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mercoledì 20 maggio 2015

La città dolente



Ricordo una notte di settembre del 1908, una domenica notte fragrante di odori rosmarino, di cisto e di finocchio che calavano in aromatiche ondate dalle alture disseccate dal sole -una notte stellata, calma e tranquilla. Messina non mi era mai parsa così bella. Arrivandoci di giorno e da altre città più grandi e più animate, si è portati a notare soltanto i suoi difetti. Ma la notte meridionale possiede un tocco magico. Nasconde tutte le cose brutte, oppure le trasforma in oggetti di mistica bellezza; mentre le opere più nobili dell'uomo-quelle facciate, quei cornicioni, quei panciuti balconi in ferro battuto-diventano eteree come palazzi di fate. E venendo, come venivo io, dall'impervia Calabria, la città con le sue larghe vie ben tenute, i suoi caffè illuminati e la sua folla di cittadini contegnosi nella passeggiata serale, prendeva l’aspetto di una metropoli.
Con voluta lentezza, ritardando con molto sentimento, mi diressi verso il ristorante che mi era familiare. Finalmente! Finalmente, dopo un'interminabile dieta a base di pane duro, di cipolle e di formaggio di capra, stavo per assaporare il complicato menu che studiavo da settimane, vagliandone con cura i pro e i contro tanto complicato, in effetti, che ho dimenticato da tempo i suoi particolari. Ricordo soltanto il pesce-spada, una specialità locale e (per finire in bellezza) la cassata alla siciliana, una sinfonia glaciale, un gelato multicolore di sapori deliziosamente fusi, che ci vuole assai più tempo a descrivere che a divorare. Sotto l'effetto di questi cibi sibaritici, innaffiati da una vecchia bottiglia di vino calabro (troppo forte è il vino siciliano per me, troppo deciso e senza compromessi: preferisco perdere le mie facoltà mentali poco per volta, come un gentiluomo), il mio fisico esausto rifiorì come per incanto: diventai amabile e socievole. Dopo tutto, conclusi, il destino del viaggiatore non è dei peggiori. Quanto a Messina ...Messina era indubbiamente una città piacevole. Ma perché i negozi chiudevano tanto presto, la sera?
«Questi Siciliani devono sempre giocare a qualcosa» mi spiegò il cameriere napoletano, una mia vecchia conoscenza. «In questo periodo giocano agl'inglesi. Sono  ossessionati dall'idea della chiusura domenicale. Ma di solito i loro attacchi non durano più di quindici giorni.››
Giocano agl'inglesi!
Ora, quelli che sono rimasti hanno inventato un nuovo gioco: vivono ammassati in case di bambola e temo che la situazione non cambierà molto presto.
Norman Douglas, Old Calabria

lunedì 18 maggio 2015

Ricorda il mio nome

-Ielasi Domenico(13.6.1935/32-58)di Domenico carzivirdi e Catanzariti  Caterina di Domenico gajìna.
-Marando Giuseppe saverio(29.6.1935/33-60)di Rosario testelignu e Sergi Caterina di Saverio.
-Zappia Bruno(1.7.1935/34-63)di Giuseppe cirejotu e Zappia Immac.di Pasq.
-Violi Caterina(14.7.1935/35-68)di Antonio riggineju e Ielasi Fr.sca di Dom.
-Catanzariti Maria(1.8.1935/36-71)di Franc .mussubeju e Carbone Marianna di Rocco surdineju.
-Calabria Anna(28.3.1935/23-30)di Franc.tizzuni e Ciampa Fr.sca di Gius.
-Pangallo Domenico(21.4.1935/24-35)di Pasquale batazzinu e Sergi Elis.di A
-Catanzariti Francesco(21.4.1935/25-38)di Gius. grugna e Carbone Maria di Francesco..
-Bartone Marianna(2.5.1935/26-40)di Antonio brigante e Pangallo Filom.di Fr
-Carbone Francesco(26.5.1935/28-47)di Franc. prunarisi e Demarco Caterina di Francesco catojino.
-Carbone Michele(26.5.1935/29-48)di Dom. tridicinu e Grillo Maria di Michele.
-Perre Saverio(26.5.1935/29-50) di Gius. pascalici e Barbaro Anna di Dom.
-Agresta Domenico(19.5.1935/30-51)di Saverio ddommìcu e Perre Elisabetta
-Barbaro Domenico(15.5.1935/30-52)di Dom.zumpanu e Catanz.Cater.di D.
-Sergi Domenica(6.6.1935/31-54)di Franc. birrozzu e Sergi Caterina di Paolo.
-Iermanò Francesco(9.6.1935/31-55)di Antonio pitera e Taliano Ant.a di Gius.
-Iermanò Antonio(9.6.1935/31-56)di Giuseppe pitera e Zappia Maria di Gius.

