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mercoledì 22 maggio 2019

María llena eres de gracia [di Joshua Marston, 2004]




SURSUM CORDA

Ecco il bel mese dei fiori, il soave e tiepido Maggio. Ritornata è con esso la giovinezza nei cuori, negli occhi si riflette il fior de la speranza, ne le menti risuonano i cantici sublimi de la felicità e de la gioia.
Dai prati smaltati di variopinti fiori, da le valli echeggianti per mille gorgheggi, da l'alture, donde scendono rumoreggianti le acque, - come festante allodola – s’eleva giuliva la nota di plauso, la strofa alata e profumata al Maria.
A questo coro festivo di palpiti e di preghiere s'unisca la nostra voce o fratelli. D'intorno a noi ferve minacciosa la lotta; il campo sociale è invaso dai combattenti; molte bandiere s’agitano svolazzanti al vento. Anche noi abbiamo la nostra da difendere coraggiosamente: - E’ l’insegna papale – Siamo giovani; il sangue ci scorre, forte ne le vene, e l'alto dovere c' incombe di pugnare e vincere ne le feconde lotte de la vita. Spetta a noi - speranza e riscossa de la bianca bandiera - scendere tra le masse ammutinate e spezzare il pane del Vangelo, la parola novella de la Santa Democrazia Cristiana. Avanti, dunque, o fratelli a la riscossa: «chi non pugnò non vinse».
Lassù, in alto, cinta di stelle, folgorante di luce, sta il nostro Ideale: Maria. A Lei il nostri canti in questo mese, i nostri palpiti, le nostre aspirazioni. Ella possiede una forza magnetica che ci attrae; ci attira con la bellezza de le sue forme, ci chiama con la bontà de la sua virtù, con la potenza dinamica de la sua grandezza. Andiamo a Lei. Maria ci porgerà un'arma potente per vincere ne le battaglie vitali, ci darà la chiave prodigiosa per risolvere la grande ed intricata quistione sociale; e questa chiave è l'Amore. – E qual potenza mai se non l’amore ispirato da Lei, potrà disarmare il braccio de l'affamato ed illuso operaio che conculcato ne la miseria e nel fango – si leva minaccioso per vendicare i suoi dritti? Chi potrà mai far comprendere a quel vampiro de l'usuraio che è fratello de l’abbattuto e conculcato nel fango? Eh! via, disinganniamoci, non c'è via di mezzo: o nel campo sociale torreggi Maria, o la lotta sarà aspra, sanguinosa, terribile: scegliete. Fratelli, io ivi esorto con tutte le potenze de l'anima, andiamo e Maria.
Noi abbiamo bisogno d'amor vero, santo, immacolato vien da l’alto. Un deserto sconfinato ci circonda: è il tetro egoismo regnante; l'oceano rumoreggiante d'intorno è l’accanita lotta per l'esistenza; il cielo nuvoloso senza  luna e senza stelle che ci copre è la cecità de l’anima nostra, fratelli.  
Ma, tra gli strappi di nuvole un lembo azzurro di cielo ci sorride su l’oceano lontano, brilla da lassù: è la Stella del Mare in alto i cuori! …
A lei drizziamo la vela de la nostra nave; verso quel lembo azzurro di cielo spingiamoci arditi. Maria da l'alto ci sorriderà, amorevole, ci stenderà la mano, c'ìnfonderà la forza, la fede, l’amore e vinceremo: Sursum Corda.
E. GLIOZZI-FERA
LA SCINTILLA GIORNALE DELLA DOMENICA ANNO IV – N. 18  MATERA 3 MAGGIO 1903

NOTA - Tra il film citato e l’articolo di Ernesto Gliozzi il vecchio – nelle pubblicazioni giovanili Gliozzi-Fera –sono scivolati via cento anni. La realtà in cui il film ci addentra è delle più tremende, di seguito il coltello nella piaga lo affonderanno Clint Eatwood con The Mule e più recentemente Steven Craig Zahler con Dragged Across Concrete; cosa aggiungere quando nel testo in questione si arriva a “Un deserto sconfinato ci circonda: è il tetro egoismo regnante; l'oceano rumoreggiante d'intorno è l’accanita lotta per l'esistenza; il cielo nuvoloso senza luna e senza stelle che ci copre è la cecità de l’anima nostra, fratelli” … chi non pugnò non vinseDa difendere non è più l’insegna papale o la parola novella de la Santa Democrazia Cristiana. Ma, tra gli strappi di nuvole un lembo azzurro di cielo ci sorride … Tra voi chi ricorda un maggio come quello corrente?


