì e i suoi quattro figli. Andavano a New York per ricongiungersi col resto della famiglia, che aveva lasciato anni prima l’Aspromonte per guadagnarsi il pane dall’altra parte dell’oceano.
Nessuno ricorda più quelle vittime. In compenso, nel commentare le stragi terroristiche di Bruxelles, qualcuno ha paragonato Platì a Molenbeek, il quartiere da cui provenivano alcuni degli attentatori: ’ndràngheta o jihad, il radicamento criminale è lo stesso. Nel lontano 1890 su La Cronaca di Calabria, un periodico che si pubblicava proprio a Platì, un articolista vicino ai proprietari terrieri scriveva che i contadini «sono invasi dalla febbre di partire per gli Stati Uniti d’America», non per sottrarsi alla fame ma per «l’ambizione di guadagnare molti quattrini».
Passano i secoli e i pregiudizi rimangono, mentre ci vorrebbe un surplus educativo. Ci sta provando padre Masino, piemontese della Consolata, che dopo 43 anni d’Africa fa il missionario a Platì, il Comune più commissariato d’Italia, e mette a disposizione la sala parrocchiale per i dibattiti politici. Una maestra, Irene Càrastro Mosino, ha raccontato nel libro Felice sera (Jaca Book) l’insegnamento nelle “pluriclassi” dei paesi aspromontani e le parole amare che uscivano dalla bocca degli alunni: «Domani non vengo a scuola, vado a trovare mio padre in carcere»… La maestra, con tanta pazienza, insieme all’algebra e alla grammatica, diede lezioni di educazione civica e di speranza.
Quella speranza che cercava Concettina per i suoi figli inghiottiti dal mare, stesso tragico destino di tanti piccoli migranti di oggi.


Il testo originale è qui:
https://www.credere.it/n.-20-2016/ite-missa-est-di-enzo-romeo.html

(*)  Anche l'Andrea Doria naviga ora nel web. 

martedì 28 settembre 2021

Once Upon a Time in America [by Sergio Leone - 1984]

SPERANZA / HOPE
di ROSALBA PERRI
 

In questi giorni sto leggendo “Vita” di Melania G. Mazzucco che è stato Premio Strega 2003.

È un libro sull’emigrazione dalla miseria di un paese nel Lazio alla miseria di New York. Un libro spietato e crudo, affollato di una umanità con i suoi sentimenti e con le sue crudeltà.  La differenza fra le due miserie è la speranza insita nella seconda.

È anche una rivisitazione dell’autrice delle storie di famiglia nel periodo che il proprio nonno visse da emigrante a New York e poi a Cleveland.

Nella prima parte, capitolo “L’ostinato profumo di limone” trovo questo passaggio:

Quando, nell’archivio di Ellis Island, consultai la lista passeggeri della nave Republic, a bordo della quale Diamante arrivò in America, scoprii il nome delle 2200 persone che viaggiarono con lui. Ora posso dire di conoscerli uno a uno. La nave – che dopo la sosta a Napoli fece scalo a Gibilterra – trasportava italiani e turchi. Ma la parola “turchi”, nel 1903, ai tempi dell’Impero Ottomano, significava molte cose: ebrei, greci, armeni, albanesi, siriani, libanesi, slavi, berberi. A Ellis Island sbarcò per primo Athanapos Kapnistos, sedicenne di Creta, poi Marie Kepapas, diciannovenne di Salonicco. Quindi, in successione, gruppi di Beirut, di Rodi, della Macedonia, di Samo, Vasto, Fano; poi decine di ragazzi da Platí e Gioiosa Jonica, Gerace, Polistena, Scilla, Agropoli, Nicastro, Nocera, Teramo, Castellabbate.”

E qui, vedendo menzionato Platì, mi incuriosisco e vado a controllare sul sito di Ellis Island dove trovo l’elenco dei passeggeri della nave Republic del 1906 (e non del 1903 come dice l’autrice per sue esigenze narrative).

 

These days I am reading "Vita" by Melania G. Mazzucco which was awarded the 2003 Strega Prize.

It is a book on emigration from the poverty of a village  in Lazio region to the poverty of New York. A ruthless and raw book, crowded with a humanity with its feelings and its cruelties., the difference between the two poverties being hope.

It is also a reinterpretation by the author of the family stories in the period that her grandfather lived as an emigrant in New York and then in Cleveland.

