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giovedì 2 ottobre 2014

Il crepuscolo degli eroi (reg. John Huston e Fadil Hadzic - 1963)




Segue la lista degli eroi! …
Oggi è il nome glorioso di
Mittiga   Domenico
Onore a lui.

Non lacrime – fiori spargete a piene mani, o ragazzi. Non si tratta di piangere sulla tomba degli eroi, di per se stessa illustre. Attorno ad essa, i piccoli mortali s’affollano per ammirare, giudicare e apprendere. Voi non pensate che tutto è morto colui che da noi si commemora. La parte migliore dei trapassati rimane e quando una mesta cerimonia chiama i superstiti alla commemorazione dell’estinto, allora una tenera corrispondenza d’amorosi sensi corre invisibile tra la terra e il cielo: è la religione dei sepolcri; è l’umanità che guarda, mestamente, i nuovi orizzonti s’oltre tomba e modella, guida e corregge il cammino della vita sugli ammonimenti e le voci che vengono di sotterrra. Ascoltate Una voce viene anche da questo tumulo; una voce che è il coro di mille voci, come quelli che cantano, di monte in monte, il peana calmo e sereno della vittoria; voci di corpi lacerati, d’anime gagliarde = è la voce tonante della riscossa che si ripercuote quaggiù, dalle Alpi invano contrastate e dal mare per la terra. Dice la voce: Morimmo, per un ideale di carità cristiana; per quell’ideale proclamato dal Nazareno quando diceva “ Non vi ha carità maggiore di colui che pone la vita per i propri fratelli “. Morimmo, per dare col nostro sangue il movimento alla ruota del progresso. In obbedienza alle sante leggi della Patria, morimmo.
Intendete l’orecchio a questa voce! È la religione e la patria che si fanno sentire. L’una libera i corpi dalla schiavitù, l’altra le anime dal peccato; l’una raccoglie il sangue dei figli, l’altra le lacrime delle madri;  l’una pianta sui tumuli una croce, l’altra avvolge tumoli e croce con la bandiera.
E sull’altare della patria, santificato dalla religione, si posa il martire, dal petto squarciato, i fedeli vi intrecciano ghirlande di rose; è un pellegrinaggio di fede e di patriottismo, perché la fede vi trova un campione, la patria un figlio: = Così, certo, l’intendevano i nostri maggiori dell’impero che salivano il Campidoglio per offrire a Giove le ostie di pingui giovenchi; così l’intendevano i nostri maggiori dei comuni che appendevano alle mura dei tempii  le armature vittoriose; così l’intende la novissima gente italica che fa dei due amori un solo amore! Religione e Patria! – Da questi due sentimenti amalgamati insieme, da queste due corde della medesima lira traggo i concenti per cantare di te, piccolo soldatino d’Italia, che ti fermasti col nome nella storia e sopra i cuori di tutti.

Canto
Allor che ne l’Americhe
Corse una voce che le fibre scosse …
E gli italici petti si vestirono
D’entusiasmo di camicie rosse …
Ed atleti pugnanti sui nevosi
Picchi dell’Alpi – scintillanti al sole –
Protesero le braccia ed invocarono:
Italia! Italia!
Quando si vide, come mostruoso,
serpente che le spire disnodava
su per i monti e i valichi contesi:
l’esercito vestito in grigio verde
Allora appunto fu che tu vedesti
in ogni cosa il tricolor vessillo;
lasciasti a mezzo il tuo lavor, dicesti:
Italia, vengo.
E t’imbarcasti. Come trasvolanti
Grida di madri e di figliuoli oppressi
Ti portavano l’onde. Ed era l’eco
Non ascoltata, né vendicata mai
Del “ Lusitania “
Fiero lo sguardo rivolgesti indietro,
A quella terra di mercanti atroci
Poi, scarmigliata, nel dolor sublime,
Ecco la Madre!
La grande madre che di spighe ondeggia,
La grande madre, madre degli eroi;
Dove in eterna giovinezza regna
Natura ed arte.
Nel suo dolore t’immedesimasti
Grande dolore che le vene accende
Baciasti in fretta i cari tuoi. Volasti
Su le frontiere.
XXX
Quivi, non erano uomini! Angioli parevano
al guardo
Roteanti le spade – in una luce d’or
Avvolti ne la clamide – del patrio stendardo
Su cui fermavan l’occhio – su cui tremava il cor:
E li vedesti ascendere – su per i monti immani
Biancheggianti di neve – su cui si ferma il ciel
Cantavano il peana – lieti, con voci imani
Puntando sul bicipite – nero d’Asburgo angel.
XXX
Accorrete, accorrete!
O tutelari numi della Patria,
O sognanti da secoli
La riscossa!
O voi, cui l’amarissimo copre
custoditi da le sirti infide,
da le ambe selvagge,
Eroi d’Italia e di Roma,
d’oggi, di ieri, dei secoli.
Accorrete, accorrete!
Oggi l’Italia in armi
Per vendicarvi tutti,
Per liberarvi tutti …
O suoi figli, accorrete
Ed assistete all’impeto
di magnanimi eroi
Alla generazione
Di novissimi figli
Raccogliete quei fiori
Fiori di giovinezza
Germogliati nel sangue
Col sangue abbeverati …
Venite, accorrete!
Perché segue ancora l’epopea del sangue.