lunedì 20 maggio 2019

Capriccio passeggero [di Yasujirō Ozu, 1933]



Da Gallico si fa prima

Sambatello è un grappolo
di strade, la riserva animale
di un secolo.
                   Rosa l'esemplare
più raro vive nella casa
della chiesa. A terra tiene
saletta da ballo a nuovo
e teatrino parrocchiali, mentre
l'edera del giardino è sul terrazzo,
si contano le fila trai muri
scalcinati.
                         Dimmi Rosa se sei
sopravvissuta agli antenati
tuoi gli:
non c'è a morire
per prima nessuna metafora.

(Ottavio, Mema e Zio Arciprete)

Conosco dalle foto a Sambatello
un loro sembiante
(e i nomi ripetuti da mia madre).
Rosa invece si guarda allo specchio
specchiandosi li forma la polvere.

DEMETRIO MARRA

Quello che avete letto lo devo a Nina (A.) Balena che si è ricordata, leggendole, di quanto vado facendo. L'autore, reggino, è forse il livello più alto delle calabre arti, come pure l'autore della foto in apertura, Enzo Penna. Leggere e vedere non vi costa tempo e per una volta tanto vado fuori strada. Forse! L'unico a cui è lecito accostarsi in questi casi è il maestro giapponese.
Gli originali li trovate qui:

e qui Demetrio Marra conversa con Enzo Penna:
https://inchiostro.unipv.it/2017/09/27/intervista-enzo-penna-fotografo/

domenica 19 maggio 2019

L'ombra del passato [di Edward Dmytryk, 1944]


Gente, il passato è disordinato.
Si intromette come un parente indesiderato rovesciando vino e sugo al tavolo della cena.
Ma non possiamo crescere come città o popolo senza l'onesta contemplazione del nostro passato disordinato.
Inoltre, le rinominazioni delle strade sono costose e deleterie.
Se nascondiamo tutto, si mette in discussione non tanto che siamo la città a cui importa dimenticare ma più che altro, siamo la città che ha dimenticato.
Con gli occhi spalancati dovremmo veramente ricordare il nostro passato e non creare una versione falsa di esso.
William Faulkner lo ha detto meglio, ha detto, "Il passato non è morto, non è nemmeno passato."

Gente, non sono parole mie, sono rubate al film, niente di che, l’unico per cui vale la pena vederlo è James Caan, di Carol Morley, Out of the Blue del 2018 ma William Faulkner ancora parla, e spara, chiaro! Il titolo d'apertura rimanda a Chandler e il posto dove si trova la foto, rubata, lo trovate citato in precedenza.

giovedì 16 maggio 2019

L'oro di Napoli [di Vittorio De Sica - 1954]



Se l’umanità progredisce, se la libertà anziché soccombere al tutto si fa strada di continuo …” Giuseppe Ricciardi, Memorie