In the first part, chapter "A persistent lemon scent", I find this piece:

"When, in the Ellis Island archive, I consulted the passenger list of the ship Republic, aboard which Diamante arrived in America, I discovered the names of the 2,200 people who travelled with him. Now I can say that I know them one by one. The ship - which after the stop in Naples made a stop in Gibraltar - carried Italians and Turks. But the word "Turks", in 1903, at the time of the Ottoman Empire, meant many things: Jews, Greeks, Armenians, Albanians, Syrians, Lebanese, Slavs, Berbers. The first to land at Ellis Island was Athanapos Kapnistos, sixteen from Crete, then Marie Kepapas, nineteen from Thessaloniki. Then, in succession, groups from Beirut, Rhodes, Macedonia, Samo, Vasto, Fano; then dozens of boys from Platí and Gioiosa Jonica, Gerace, Polistena, Scilla, Agropoli, Nicastro, Nocera, Teramo, Castellabbate. "

At the mention of Platì, I get curious and go to check the Ellis Island website where I find the passenger list of the Republic ship from 1906 (and not from 1903 as the author says for her narrative needs).

Provenienti da  Platì e Natile, imbarcati a Napoli, sbarcano a Ellis Island:

Pasquale  Rinaldo, n. 1871, 35 anni, celibe (Platì)

Antonio   Zappia, n.1889, 17 anni, celibe (Platì)

Antonio    Callofan, n. 1882,24 anni, celibe (Natile)

Pasquale  Jermani (Jermanò), n. 1888,18 anni, celibe (Platì)

Giuseppe Perri, n. 1865, 41 anni, celibe (Platì)

Pietra (Pietro?) Stansio  (Strangio?), n. 1887, 19 anni, celibe (Natile)

Michele   Strangio, n. 1877, 29 anni, sposato (Platì)

Guiseppe (Giuseppe) Calabina (Calabria), n. 1887, 19 anni, celibe(Platì)

Rosario    Portolese , n. 1865,  41 anni, vedovo (Platì)

Coming from  Platì e Natile, embarked  in Neaples, desembark at Ellis Island:

Pasquale  Rinaldo, n. 1871, 35 yrs, single (Platì)

Antonio   Zappia, b.1889, 17 yrs, single (Platì)

Antonio    Callofan, b. 1882,24 yrs, single (Natile)

Pasquale  Jermani (Jermanò), b. 1888,18 yrs, single (Platì)

Giuseppe Perri, b. 1865, 41 yrs, single (Platì)

Pietra (Pietro?) Stansio  (Strangio?), b. 1887, 19 yrs, single (Natile)

Michele   Strangio, b. 1877, 29 yrs, married (Platì)

Guiseppe (Giuseppe) Calabina (Calabria), b. 1887, 19 yrs, single(Platì)

Rosario    Portolese , b. 1865,  41 yrs, widower (Platì)

 

 (*)


L’autrice continua con una riflessione sui passeggeri:

 

La maggior parte aveva meno di vent’anni. I passeggeri ragazzi di quella nave – e di tutte le altri navi di quegli anni – non corrispondono all’immagine che mi è stata tramandata. Alle fotografie che ho visto nelle mostre e nei musei, e che si sono impresse cosí profondamente nella mia memoria da condizionare la mia immaginazione. Figure dolenti e incomprensibili, comunque lontane, distanti. Ho negli occhi i volti tristi dei contadini, le loro mogli tristi, vestite di nero, i loro bambini tristi, ho negli occhi i loro tristi fagotti, che contengono tutto il loro niente. Forse ho negli occhi uno stereotipo. Possibile che tutti questi ragazzi senza bagaglio – S, single, nella casella relativa allo stato coniugale – siano partiti per non tornare? Scorro l’elenco interminabile di quei nomi – Saverio Ricci da Brodolone, 17 anni, Aniceto Ricco da Montefegato, 17 anni, Annibale Spasiani da Sgurgola, 16 anni, Giuseppe Vecchio da S. Coseno, 14 anni… – e comincio a pensare che per un’intera generazione di ragazzi l’America non fosse una meta né un sogno. Era un luogo favoloso e insieme familiare – dove si compiva, con il consenso degli adulti, un rito di passaggio, un rito di iniziazione. Altre generazioni ebbero il servizio militare, la guerra in trincea, le bande partigiane, la contestazione. I ragazzi nati negli ultimi decenni dell’Ottocento ebbero l’America. A quattordici, sedici, diciott’anni (qualcuno prima, qualcuno dopo), in gruppo, con i cugini, i fratelli, gli amici, dovevano compiere la traversata – morire – se volevano crescere, se volevano sopravvivere. Risorgere. Dovevano affrontare l’America come i ragazzi delle tribú australiane, di Papua e della Nuova Guinea affrontavano il mitico mostro che li inghiottiva per rivomitarli uomini. Dovevano essere pianti, essere persi, essere considerati morti. E dovevano tornare indietro. Solo una parte lo fece realmente: il protagonista di molte favole iniziatiche, viaggiando, spingendosi al di là dei confini del mondo noto finisce per trovare un regno preferibile a quello da cui è partito – e per restarvi, cominciando un’altra vita.