-Pangallo Rosario(9.6.1935/32-57)di Franc.batazzinu e Portolesi Gius.a di R.

domenica 17 maggio 2015

martedì 12 maggio 2015

Il prezzo del potere (reg. Tonino Valerii - 1969)

Mons. Giosofatto Mittiga
1876 - 1951
ritratto di Luigi Musitano

Quanto si poteva raccogliere dei rapporti tra Platì e Polsi oggi ha termine con il personaggio che più di tutti ha fatto parlare di sé: Monsignor Giosofatto Mittiga, il quale destinò le sue capacità e le sue conoscenze alla maggior gloria del santuario. Personaggio colluso col potere fascista ricorda un altro paesano per molti aspetti simile. Ambedue finirono scaricati dopo un sommario processo segreto.
Si ricorre al capitolo I vescovi di Locri-Gerace a Polsi a cura di Enzo D’Agostino apparso in S. Maria di Polsi – Storia e pietà popolare, Laruffa editore, 1990.
Monsignor Giosofatto Mittiga era nato a Platì il 16 marzo del 1876 da Domenico e Violi Maria.

Il Santuario, ora elevato ad abbazia,  mercé  la  solerzia  di  monsignor  Mittiga,  allora  non  era  che una chiesa alle dipendenze della diocesi di Gerace,  retta  da  un  priore  e  servita,  per  le  questue,  da  un corpo ristretto di frati secolari, non dipendenti da alcun ordine,  che  giravano  la  provincia,  come  fanno tuttora, cavalcando i loro bei muli gagliardi, e raccogliendo le offerte dei fedeli.
Francesco Perri, Emigranti