Tutto poteva accadere a questo “outsider – ribelle – romantico – populista – propugnatore di giustizia e libertà – attento alla questione femminile”, Giuseppe Ricciardi, antiborbonico dapprima, repubblicano europeo dopo il 1860, educato dalla madre Luisa Granito dei marchesi di Castellabate, dissidente col padre Francesco, giurista e Ministro di Grazia e Giustizia al tempo di Gioacchino Murat e di Ferdinando I, che dare in sposa la sua diletta primogenita ad un rampollo di una famiglia come gli Oliva di Platì, filo borbonici di razza per dirla con Michele Papalia.
E’ quanto si apprende da questa illuminata tesi di dottorato scritta dalla dottoressa Angela Russo: - Nel desiderio delle tue care nuove” Scritture private e relazioni di genere nell’Ottocento risorgimentale - dell’Università Federico II di Napoli, disponibile anche presso Franco Angeli editore. Lavoro scoperto da Pina e Rosalba a seguito di un colloquio con Tota Oliva.
Ancora inedite allo studio sono le connessioni tra il paese di Platì e la capitale del Regno delle due Sicilie e il capoluogo campano, tra gli anni successivi al 1860 e la Grande Guerra: Napoli.
Varcato il XXI° secolo il paese di Platì sembra ritornato in località Santa Barbara, i segni del progresso, che pure hanno servito per molti, sono ancora ignorati se non sono facili macchine ruba-pensieri. A questo si cerca si sopperire con le periodiche pubblicazioni che scaturiscono dalla sede in cui state ora e che serviranno a chi verrà non si sa quando.
A Luisa Ricciardi il titolo nobiliare le derivava da editto di Gioacchino Murat conferito al nonno Francesco con Decreto Legge nel 1813, con diritto di trasmetterlo alla primogenitura. Essa era nata il 31 dicembre 1840 negli anni che vedevano il padre Giuseppe e la madre Clorinda Not girovagare in esilio tra la Francia e la Svizzera. Così Luisa e la sorella Elisabetta furono allevate con la lingua francese, apprendendo successivamente quella italiana. Luisa era un ”diavolo in carne” come il padre.
A Napoli la vita della famiglia Ricciardi si svolgeva tra la residenza del Vomero e la villa di Posillipo. E’ da quest’ultima (Posilipo) che provenivano a don Filippo Gliozzi le missive con le massime per amministrare i beni di Filippo Oliva e di già pubblicate in queste pagine. C’è da ritenere che l’unione tra Luisa e Filippo, avvenuta il 18 aprile del 1865, fu motivata dalle ristrettezze economiche in cui versavano i Ricciardi a seguito dei continui spostamenti dovuti all’esilio di Giuseppe. Filippo venne a mancare prematuramente nel 1868 lasciando a Luisa i figli nati dalla loro unione: Filippo e Maria. Essa si è poi sposata in seconde nozze con il marchese Salvatore Spiriti di Casabruna, da cui ha avuto altri due figli.
Questa breve storia la sospendiamo qui lasciando ad altri volenterosi il suo sviluppo.
Su Giuseppe Ricciardi e le sue vicende il testo citato ed il web vi potranno aiutare non poco. 

Qui di seguito i temi riguardanti Filippo e Luisa


mercoledì 15 maggio 2019

Fango sulle stelle - riusciremo mai a mettere insieme l’Italia di Platì



Squarci e voragini                                                                               
E soprattutto c’era Badolato, vista proprio il giorno avanti a Platì, Badolato letteralmente squarciata dalle frane, ché il monte che gli sta sotto, già sfaldato nelle sue interne stratificazioni dal secolare lavoro delle erosioni, si aperse sul fianco, facendo una sola vittima per la prudenziale decisione del giovane sindaco Tolotta, il quale ordinò che, sotto la pioggia torrenziale, l’intera popolazione si disperdesse nei campi: e anche di là parlava lo spettacolo di intere contrade in rovina, quasi colpite da un bombardamento, e dove si passa tra mura crollate, su strade piene ogni tratto di  squarci e voragini, girando angoli di case che hanno subito strane torsioni, quasi si fossero girate su se stesse tanto che gira l’amara storiella di quei due vicini che da anni litigavano perché uno aveva abusivamente aperta una finestra sulla proprietà dell’altro, e che ora hanno fatta la pace, perché spostandosi la casa, la finestra ha cambiato direzione. E anche qui dei cinquemila abitanti, millecinquecento sono rimasti senza tetto, e si accatastano sugli altri. In questi giorni l’on. De Gasperi ha appunto inaugurato alla Marina di Badolato i primi ottanta alloggi che permetteranno di metterne a posto quattrocento.
Adesso forse è più facile capire perché quella sera, arrivando sul Corso a Reggio, io avevo avuto l’impressione di piombare in un altro mondo. E da allora questa è la domanda che ancora mi porto dentro “Riusciremo mai a mettere queste case insieme?”, riusciremo mai a mettere insieme l’Italia di Platì e l’Italia delle luci al neon? L’Italia borghese e cosmopolita e l’Italia della fame congenita? E se non riusciamo a metterle insieme, che cosa faremo?
Filippo Sacchi  La Nuova Stampa, 28 marzo 1952