 

The author continues with her considerations on passengers:

“They were mostly under the age of twenty. The boy passengers of that ship - and of all the other ships of those years - do not correspond to the image that has been handed down to me; to the photographs that I have seen in exhibitions and museums, and which have impressed themselves so deeply in my memory as to influence my imagination. Painful and incomprehensible figures, however far, distant. I have in my eyes the sad faces of the peasants, their sad wives, dressed in black, their sad children, I have in my eyes their sad bundles, which contain all their nothingness. Maybe I have a stereotype in my eyes. Could it be that these guys without baggage - S, single, in the box relating to marital status - have left never to return? I scroll through the endless list of those names: Saverio Ricci from Brodolone,17, Aniceto Ricco from Montefegato, 17, Annibale Spasiani from Sgurgola,16, Giuseppe Vecchio from S. Coseno, 14 ... - and I begin to think that for an entire generation of youths America was neither a destination nor a dream. It was a fabulous and at the same time familiar place - where, with the consent of the adults, a rite of passage, an initiation rite, was performed. Other generations had military service, trench warfare, partisan bands, protest. The boys born in the last decades of the nineteenth century had America. At fourteen, sixteen, eighteen (some before, some later), in a group, with cousins, brothers, friends, they had to make the crossing - die - if they wanted to grow, if they wanted to survive. Resurrect. They had to face America as the boys of the tribes of Australia, Papua and New Guinea faced the mythical monster that swallowed them to revive them as men. They had to be mourned, to be lost, to be considered dead. And they had to go back. Only one part really did it: the protagonist of many initiatory tales, travelling, pushing himself beyond the confines of the known world, ends up finding a kingdom preferable to the one he started from - and staying there, starting another life.”

 

Mazzucco, Melania G. Vita (Super ET Vol. 1640) (Italian Edition) (pp.147-148). EINAUDI. Edizione del Kindle.

(*) La Republic naviga ora nel wb.
Il testo appena letto richiama da sé il titolo iniziale e il brano che segue:

lunedì 27 settembre 2021

La vita risorge - Natile, gli Oliva & Platì

La Storia di Natile Nuovo scritta dal Prof. Pino Pipicella, da oggi storico ufficiale di Natile tra Vecchio e Nuovo, è un testo venuto fuori dal cuore di quei luoghi. I fatti descritti sono stati vissuti in prima persona poiché Pino Pipicella è stato primo cittadino del Comune di Careri tra il 1993 ed il 2001, per due mandati consecutivi. Dal testo vengono fuori le intime e datate connessioni con Platì.

Natile è stato annesso al Comune di Platì per Decreto di Ferdinando II il 13 marzo 1831(1) e tale rimase fino al 1836 quando fu trasferito al Comune di Careri. Aldilà dell’appartenenza ai Comuni, tra Natile e Platì sono sempre esistiti legami di sangue con arricchimento di DNA per i due territori. Legami ed arricchimenti (natilotu era anche un alias) che ancora oggi continuano ad esistere. Per verità storica bisogna aggiungere l’assoggettamento dei territori di Natile alla potente famiglia platiese degli Oliva. Questa servitù è antecedente al Decreto Ferdinandeo e risale ad un periodo tra la fine del XVII secolo e l’inizio del XIX quando Domenico Oliva suddivise i beni tra i figli avuti da Saveria Rechichi: Michele, Stefano e Arcangelo. Ad Arcangelo andarono i terreni intorno al Molino Nuovo mentre a Michele spettarono quelli intorno all’abitato di Natile Vecchio. Erede di questi ultimi divenne Michele Vincenzo, avvocato, che nel 1885 sposò Elisabetta Furore. Dal matrimonio nacquero quattro figlie, fra cui Maria Girolama, nota come a cavalera(2)  e Maria Carmela Francesca che ereditò i terreni di Natile Vecchio. Amministratore dei terreni divenne il suo sposo dottor Giuseppe Galatti fino agli anni 50 del secolo scorso.