Giosofatto Míttiga, giovane sacerdote di Platì , arrivò a Polsi il 3 ottobre 1905 con l'incarico di economo curato, ottenuto dall'amministratore apostolico fr. Sisto Paoleschi; il 10 aprile 1906 divenne titolare della parrocchia e superiore del santuario; il 15 settembre 1908 ottenne di portare al cappello un laccio nero dorato; il 4 maggio 1910 ottenne per sé e per i superiori suoi successori il titolo di prelato domestico di S. S..: un crescendo di cariche e di riconoscimenti che certamente alimentarono smodatamente le già presenti inclinazioni ai fasti ed agli onori del Nostro. Il quale, vedendosi così considerato, immaginò di poter fare di Polsi la sede idonea a realizzare i propri sogni di indipendenza ed a praticare un potere effettivamente monocratico. Polsi divenne una specie di cantiere onnicomprensivo e continuamente aperto: furono restaurate o ricostruite parecchie abitazioni; fu innalzato il terzo piano del convento; fu installato il telegrafo; fu realizzato il monumentale calvario e fu posta in sito l'artistica balaustra dell'altare maggiore (opere di V. ]erace): il tutto contraendo molti debiti, ma sotto gli occhi entusiasti e compiaciuti di pellegrini e pellegrinaggi sempre più frequenti e numerosi .
Dagli inizi del 1907 la diocesi di Gerace era retta da mons. Giorgio Delrio …
Nei confronti del Mittiga, mons. Delrio fu all'inizio prodigo di incoraggiamenti e di riconoscimenti; poi, quando si accorse che la situazione debitoria stava diventando estremamente grave, intervenne con energia e durezza; infine, reagendo alle ambizioni del superiore, tentò con tutti i mezzi di liberarsene.
L'anno cruciale fu il 1913, nel quale, il vescovo, prese le distanze dalle iniziative del Mittiga, e ridottine drasticamente i poteri, avocò decisamente a sé l'effettiva direzione del santuario e riuscì quanto meno a bloccare, sia pur temporaneamente, l'incremento dei debiti .
Il Mittiga, però, non rinunziò ai propri progetti e tentò in tutti i modi e con diversi mezzi di creare le condizioni per raggiungere l'agognata indipendenza. Di ciò è segno la petulante richiesta di poter abitare a Polsi nel palazzo vescovile “, ma sono segno più evidente i tentativi operati scopertamente per " inventare" una qualche autorità che fosse superiore al vescovo e che dal vescovo non potesse in alcun modo essere contestata.
Non può essere letta che in tale chiave l'operazione "cardinale protettore", pensata e felicemente condotta a termine dal Mittiga con la nomina pontificia, appunto a protettore del santuario, del cardinale Filippo Giustini, ottenuta il 20 dicembre 1916. Da tale situazione il Mittiga trasse l'aìre per riprendere le sue progettazioni fantastiche.
La nomina del cardinale, obtorto collo salutata dal vescovo Delrio con una notevolissima lettera pastorale , consentì al Mittiga di organizzare grandi festeggiamenti per la venuta a Polsi del protettore. L'evento si svolse il 2 settembre 1919 e ce lo ricorda l'epigrafe posta l'anno dopo sulla facciata del convento  ivi il vescovo Delrio è del tutto ignorato, non essendo citato nello scritto e mancando il medaglione con la sua effigie accanto a quelli di Benedetto XV, di Filippo Giustini e di Giosofatto Mittiga. Non basta. Sempre più deciso a svincolarsi da qualsiasi tutela vescovile, il Mittiga, favorito da ambienti romani interessati, andò precisando un nuovo progetto, con il quale si proponeva di restituire "al santuario l'antico titolo di
Abbazia e quello di Abate al Superiore del tempo, con tutti quegli onori e privilegi degli antichi abati, onori e privilegi che corrispondono a quelli degli Abbati o Prelati Nullius, escludendo ben inteso ogni idea di giurisdizione, la quale dovrebbe rimanere sempre al vescovo di Gerace, come lo è attualmente .
Il progetto andò in porto (8.4.192O) , senza che vi si potesse opporre il vescovo Delrio, il quale, anche se mancano documenti precisi, sembra improbabile che potesse condividerlo .
Appena qualche mese dopo, il 16 novembre 1920, mons. Delrio fu promosso arcivescovo e trasferito ad Oristano.
Il titolo di Abate nullius consentì al Mittiga un nuovo periodo di gloria. Nello stesso 1920, "sontuosamente vestito da vescovo”, partì per l'America e ne ritornò dopo due anni con i ricchi proventi della sottoscrizione ivi operata tra i tanti immigrati italiani. Nuovi privilegi (quello di celebrare in trono con baldacchino e pastorale) ottenne dal protettore cardinale Michele Lega († 15.12.1935), che era succeduto al cardinale Giustini, e dal pontefice Benedetto XV un chirografo attestante stima.
Nel frattempo, però, egli, impenitentemente, non aveva smesso le iniziative fantasiose e dispendiose, oltreché malviste e denigrate per le umane debolezze di tutti i tempi nei confronti di chi comunque operi. Il Mittiga aveva tentato un passo lungo. Forse era stato mal consigliato, ma è probabile che fosse stato anche strumentalizzato. Le sue intenzioni erano probabilmente oneste, le sue azioni non limpide e comunque non condivise, anzi in contrasto con le intenzioni e le direttive dell'autorità vescovile.
Chiamato ancora una volta a rispondere del suo operato 91, il Mittiga non riuscì più a convincere alcuno della bontà delle sue iniziative. Pu così che il 10 novembre del 1927 fu privato del titolo di abate, ed il 26 ottobre 1928 fu costretto a dimettersi da arciprete. Da quel momento, con Polsi ebbe rapporti soltanto per qualche debito da pagare. Morirà poverissimo (è questo è segno della sua intima onestà) nel 1951.


Di seguito il filmato dell’inaugurazione del Sanatorio ” Vittorio Emanuele II “ai Piani di Zervò. Alla cui edificazione contribuì in vario modo Mons. Giosofatto Mittiga



lunedì 11 maggio 2015

Terra di conquista (reg.William C. McGann - 1942)