Nota. Mi sembrano del tutto appropriate le domande che si poneva Filippo Sacchi 67 anni addietro con i recenti exploits che hanno coinvolto il paese, ma non i paesani. Forse è svanito pure il vizio della speranza!
La foto deriva da qui:

lunedì 13 maggio 2019

Fango sulle stelle - Le scuole di Platì e i vezzi di Reggio



La Broadway reggina

Ebbene quel giorno io l’avevo proprio vista da vicino, questa fame congenita. L’avevo vista nelle scuole di Platì. Le scuole di Platì! Una casupola di fango, a cui si arriva ciampicando per una viuzza che è tutta una fetida pozzanghera, piena di buche, di detriti e di spurghi. Si sale una scaletta buia, e sopra, nell’unico piano, ci sono le aule, tre stanze soffocanti, che quasi si tocca con la testa, senza vetri alle finestre (erano giorni freddissimi), con i pavimenti divelti, naturalmente senza luce, e già alle tre del pomeriggio quasi non si vedeva. Pigiati a cinque a cinque stavano gli scolaretti nei rozzi e miseri banchi. Era la mostra della denutrizione. La maestrina (eroiche maestre, eroici maestri italiani, sono essi ancora il midollo della Patria) me li chiamava fuori, bimbette e ragazzi, perché vedessi meglio da vicino quei visini patiti, quelle braccine, quei piedini nudi e scarni incrostati di mota. Non mi diceva niente, solo li chiamava fuori ad uno ad uno per nome, così semplicemente come se fosse la presentazione di un campionario, come fanno nella presentazione dei modelli. Era la sfilata della fame congenita.
Ed ecco, dopo poche ore di treno, di colpo mi trovavo sul Corso a Reggio Calabria. Non è il solo corso, quello di Reggio, Cosenza ha il suo, però spoglio e deserto la sera, in accorso al suo carattere segregato e montanaro. E il Corso di Catanzaro, animatissimo da mattina a notte, è ancora il vecchio nobile Corso di andamento serpeggiante e provinciale. Ma il Corso di Reggio è il primo tentativo di arteria moderna di tutta la Calabria. Un solo rettifilo di quattro chilometri, fiancheggiato da vetrine, esso si accende la sera, da cima a fondo, di insegne colorate e di guizzi al neon. In questa settimana poi, Reggio sfoggia più che mai tutti i suoi vezzi, perché si è aperta la Fiera Agrumaria Internazionale, una pera riuscitissima che chiama, sotto gli alberi del suo bel parco, il campionario dorato di tutti gli agrumeti del Mediterraneo. Il contrasto tra lo spettacolo di miseria e segregazione che avevo contemplato a Platì e questa minuscola Broadway reggina, che dispiegava davanti a me tutte le sue innocenti ambizioni e civetterie stracittadine, fu per me, lo confesso, un forte colpo. Era un sentimento misto di tante cose, di tristezza e anche un po’ di sollievo, di sconforto e anche un po’ di coraggio. Ma era soprattutto un senso generale di incredulità. Un po’ come dire: “Riusciremo mai a mettere queste cose insieme!”.
La Calabria è tutta in questo contrasto. Se percorrete la costa da Reggio fino alla vispa e industriosa Crotone, trovate lungo tutta la frangia scaglionate le Marine, piccoli centri venuti su intorno alle stazioni della ferrovia, con quel carattere di costruzioni casuali e frettolose come i baraccamenti nei Paesi pionieri. Poveri e scadenti anch’essi, con piccole case, anch’essi formicolanti di bimbi cenciosi e di asinelli. Però c’è il mare vicino, col suo colore d’Egeo, con i suoi stupendi golfi lunati; qualche volta oltre alla stazione c’è anche un porticciolo; e poi ci sono barche, e pesci nella stagione propizia. Vi si fa il commercio, modesto commercio, però commercio: e dai treni in arrivo sbarcano viaggiatore di Puglia e casse da Milano e da Torino.
Ma appena si lascia la costa, appena dalle Marine si sale verso i grossi paesi che stanno a dieci, magari a venti, qualcuno addirittura (Roccabernarda) a quaranta chilometri dallo scalo, verso queste grosse, vetuste, imponenti borgate e cittadine, che furono quasi tutte delle Acropoli, e quindi sacre alla cultura del mondo, tutte rannicchiate sulla cima di colline sospese: allora, rapidamente cambiamo la scena l’atmosfera. Stupende a vedere di sotto, con la loro grigia fronte di mura, spesso arrotondate da antichi bastioni, esse si presentano, appena salite, angusti e impenetrabili labirinti di miseria e di abbandono. E appunto in questi paesi sfiniti, malfabbricati dall’antico sopra formazioni argillose ed arenose, alcuni dei quali già fortemente provati da terremoti e alluvioni precedenti, che il diluvio dell’ottobre ha fatto scempio. E quella sera sul Corso di Reggio non c’era solo Platì nel mio ricordo, ma tutta quest’altra Calabria che avevo percorso in quei giorni, la sconsolata Calabria dell’interno, la sinistra Melissa, il duro Marchesato, da Santa Severina, bella e remota, alle desolate ondulazioni di Capo Rizzuto. E c’era Africo, completamente demolita anzi ormai inaccessibile, perché non c’è più strada, sì che si discute adesso dove rifabbricarla, perché la popolazione è stata evacuata in massa, e se volete vederne i pietosi brandelli basta che andiate alle porte di Reggio, nel Lazzaretto in quella terribile caserma PS dove gli sfollati di Africo sono confusi sugli sfollati della guerra. E c’erano tutti i paesi che vivono sotto il continuo pericolo di frane, Palizzi, Bisignano, Casignana, e tanti altri, per i quali da sedici, da vent’anni sono pronti elaborati progetti di consolidamento. Costruzioni di muraglioni, di briglie, di opere idrauliche e forestali, progetti di cui non si è fatto nulla, mentre adesso con l’alluvione questi disgraziati paesi hanno veduto aprirsi nuove crepe e spostarsi altre tonnellate di terreno. Un geologo, il professor Ducci, che ha visitato recentemente la Calabria, ha trovato che ci sono dodici paesi che camminano … (continua)
Filippo Sacchi, LA NUOVA STAMPA, 28 marzo 1952