I terreni Galatti-Oliva non subirono i forti dolori che toccarono ai beni di Filippo ed Arcangelo sul finire del 1800 quando alla morte di Francesco erede di Arcangelo divenne unico possessore il giovane Filippo di Filippo e della contessina Luisa Ricciardi, vissuto sempre a Napoli, poco avvezzo agli affari. Arrivato a Platì il conte Filippo fu da subito vittima di raggiri, e per citare l’avvocato Alberto Mercurio: adescato dalle lusinghe di certi avidi vampiri, che in breve tempo riuscirono a dilapidare quello che doveva essere inesauribile patrimonio. Di tali raggiri il Mercurio accusò la famiglia Zappia in vari procedimenti giudiziari.(3)

Parte di tale patrimonio nel territorio del comune di Careri che interessava il circondario di Natile fu acquisito dal dottor Filippo Zappia e di conseguenza dai suoi eredi che si suddivisero il Molino Nuovo e l’Angelica. Di tutto l’Impero Oliva oggi rimangono solo documenti e ruderi che ne descrivono la capillare decadenza ed estinzione. 

(1) https://iloveplati.blogspot.com/2019/02/la-piu-bella-del-reame-di-cesare.html
(2)  https://ilpaesediplati.blogspot.com/2020/05/girolama-oliva-cavalera.html
(3) https://iloveplati.blogspot.com/2021/01/rocambole-di-giuseppe-zaccaria-1919.html
 

Edizione a cura di Rosalba Perri

Nell'immagine d'apertura un ritratto di Francesco Oliva di Arcangelo e Rosa Romeo (1817 - 1898) conservato dagli eredi.

sabato 25 settembre 2021

La vita risorge [di Victor Vicas - 1955]

La nascita di Natile Nuovo

Una storia del Prof. Pino Pipicella  (*)


''E' una civiltà che scompare, e su di essa non c'è da
piangere ma bisogna trarre da chi ci è nato
il maggior numero di memorie '' C. Alvaro

 

L' alluvione del 18 ottobre 1951 provocò nella vallata della fiumara Careri, tra Natile e Platì, circa 30 morti. L'eco della tragedia richiamò l'attenzione del governo Nazionale, guidato da Alcide De Gasperi.

Quando si diffuse la notizia che il Presidente del Consiglio dei Ministri si sarebbe recato a Platì, nella minuscola comunità natilese, sconvolta dal lutto generale provocato da 10 morti, si formò un comitato spontaneo con l'obiettivo di far conoscere al governo anche la situazione in cui si trovava l'abitato di Natile, sovrastato da una frana.

Il giorno programmato per la visita di De Gasperi a Platì, di buon mattino, un drappello di persone, formato prevalentemente da donne e bambini delle scuole elementari, guidato dal cav. Giovanni Napoli ed accompagnato dal segretario della sezione degli ex combattenti, raggiunse la SS 112 proveniente da Careri.

In attesa del transito del corteo presidenziale, i convenuti si disposero ai bordi della strada con in testa i bambini, (di cui facevo parte anch' io); lo spazio occupato era quello compreso tra la casa cantoniera e la fontana Angelica.

Il corteo era preceduto da motociclisti che si attivarono ad avvertirci di non ostacolare il transito, ma appena arrivata l'autovettura del Presidente, il portabandiera, agitando il tricolore, si accostò alla vettura che si fermò per far scendere l'illustre Statista

Una mamma, ''Brandina'', prese la parola:” L’alluvione ci portò via tutto. I dieci morti hanno provocato un lutto profondo in tutti noi. La frana che sovrasta l'abitato ci schiaccerà come sorci nella tana, dimenticati da Dio e dagli uomini.”

Questi concetti espressi con lessico approssimativo, ma con fervore appassionato e con le guance solcate dalle lacrime, colpirono profondamente il Presidente. Questi, con gesto confortevole, si rivolse prima alla donna che era intervenuta e poi a tutti i presenti con queste parole: “Da oggi non sarete più soli. Mi ricorderò di voi e il governo si farà carico dei vostri problemi.”

Le forze dell'ordine trassero un sospiro di sollievo e il corteo proseguì per Platì.

Il Presidente effettivamente non si dimenticò di Natile e dei suoi problemi.

In tempi brevi giunsero funzionari ministeriali che, assieme a quelli provinciali, effettuarono i sopralluoghi che si conclusero con il giudizio di totale trasferimento dell'abitato.