Alla presenza di noi qui sottoscritti Donna Carolina Mittiga, suo figlio D. Ferdinando, e sua figlia Donna Mariantonia Gliozzi hanno dichiarato, che col consenso del loro Padre D. Francesco Gliozzi marito della prima si hanno ricevuto dal Sacerdote D. Filippo Gliozzi, la somma di docati trentasette per loro vestimenti, e sovvenimenti, quale somma loro fu data perché gli dessero il possesso, come glielo hanno dato, di altrettanta valuta consistente in quattro piedi di olivi della valuta di docati quindeci, e docati ventidue di terra boscosa, che in una formano docati trentasette, come sopra. Gl’olivi e la terra boscosa suddetta limitano da una parte col suddetto Sacerdote D. Filippo Gliozzi, e dall’altra con gli stessi dichiaranti. Il sentiero della parte di sotto, dove sono i quattro piedi di olivo, che attaccano colla terra boscosa, quanto prima verrà formato da una maceria, che principia dal primo piede di olivo dei quattro suddetti e termina nella maceria di divisione della terra così detta Colacchiata colla rasola della vigna d loro pertinenza. Di questi due punti di maceria poi in linea dritta per sopra sino alle pietre volte vicino il lacco del rimanente della terra boscosa nella contrada Petto, ossia Boschetto, formano i quattro lati dei sentieri divisori di detta estensione, che cedono a cono dei docati cinquantadue, che avea il dritto D. Francesco Fera, e li ha ceduti a D. Filippo Gliozzi suddetto e che ancora non aveano ceduto, perché il compratore Sig.r Gliozzi non avea dato loro il complimento, giusta la loro convenzione, di docati cinquanta, riserbandosi di dare l’altro possesso quando verrà aggiustata la somma di docati cinquanta. I due ultimi si obbligano ancora solidalmente all’evizione. Ed alla cautela, ecc.
Platì li 4. Aprile. 1861
Diacono Saverio Mittiga ho scritto e sono testimone
Ferdinando Gliozzi

domenica 10 maggio 2015

La leggenda del santo bevitore (reg. Ermanno Olmi - 1988)

Da oggi pongo alla vostra attenzione una raccolta di poesie dovute a  Giacomo Tassone Oliva solo di recente ritornate alla luce. Vengono da una trascrizione a macchina, Olivetti Lettera 22, dovute allo zio Pepé; una, su carta velina, illeggibile, ebbe pure la bontà, per noi, di riportarla anche con la sua bellissima calligrafia. Eccovi la prima.


P A S C O L I A N A

          Se arde il sole oppur fiocca la neve
MASTRO MICHELE BEVE ... BEVE ... BEVE ... !!!
Giacomo Tassone Oliva

In tutto tredici voci, nove puntini e tre punti esclamativi. E, il piccolo mondo antico platiota si erge davanti ai nostri occhi. C’è solo da chiedersi chi fosse Mastro Michele, ora nella leggenda!

mercoledì 6 maggio 2015

All'ombra della montagna - redux

Anche lo zio Ciccillo fu a Polsi, nel 1950, aiutante di monsignor Antonino Pelle di Antonimina. Allora il viaggio, a piedi, da Platì avveniva risalendo la montagna alle sue spalle, prendendo per Misafumera si arrivava ai Piani di Zervò e così al Sanatorio. Quindi imboccando u passu da cerasara si scendeva a Polsi.

19 Aprile 1950
Carissimo papà
Lunedì scorso vi ho fatto spedire un telegramma per farvi sapere che ho fatto un buon viaggio. Domenica sono arrivato qui alle quattro e un quarto. Il viaggio è stato ottimo, solo un pò prima del sanatorio c'è stata una leggera pioggia e per conseguenza mi son riparato' presso il guardiano del Sanatorio. Per circa mezzora, poi ,scomparsa la nebbia e cessata la pioggia, mi sono messo di nuovo in cammino. E' inutile dirvi che sono stato accolto bene da tutti e specialmente dal Superiore. Ho a mia disposizione una bella stanza, letto con rete metallica e due materassi di lana ecc. La luce elettrica funziona bene e nella mia stanza ci sono due lampadine da 50 candele l'una. Vedete dunque che sfarzo di luce. Il mangiare è ottimo. Tutti già incominciano a volermi bene
Domani il Superiore partirà per Roma e io gli darò una lettera per Fina, che lui andrà a vedere. Al suo ritorno io verrò a casa per alcuni giorni. Non mi resta che inviarvi i più cari abbracci e baci per tutti in famiglia, comprese Rosina e Cata coi bambini e lo zio Michele, che spero sia già guarito. Saluti agli altri parenti tutti. A voi e alla mamma bacio pure la mano, chiedendovi di benedirmi

Aff.mo
Ciccillo
P.S. Scrivetemi e ditemi come state.