domenica 12 maggio 2019

Fango sulle stelle [di Elia Kazan,1960]




DOPO IL DILUVIO IN CALABRIA
Paesi di fango e di fame
La scuola di Platì pare la mostra della denutrizione – Labirinti di miseria nei villaggi montani – Il contrasto con Reggio – Quando riusciremo a mettere assieme l’Italia borghese con quella della fame congenita?

(Dal nostro inviato speciale)
Reggio Calabria 27 marzo
Sapevo che un rapido sbalzo di altezza può produrre disturbi bruschi, capogiro, mancanza di respiro, o quello che i medici chiamano anossiemia. Anch’io ho avuto l’altra sera un’anossiemia arrivando direttamente a Reggio da Platì. Naturalmente un’anossiemia mentale, soltanto nella testa. Ma è la stessa cosa, lo stesso choc e smarrimento, e il senso angoscioso di non capire più niente. Platì è un grosso paese sul versante jonico dell’Aspromonte, situato entro valle a una trentina di chilometri dal mare, sulla strada che da Bovalino Marina per Scido e Sinopoli porta a Bagnara.
Scido  Sinopoli  Platì, qui, l’orecchio è continuamente accarezzato da lontane cadenze greche. Platì è uno dei molti paesi della montagna che durante l’alluvione dello scorso ottobre subirono gravissimi danni dalle frane. Proprio nel punto in cui si trova il paese, la fiumara fa un gomito e una gola. Ora, la notte fra il terzo e il quarto giorno del diluvio calabrese, vere cateratte di acqua così impetuose da strappare ai monti vicini intere pendici coperte di uliveti, come si può portar via un mastello, strariparono sul paese. E il contrafforte, staccatosi, attraversò il cimitero e trascinò via i morti.

