“E intanto la pioggia fitta e continua pesta sul tetto ... sui vetri ... sul suolo”. Ernesto Gliozzi il vecchio
A settanta anni
da quella tragica notte tra il 17 e il 18 ottobre del 1951 non c’è stato chi
raccontasse integralmente quel dramma in un’opera letteraria, solo singole
vicende, singoli episodi legati a chi ne trattiene ancora il ricordo. A questi
ultimi si aggiunge il ricordo di quei giorni per tramite di Lisa Mittiga figlia
del dottor Giuseppino, per me, che riporto quei ricordi, zio. Il dottor Giuseppe
Epifanio Mittiga aveva 64 anni quando visse sulla sua persona il dramma di un
intero paese. Egli si laureò in Medicina e Chirurgia a Napoli nel 1912 a 25
anni. Figlio di Rocco e Caterina Fera dopo la scuola elementare a Platì fu
mandato nella città partenopea per la scuola media, successivamente si trasferì
a Gerace per compiere gli studi ginnasiali. Ritornò di nuovo a Napoli dove da
tempo risiedeva lo zio Saverio Mittiga, sacerdote e docente presso la locale Università
Teologica, autore di racconti e poesie editi nella stessa città. Presso la
Regia Università di Napoli studiò con profitto con l’illustre prof. Antonio
Cardarelli (1831 – 1927) ormai in procinto di lasciare quell’ Accademia per
raggiunti limiti d’età. Era Ufficiale Sanitario presso il Comune di Platì quando
l’alluvione si infranse sul paese. Non bisogna però pensare che quel disastro fu un fenomeno
casuale. Già da diversi giorni una fitta pioggerella cadeva incessantemente
senza che il sole apparisse, anche per pochi minuti. Alle volte si rafforzava,
alle volte diminuiva. La terra, le campagne, gli orti diventavano di giorno in
giorno impraticabili, non solo per le zappe ma anche per le scarpe e gli stivali. Molti di
quelli che abitavano in campagna cercarono rifugio presso i parenti in paese;
molti, fiduciosi rimasero nelle proprie abitazioni coloniche. La notte tra il
17 e il 18 dalla montagna verso Santa Cristina, da Arcopio e a monte di Sanello
si precipitò un torrente impetuoso che andò a colpire maggiormente la contrada
Due Valloni, il cimitero e la zona tra la fiumara Ciancio, il corso Umberto e
la via San Pasquale. Per diciannove vite la mattina del diciotto ottobre 1951
non si schiarì, centinaia erano i bisognosi di pronto soccorso. La casa del medico
Mittiga era posta all’entrata del paese. Essa con altre vicine diventò un
ospedale da campo dove il dottore ebbe modo di prestare il soccorso a chi riportò
le ferite più gravi non potendo sperare in aiuti esterni. I feriti arrivavano
adagiati sulle carriole, sulle scale fatte barelle, su lenzuola o coperte imbrattate
di sangue. Bisognò amputare o ricostruire le parti lacerate, molte teste, molte
braccia, molte gambe, molti piedi. C’era anche da soccorrere i feriti meno gravi
nelle proprie abitazioni e le partorienti, e qui il medico era assistito dalla
signora "mammina" Francesca Portolesi, moglie di don Umberto. A distanza di tempo la
figura e l’opera del dottor Giuseppino Mittiga è ricordata dai più anziani, ma specialmente per chi
lo ebbe come padre amoroso o zio affettuoso.
Hanno partecipato
Lisa Mittiga di Giuseppe e Saro Mittiga di don Agostino.
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