 (A Polsi)Vi erano i rappresentanti di quasi tutta la provincia: i Sanluchesi vestiti di orbace, agili e aitanti, coi panciotti di panno turchino e i bottoni azzurri di acciaio, i riccioli sulla fronte, le cicatrici delle pustole in mezzo alla guancia; vi erano i pastori selvaggi di Solano, coi berretti di lana muniti di un fiocco, e le zampitte allacciate con corregge sottili intorno alla gamba, come i sandali nelle antiche statue; le donne di Bagnara con le tradizionali sette sottane a piccole pieghe, strette intorno ai fianchi, e aperte a campana in fondo. Portavano i capelli spartiti sulla fronte, le trecce a corona, le camicette di colori vivaci; i loro occhi color nocciola lampeggiavano come lame. Si diceva portassero  iraisoi nei capelli, e maneggiassero il coltello più arditamente degli uomini; E poi i mulattieri di Platì, i pastori di Natile sudici, alti, dalla parlata strascicante; i Benestaresí con accanto le loro donne dai busti fortemente colorati; le popolazioni della marina, vestite di chiaro, e col volto di un bronzeo partico1are; le Cardítane che avevano fama di essere le più

Francesco Perri, Emigranti, Garzanti, edizione del 1941 XIX

lunedì 4 maggio 2015

La città dolente (reg. Mario Bonnard - 1949)

Da oggi, e per qualche tempo, do inizio alla trascrizione di Caos, capitolo contenuto in Old Calabria di Norman Douglas, ricordo che l’edizione è quella di Aldo Martello. Tema è la città dove vivo parte del mio tempo: Messina, vista com’era prima e dopo il terremoto del 28 dicembre 1908. E’ un capitolo allo stesso tempo elegiaco e doloroso. Nessuno, come Norman Douglas, ha saputo cogliere il senso e il luogo di questa città, ricostruita più volte, che occupa un sito che solo avendo il senso della mitologia si può sottrarre. 



O gioventù d'ltalia in alto i cuori

Cantante Domino Canticum novumm  

Potessero ritornare in vita le povere 
vittime del terremoto del 28 dicembre  1908,
per opporre questo cantico di Dio 
alle canzoni di Satana pubblicate nel 
giornale “ il Telefono ,, e diffuse per le 
vie e le case di Messina alla vigilia del- 
l' immane distruzione !... 

-          Voto e ricordo.  
-
Quaresima del 1914.

 CAN. TEOL. V. RASCHELLA’ 


CAOS
Non ho mai avuto occasione di ammirare la magica  Fata Morgana dello Stretto di Messina quando, in determinate condizioni atmosferiche, palazzi fantasmagorici di meravigliose forme appaiono sulle acque -  non riflessi, ma come sorti dal mare; quasi tangibili,  eppur diafani come un velo. 
Un monaco domenicano di nome Minasi, corrispondente dell'Accademia di Napoli e amico di Sir  W. Hamilton, scrisse una dissertazione su questa beffa  atmosferica. Molti l'hanno vista e descritta: fra questi,  Pilati de Tassulo. Nicola Leoni riferisce il resoconto di  un testimone oculare del 1643; e troviamo un altro  resoconto nel libro di A. Fortis, Mineralogische Reisen,  1788. L'apparizione è timida. Tuttavia, alcune immagini del fenomeno appaiono in un articolo del Dr. Vittorio Boccara in «La Lettura», nel quale l'autore accenna anche a un trattato scientifico scritto da lui  stesso sull'argomento; e anche nel volumetto Da  Reggio a Metaponto di Lupi-Crisafi, stampato a Gerace  alcuni anni fa. Cito questi scrittori per coloro che,  più fortunati di me, potranno assistere al fantastico  spettacolo e interessarsi delle sue origini e della sua  stona. 
Le cronache di Messina registrano le sovrumane  imprese del tuffatore Colapesce. Gli oscuri paesaggi  sottomarini dello stretto, con le loro grotte e le loro  foreste, non avevano segreti per lui: i suoi occhi conoscevano i misteri marini quanto quelli di un pesce.  Alcuni ritengono che la leggenda risalga a Federico II,  al quale Colapesce riportò quella coppa d'oro che venne poi immortalata nella ballata di Schiller, Der Taucher. Ma Schneegans asserisce di aver trovato documenti normanni che parlano di lui. C’è poi l'altra leggenda, secondo la quale Colapesce, novello Glauco,  avrebbe esplorato il mare alla ricerca della fanciulla  amata, inghiottita dalle onde.
 Fra le numerose favole che si raccontano sul suo  conto, ecco la più portentosa: un giorno, durante uno  dei suoi vagabondaggi sottomarini, Colapesce scoprì  le fondamenta di Messina. Erano pericolanti! La città  posava su tre colonne, la prima delle quali era intatta,  la seconda completamente crollata e la terza parzialmente corrosa. Spuntando dalle azzurre profondità,  avvertì allora con un distico i cittadini della minaccia  che incombeva su di loro. In questi profetici versi  attribuiti al favoloso Colapesce riecheggia un”apprensione generale, anche troppo giustificata.  Anche F. Münter, uno dei viaggiatori che esplorarono la zona dopo il terremoto del 1783, espresse i  suoi timori che Messina non avesse ancora sofferto  tutto quello che il Destino le riservava.        
Norman Doulglas, Old Calabria