Dieci in una stanza

Le case sul fiume crollarono come castelli di carta. Tutte le vie, sino a quelle più vicino alla chiesa, furono sommerse da una corrente che per più giorni le tenne allagate, e che lasciò, ritirandosi, un indescrivibile sedimento di mota, di sassi, di tronchi, talmente che ci vollero mesi di lavoro per rimuoverlo. E adesso è rimosso, ma il paese ha conservato lo stesso il colore del fango; fango le catapecchie, dove in attesa che siano finite le prime case per i senzatetto, soltanto adesso in costruzione un paio di chilometri prima del paese, decine di persone per stanza vivono ammucchiate in promiscuità; fango le strade, fango i vestiti, fango persino le facce. Perché la denutrizione, me ne sono accorto, dà alla pelle lo tesso tono bigio, sordo, terreo del fango.
Chissà, girando, quanti affamati ho visto senza saperlo nella mia vita. Ma, devo dirlo con umiliazione, è solo in questi giorni che ho imparato a distinguerli. Fu la prima volta sulla strada tra San Giovanni in Fiore e Santa Severina. Eravamo scesi per esaminare la recente sistemazione a ripiani di un dosso collinoso, dove quotisti dell’Opera Sila avevano piantato grano. Era un punto bellissimo. Scavalcando la gran valle, la vista spaziava sopra una prospettiva di tonde cime lisce e armonicamente digradanti, pezzate di bianche crepe e si pascoli verdissimi, sulle quali spiegava lontano l’alto profilo di Strongoli, e su quel cielo terso e irradiato pareva una fantasia di Dorè.
Vedendo fermare la macchina, alcuni contadini vennero verso di noi. Uno dei miei compagni di viaggio, era addetto a quei lavori, e appunto veniva per questi, si mise a discorrere con loro, e subito notai la faccia di uno, e (lo capivo confusamente) si si lagnava perché per un certo disboscamento gli erano state conteggiate meno ore che ad altri suoi compagni che avevano lavorato come lui. Parlava con una strana concitazione, e m colpì subito l’espressione degli occhi, fissi incavati, cerchiati d’ombra e con un che di vagamente allucinato e febbricitante, nel viso di un color grigio e stanco, colore di argilla bagnata. Mentre l’altro parlava, mi volsi ad un amico calabrese che era con noi e gli chiesi sottovoce di osservare quel tale, se non gli pareva che avesse un po’ la faccia da cocainomane. “Oh, no – mi rispose calmo e obiettivamente – è un uomo che ha fame”.
Allora da quel momento, andando in giro per la Calabria, incominciai a studiare la faccia della gente che incontravo, e così in pochi giorni mi sono impratichito in questa triste perizia di distinguere la fame. Ecco perché ho subito visto quel colore, ho subito visto la fame a Platì. Intendiamoci, non è mica sempre una fame drammatica. Noi italiani, quando pensiamo alla fame, pensiamo subito al conte Ugolino. Ma no, è una fame molto meno cruenta, molto più blanda: è una fame congenita, quella che si porta con noi dalla culla, che non ci lascia mai, tanto che, vedete, alla lunga finiscono per immunizzarsi, e diventano vecchi magari centenari, e così servono agli igienisti per dimostrare che l’uomo sano mangia poco. (continua)
Filippo Sacchi, LA NUOVA STAMPA, 28 marzo 1952

NOTE. Ancora oggi questo testo di Filippo Sacchi splende di neorealismo cinematografico e letteratura  arrivando a far rizzare i capelli. L'autore arrivò a Platì accompagnato da Mario La Cava. La cartolina di Brancatisano appartiene agli eredi di Joe Ielasi di Adelaide. 


giovedì 9 maggio 2019

Destini di donne [di Marcello Pagliero,1953]



Mick,
approfitto della tua prodigiosa memoria.
Nel 1989 a Platì avvenne un fatto clamoroso: la Signora Casella, madre di un ragazzo sequestrato dall'anonima, si incatenò ad una cabina telefonica per chiedere la liberazione del figlio. In un articolo comparso sulla Gazzetta del Sud vengono nominate, quali persone intervistate, Maria Staltari e sua figlia Lisa Perre, "da tempo emigrate in Australia,  dove è forte la presenza di  platesi". Tu le conosci? Se non sbaglio Maria Staltari arrivò in Australia nel 52 e andò a vivere a Mile End (Questo dagli Australian National Archives.) Quale Perre ha poi sposato? Forse uno dei "consaroti"?
Questo è il post se lo vuoi leggere:
Rosalba

Ciao Rosalba
Grazie per il post……
Mi ricordo bene questa storia di la Casella in Platì e l’articolo chi hai mandato con Ia foto è molto interessante e porta avanti un parallelo di questa storia a confronto di un altra storia, di una signora in America soggetto di un film con l’attrice Frances McDormand…………..se non mi sbaglio nella prima foto la signora che si vede vicino la Casella sarebbe tua cugina Nazzarena sorella di Tony Perre “u zoppo” ??
A riguardo di questa signora Staltari e sua figlia Lisa Perre ti posso dire assolutamente che non incintra con “I consaroti”-     allora i consaroti forse erano immigrati verso il 52 e si c’è la figlia Lisa Perre e di ‘consaroti” adesso sposata con un certo Giovanni Daniele-ancora viva e residente in Mile End-  però sua mamma si chiamava Marianna (o Maria) ma lei era Portolesi (e no Staltari) sorella di Peppino Portolesi padre di Giuseppina.
Allora io penso che questa Maria Staltari sarebbe la figlia di Peppe Staltari detto “U bifaru” sorella di la buon anima di Micu u Bifaru compare di tuo Zio Frank.   Questa Maria Staltari ancora viva e residente in Melbourne ha sposato Giorgio Perre chi fa parte della famiglia “i giargani” e loro hanno una figlia Lisa Perre.  La cognata di questa Maria sarebbe Catuzza “ a ciciola” sposata con Vici Perre…………….per sicuro ti ricorde suo nipote Mimmo Perre chi abitava una volta in Torrensville con la sorella Antonietta e sua nonna………il loro padre era Rocco Perre e la mamma defunta da tanti anni prima faceva parte della famiglia di “francischani”
E solo questa che potrebbe essere perché tutti gli altri Staltari (fuori di bifari e donne) sono in Griffith o Canberra -un paio chi erano sposati con i fratelli Staltari detto “i ciancantani” primi cugini di mio padre………………..