Superata questa fase, con l'emissione del relativo decreto ministeriale, ancora vigente, bisognava indicare l'area dove far sorgere il nuovo abitato.

A tal proposito c'era chi proponeva una zona vicinissima al vecchio abitato e chi preferiva una zona più ampia al di là della fiumara. Tale divisione perdurò per molti anni, tanto che quelli che si trasferivano nel nuovo centro abitato venivano definiti ''Cantuneroti'' da chi avrebbe preferito restare a Natile Vecchio.

La prima proposta era sostenuta dai cosiddetti 'Gnuri', la seconda era caldeggiata dal Cav. Napoli. Passò la seconda, anche per l'astuzia del Cav. Napoli, che presentò come Parroco di Natile il sacerdote don Antonio Sculli, allora docente presso il Seminario di Gerace, favorevole al trasferimento del paese e non don Filippo Ietto, che apparteneva alla famiglia 'Gnuri' invece contrario.

Quindi l'area indicata fu contrada Angelica nel comune di Careri lungo la SS122, esattamente dove c' era stato l'incontro con il Presidente. Proprietaria dell'aria da urbanizzare era la famiglia Zappia-Principato di Platì che possedeva una chiesetta patronale a cui era molto legata donna Chiara Principato, prodigale benefattrice. Forse non a caso la titolare della parrocchia di Natile Nuovo è S. Chiara Vergine.

I lavori per la preparazione del piano regolatore richiesero l'utilizzo della manodopera locale, pastori e i contadini diventarono manovali e muratori

La seconda fase si sviluppò con la realizzazione della chiesa, della sede municipale e degli alloggi di pronto soccorso.

Ma per procedere all' assegnazione degli stessi si presentò in tutta evidenza il problema della burocrazia e della legalità.

Anche in questo caso essenziale fu il contributo del Cav. Napoli, il quale, essendo impiegato comunale e conoscendo la situazione di ogni cittadino di Natile, riuscì a far coincidere situazioni di fatto e di diritto.

Ultimati gli alloggi popolari si passò all' assegnazione, per sorteggio, del terreno sui cui costruire l'abitazione distrutta a Natile Vecchio con i fondi dello Stato.

Un discreto numero di cittadini ottenne l'assegnazione ma non ricevette mai il contributo statale per la ricostruzione: probabilmente a causa della generosità del reperimento degli aventi diritto.

Per qualche anno ancora le ditte che si erano aggiudicati gli appalti garantirono il lavoro per alcuni cittadini, mentre gli altri presero la via dell'emigrazione prima per Milano e Torino e successivamente per la Francia e la Germania.

Intanto a Natile Vecchio continuarono a vivere non solo le famiglie che non avevano ottenuto il contributo, ma anche coloro che cedettero l'abitazione realizzata a Natile Nuovo ai propri figli appena sposati. I terreni agricoli che appartenevano all' 80 % al latifondista Galatti, fin da quando Natile e Platì costituivano un unico Comune, furono frazionati e acquistati dai natilesi che cercarono ulteriori spazi estendendosi oltre il comune di Careri, Benestare ed Ardore.

Alla luce di questa situazione l'Amministrazione Comunale di Careri ''1997-2001'' , approssimandosi il cinquantesimo anniversario del tragico evento alluvionale, decise di ricordare il sacrificio dei dieci morti dedicando un monumento ai caduti dell' alluvione .

Nello stesso tempo conferiva al prof Antonino Ietto, ordinario di geologia presso l'Università della Calabria, l'incarico di ''studio geologico e tematiche affini per quanto occorrente ad una redazione di PRG, con particolare interesse alla verifica di una conferma o meno al trasferimento del nucleo urbano di Natile Vecchio'' .

Tale studio geologico è stato consegnato al comune di Careri in data 10/11/2002.

Da questa data si sono susseguite tre Amministrazioni comunali e due Commissariamenti a seguito dello scioglimento per mafia.

Ma nessuno ha dato seguito alle sagge indicazioni dell'illustre geologo in merito alle emergenze relative ai tre centri abitati del Comune.

Tanto meno è stato tenuto in considerazione il parere favorevole ad un decreto di consolidamento del prof. Ietto in sostituzione del decreto del 1951 che aveva determinato il totale trasferimento per l'abitato di Natile Vecchio.

Edizione a cura di Rosalba Perri

  (*) https://iloveplati.blogspot.com/2021/09/la-vita-risorge-natile-gli-oliva-plati.html