domenica 3 maggio 2015

All'ombra della montagna (reg. Alois Johannes Lippl - 1940)


Nell’estate del 1847 lo scrittore inglese Edward Lear compì un lungo viaggio a piedi in Calabria e Basilicata. Il tour ebbe inizio da Reggio. L’8 e il 9 di agosto soggiornò a Polsi e qui ebbe modo di incontrare e conversare con il superiore di allora, Domenico Fera di Platì, già avanti negli anni. Questa la sua narrazione ed la sua picture.



August 8. The noontide hours were employed in sketching in the cloisters, and in
examining the relics and treasures of the church under the auspices of the Padre
Superiore. The subjects which weigh most heavily on his mind are " Quel tunnel," * and
"Quei Preti maritati ! Vescovi sposati ! o cielo ! Una moglie di arcivescovo ; O che
stravaganza ! The afternoon we passed in strolling about the fine scenes around this
hermit-home ; but, though containing endless material for foreground study, its general
picturesque character is limited, and we decide on leaving S. ta Maria di Polsi
tomorrow. We must retrace our steps as far as San Luca, and then make for Gerace,
sleeping either at Bovalino or Ardore, as time may allow.

August 9. The worthy Superior presented us with a medal and a print of the Madonna
di Polsi, the original picture having been discovered by a devout ox, who inveigled one
of the early Norman Conquerors of Sicily all the way from Reggio to this place, for the
particular purpose of inducing him to build a monastery. The excellent ox, said the
monk, led on the prince from hill to hill till he reached the proper spot, when,
kneeling down, he with his pious horns poked up the portrait of the Virgin Mary, which
was miraculously waiting some inches below the ground for its bovine liberator.
 Edward Lear,Journals of a Landscape Painter in Southern Calabria, 1847

Nel precedente post si è accennato ai superiori che Platì offrì a Polsi. L’elenco era incompleto mancando dei nomi di Enrico Macrì (dal 1874 al 1879)e Antonio Macrì (dal 1879 al 1903)ambedue originari della frazione Cirella. Il canonico Francesco Pangallo fu invece vice superiore di Giosofatto Mittiga dal 1927 al 1929 quando fu elevato superiore, titolo che tenne fino  all’1 dicembre 1939 quando sopraggiunse la sua morte. Questi era nato a Plati il 24 dicembre del 1876 da Giuseppe Pangallo e Portulesi Maria. Qui sotto il suo ritratto (per gentile dispensa di Francesco di Raimondo)


lunedì 27 aprile 2015

Il piccolo conte (reg.Carl Lamac - 1935)



                                                                                     Pax
Passan le glorie come
fiamme di cimiteri
Come scenari vecchi
crollano regni e imperi
                        (Carducci)

Eterna vive solo l’Idea che c’innamora
                                               (Victor Hugo)