Il mondo e piccolo !!

A presto
Mick (Pangallo)

Maria Staltari (nella foto) arrivò a Melbourne il 17 febbraio 1949 a bordo della mitica Ugolino Vivaldi

mercoledì 8 maggio 2019

La canzone delle rose [di Ugo Gracci, 1920]





LE ROSE

Dopo le umili e modeste viole de l'aprile, le rose superbe ed uberi del maggio.
Sboccian da per tutto al mite favonio che le nevi discioglie, sotto il tiepido raggio del sole carezzevole. Un sottile profumo lontano ci annunzia il loro ritorno. E volgendo qua e là, con impazienza, la pupilla vivace, le vediamo, piene di vita novella, su le verande signorili, nel vano scuro de le ruvide finestre, nei giardini in fiore, lungo i sentieri rinverditi dei prati e de le ville, sui cigli erbosi de le gore stagnanti. Ve ne ha de le tinte più varie, dei colori più disparati; sempre belle pero, sempre morbide, vellutate, fragranti.
Spuntano e muoiono in un giorno. E mentre alcune in pieno rigoglio, vengono spiccate da la materna aiuola, altre ed altre sbocciano sul cespo odoroso, anelando a la vita. E, strette in mille varie fogge, in mille modi eleganti, si spargono per la città rumorose, per i villaggi tranquilli. Ogni luogo inondato dal loro profumo inebriante: da le gigantesche e maestose basiliche, a l'umili e bianche chiesette rusticane: dai superbi palagi signorili a l'umide e buie catapecchie de la povera gente. E non vi è persona che non l'ami, non gusti il profumo soave, non se ne adorni il seno.
Questo è il loro mese, il mese de loro sovrano imperio.    
E rose, e non altri fiori, sui pettini inamidati, sui cappelli a l'ultima moda, ne le mani e in bocca, a tutti. A volte anzi per le vie e una pioggia di petali multicolori, che scendono lievemente, titubando, dai balconi e da le terrazze, abbandonate" con compiacenza da mani gentili.  
Oh, le rose, le rose, piccole creature delicate, di quanti cuori non sono regine, di quanti animi magiche conquistatrici, di quanti affetti inconsce messaggere.
In Chiesa, su l'Altare de la Madonna, non vi sono che rose. Son disposte a cono, le uno accanto a le altre, in alto, fino ai piedi de la buona Madre Celeste. E tutte, sembra vogliano ascendere, ascendere per essere più da presso a la pia Signora, che guarda con occhio buono, sorridendo.
Ascolta Ella i fremiti indistinti, le vocine sommesse, i susurri lievi de le rose? Che dicono esse, ai suoi piedi, nel loro strano linguaggio? Che dicono sommessamente? Deh, scostiamoci per poco dai rumori assordanti de la vita quotidiana, inoltriamoci riverenti e devoti ne la bionda penombra del tempio, accostiamoci silenziosi a l'Altare di Maria.  Udite? In quelle rose vibra l'anima di un popolo di credenti. In esse sono i palpiti, le aspirazioni di tanti cuori avidi di luce; sono le angosce e le lagrime di tanti infelici trafitti dal dolore; le preghiere di tante madri che vogliono veder buoni i figliuoli traviati; di tante spose che intercedono pace pel marito lontano; di tanti operai che chiedono pane per le famiglie affamate. E palpiti ed aspirazioni, preghiere e gemiti, s’elevano come una voce sola da tutte le rose.
lvi non vi è distinzione di classe. Daccanto a, le rose scialbe e scolorite de la povera gente, stanno le rose superbe e roride dei nobili. Oh quante cose non dicono quelle rose molteplici, strette da un supremo vincolo di santo amore verginale, a la Regina dei Cieli. E potrà Ella, la Madre de le misericordia, non esaudire loro fervide preghiere sommesse?
Oh, le rese, le rose!  `
Siete tanto belle, fresche ed aulenti, rose del maggio. Ma - è triste il dirlo - la vostra, non e che bellezza effimera e passeggera. Io vi ammiro, sì, e son lungi da l’odiarvi. Ma il mio cuore, il mio vergine cuore di giovane levita, non è per voi. Esso ama un'altra rosa, una rosa che non appassisce mai, una rosa fulgida di bellezza, eterna: ama, la Mistica rosa dei Cieli, Maria.
Francesco Portolesi
LA SCINTILLA GIORNALE DELLA DOMENICA ANNO IV – N. 21  MATERA 24 MAGGIO 1903