Signori,
Vi è un occhio spalancato nell’infinito che ci guarda - Iddio!-  Vi è una voce nel mondo che parla .. e questa voce non conosce le mistiche flessuosità della Sibilla, questa voce collettiva è la voce del popolo.
Giudice inesorabile, esso è terribile nei suoi verdetti, come è solenne nelle sue assoluzioni – questo giudice, il popolo, comparisce, delle volte, intorno a le bare, non chiamato, non contattato – da solo – comparisce e pronunzia delle sentenze …
Da qui la pia credenza che la voce del popolo sia la voce di Dio – ed io ci credo.
XXX
Il conte Filippetto Oliva era un buono! – Una delle qualità che il popolo apprezza –
Era buono di quella bontà – forse esagerata – ma che non conosceva infingimenti.
Incapace del male, inclinevole al bene, molti sono i beneficiati, nessuno l’offeso.
E se oggi volessi lanciarvi la sfida, che Gesù Cristo, un giorno lanciava ai Farisei – Se volessi dirvi in altri termini: “ Chi ha ricevuto un torto da Filippo Oliva, si appressi e lanci la prima pietra “- Io son sicuro che, non per la pietà de le tombe, ma per un sentimento di giustizia e di onestà, nessuno si appresserebbe!
Non è vero?
XXX
Io, del resto, non intendo perorare una causa già vinta e tu, o popolo, parlasti con la tua rimostranza stamane.
Ne intendo raccogliere le lacrime di una vedova e di quattro orfani per intenerire il vostro cuore e vincere così il terno della celebrità – Giammai!
Vengo per sciogliere un voto di dovere, di riconoscenza e mi spiego, subito, in due parole.
Ero bambino, frequentavo le classi elementari e studiavo un poco. Il Contino – così lo chiamavano allora – non so più per quale ufficio – vigilava le scuole. Ebbene, fu proprio in quei due anni che io acquistai un certo amore allo studio e stava per risentirsi il mio organismo. La spinta, l’incoraggiamento e i premii, tutto mi veniva da lui e gli sono stato riconoscente in vita, riconoscente in morte, Fo bene?
XXX
Altro da lui non ho preteso.
Ne crediate che questa specie di “ mecenatismo “, l’abbia esercitato con me solo. Se fossero qui tutti i miei compagni d’allora vi ripeterebbero le stesse parole mie, Filippo Zappia di Carlo e Pasquale Miceli già morti, furono più amati e incoraggiati, perché più buoni – assai più buoni di me!
E sempre col sorriso sulle labbra, con la bontà nel cuore, mi prodigava i consigli più saggi, mi spianava la via del dovere, de l’onestà, del vero galantomismo, di quel galantomismo che non si trincera dietro l’interesse o l’inganno, ma che forma l’Ideale degli uomini veramente buoni.
Quest’Ideale accompagnò sempre Filippetto Oliva nelle più orribili convulsioni finanziarie che minacciarono la sua casa … finché una donna forte non strinse con le sue braccia di ferro tutto l’edifizio della sua fortuna e la risparmiò per i figli.
Visse quell’Ideale di bontà soprastante rovine, ma si riconcentrò, come i raggi diffusi di una stella, ad illuminare e riscaldare una famiglia – Fu un male? – Chissà!  “ Nessuno – dice Victor Hugo – ha il diritto di spegnere il sole per illuminare se stesso o il covo dei propri amori “ – E basta.
XXX
Il mio Amico, dunque, è morto; non è morta la riconoscenza in me, la riconoscenza in voi. Siete venuti ad accompagnarlo alla tomba. E’ giusto! Ma egli è passato dalla grande ombra alla grande luce, dalla terra al cielo, dalla materia a Dio; è morto come è vissuto: calmo, sereno e buono! – Che rimane? Un dolore atroce nella famiglia, una tomba ed una croce nel camposanto. E il resto? Oh, il resto non ha bisogno di noi, dei nostri cari ricordi, dei nostri amari rimpianti! Forse, e senza forse, egli ci vede, ci ascolta ed è presente.
Come dalla crisalide nasce la farfalla, così, da questo corpo, messo in dissoluzione si è sprigionata un’anima.
E’ l’ultima fase della vita, anzi è il principio de la vita stessa e le parole – solenni come un monito – che il Mio Maestro ripeteva su la tomba di Lazaro risuonano perfettamente così:
“ Chi crede in me, anche se morto, vive! “
Filippetto Oliva credeva; ebbe il Pane de la Vita, ieri, - il Viatico – ebbe il Battesimo di questa nuova vita, e fu segnato con l’olio, simbolo de l’immortalità. Iddio, con le sue grandi ali, proiettò un’ombra su quel corpo ed una luce sull’anima.
XXX
Addio, amico buono, mite e generoso! Addio Filippetto Oliva, addio per sempre.
Verrò sulla tua tomba a pregare ed attingere forza. Ne le traversie de la vita, ne l’afosità d’un ambiente saturo di fumo e di polvere, è bello riposarsi, “ a l’ombra dei cipressi e accanto a l’urne “ pregando pace
Addio!
Platì 22 Giugno 1913
Sac. Ernesto Gliozzi sen.