NOTA. Don Ciccio Portolesi quando scrisse questo poetico, strappalacrime alla Raffaello Matarazzo, roseo testo era, come dice lui, un giovane levita. Durò qualche anno questa sua vocazione, unita a quella di poetare talvolta, prima di buttarsi anima e corpo negli affari pubblici e privati di Platì quindi essere ricordato come u segretariu Portolesi. In quegli anni levitici il nostro aveva pubblicato sempre su LA SCINTILLA lunghi articoli spesso di critica letteraria – Bricche di critica erano appellate - di opere edificanti come Le vittime il 3 maggio 1903, Rivali il 14 febbraio 1904 e Attraverso il prisma il 17 luglio 1904.
La seconda foto ritrae due gentlemen australianplatioti, Giuseppino Portolesi, son of don Ciccio, e Joe Ielasi, ora star di questo blog, alla vostra destra   

lunedì 6 maggio 2019

Io sono Serafina [di Peter Godfrey, 1948]




L’anno milleottocentosettanta sette, addì ventiquattro di Settembre a ore pomeridiane cinque e minuti quarantotto, nella Casa Comunale.
Avanti a me Rosario Fera Segretario delegato con atto del Sindaco del venti Gennaio ultimo debitamente approvato.
Uffiziale dello Stato Civile del Comune di Platì è comparsa Maria Treccasi, di anni cinquanta levatrice domiciliata in Platì, la quale mi ha dichiarato che alle ore antimeridiane sette e minuti cinquantadue, del di ventitre del corrente mese nella casa posta nella Via San Nicola, al numero ventitre, da Rosa Fera possidente moglie di Gliozzi Francesco, industriante, ambedue domiciliati in Platì è nato un bambino di sesso femminino che ella mi presenta, e a cui dà il nome di Serafina.
A quanto sopra e a questo atto sono stati presenti quali testimoni Giosofatto Virgara di anni quaranta  sarto, e Ferdinando Miceli, di anni trenta, sarto, entrambi residenti in questo Comune.
La dichiarante ha denunziato la nascita suddetta per avere nella sua indicata qualità di levatrice praticato i sussidi dell’arte sua nello atto del parto, e in luogo del marito della Fera, il quale non ha potuto denunciarla perché lontano di casa. Letto il presente atto a tutti gli intervenuti, viene sottoscritto da me, essendo gli altri analfabeti.
L’Uffiziale dello Stato Civile
Rosario Fera



Quello che vedete e leggete è l’originale atto di nascita della zia Serafina cui si è accennato nel precedente post. La zia nella memoria di tutti i pronipoti che arrivarono a conoscerla è rimasta sempre come la vedete nella foto (con Saro). Nata Gliozzi andò in sposa a Filippo Antonio Zappia, 15 settembre 1885, e fino alla prematura morte di esso abitarono nella casa in via XXIV maggio. Successivamente ella si prese cura del fratello Ernesto nelle varie sedi parrocchiali cui veniva designato, fino a quella definitiva di Casignana. La zia morì nel 1963, raggiunti gli ottantasei anni, nella casa che l’aveva vista nascere. In questo passaggio fu assistita dalla cognata Bettina e dai nipoti rimasti in paese: Ciccillo, Rosina, Cata, Ernesto, Peppe e in modo speciale da Amalia. La casa in via XXIV maggio dopo un breve periodo in cui l’abitarono il fratello della zia, nonno Luigi, fu acquistata dal nonno Rosario (Mittiga). Dall'atto potete notare anche la presenza di un altro ceppo storico platiese: Fera.