Signori
Ogni pietra dunque è un altare, ogni fiore è un simbolo di passione; ma dalle zolle vermiglie spuntano anche i fiori della vittoria. Domani quei fiori apporteranno i frutti. E coi fiori della memoria si abbelliscono le tombe. Con religiosa mano raccogliamo sul cammino della gloria i crisantemi pallidi, i narcisi recisi, i gerani, le viole del pensiero ed, alimentate dalle lacrime, servano, questi fiori, allo studio delle generazioni venture.
Così anche tu comparirai nella storia o Mittiga Domenico di Saverio, perché scrivesti col sangue la tua pagina ed il martirio della tua bella giovinezza brillerà negli occhi di coloro che ti conosceranno, come brilla, oggi, tra le lacrime, e nel pensiero  di coloro che mi ascoltano
Così apprenderete, o ragazzi, nelle scuole, la sua  vita:
Egli nacque nel 1889, al 21 Settembre, da Trimboli Assunta e Mittiga Saverio ed offrì alla grandezza della patria i suoi 27 anni il 14 Marzo di quest’anno di gloria.
Come la sua dedizione fu generosa, spontanea, pura, lo sappiamo noi che l’abbiamo visto ritornare dall’America, quando meno se l’aspettavano i suoi genitori. _ Emigrato, non per la cupidigia d’ingrandirsi, ma per quello spirito di libertà di cui ha tante attrattive quella terra, s’intese laggiù più italiano di prima, perché questo amore possente si manifesta e si fa sentire nell’impulso dell’anima che ti spinge, fra la folla sconosciuta, nelle braccia di un operaio sconosciuto di cui un solo accento lo ti manifesta della tua lingua. Intese la poesia della patria nelle dispute e nelle contese di quella folla multipla e policroma quando la nazionalità d’ognuno si difende unghibus et rosribus, l’intese nel garrire di cento bandiere al vento, quando il bel tricolore brillava e fremeva nell’aria come un occhio ed una voce conosciuta: voce per correggere, occhio per vigilare!
Ed un giorno questo segnacolo della patria chiamò i suoi figli a raccolta. Aveva nuovi fremiti quella voce, quell’occhio, vigilante, sulla folla, aveva lampi di sdegno. Si strinsero attorno a quella gli sparsi figli della patria. Ritornavano dalle officine stridenti, dagli arsi campi, dalle miniere insidiose, venivano i lavoratori delle pingue fazendas, i pastori delle pampas, a flotte, a gruppi, a soli, e si stringevano in silenzio le mani come un giuramento, come una promessa: Partire. Il Tricolore, in alto, brillava come l’Idea. Partire! Non si vedevano lassù, verso la vecchia Europa, bagliori come d’incendio? Non era verso quel punto, in quel punto medesimo, il loro paesello natio, la loro casetta bianca, il loro focolare domestico?
Allora più violento ed altero s’intese l’amor di patria, nella tempesta di fuoco si videro le fisionomie delle persone care e a quella vista, la decisione di Mittiga Domenico fu quella d’un figlio che vede la genitrice offesa e si slancia per difenderla con tutte le forze dell’anima. – Narra la storia tutta la grandezza di Cesare in tre parole “ Venne, vide, vinse “. Anche Mittiga Domenico potrebbe compendiare La sua epopea in questo  semplice messaggio, perché fulminea fu la sua venuta, la sua visione, la fine. – Arrivò, mentre la manifestazione di gloria, apparsa alla nostra giovinezza, era fermata lassù dove l’alpe scendeva verso il mare ed il leone di San Marco s’intisichiva sotto la minaccia dell’aquila d’Asburgo. La fortuna d’Italia volle che lassù si trovasse un Uomo degno del suo compito, un Re, ma non come l’Imperatore teatrale dei barbari, un Re latino, semplice, intrepido e buono, avente la stessa anima dei suoi soldati.
Accorse verso la gloria. Si slanciò nella pugna sicuro di vincere e di morire. Vinse. Lo dite voi con la vostra manifestazione di riconoscenza e di simpatia, che vi esalta; lo dicono i soldati che lo sanno e, domani, lo diranno anche le madri ai figli nati e cresciuti valorosi, “ perché un bel morire tutta la vita onora “.
Sebbene egli non avesse bisogno di lavare nel sangue le impurità della vita. Ma io sto per dire che Colui che agita le nazioni per l’assestamento finale – Iddio – come nei tempi passati, ama anche oggi nei sacrifizii le cose migliori. Sono i fiori che Egli raccoglie per inghirlandare le nazioni, saranno forse, e senza forse, gli angeli tutelari della patria ed i viventi, imbalsamando la loro memoria, faranno cosa degna di loro e di utile per le generazioni venture. Muoiono i piccoli, i deboli, i pusillanimi, gli eroi della patria vivono e il nostro Mittiga Domenico insieme a Saverio Campiti, Pietro Callipari, Rocco Grillo, Morabito Giuseppe, Catanzariti Domenico ed altri, passò in questa categoria di viventi a cui non giova il pianto a cui si deve soltanto l’onore.
Parlare del resto di queste cose ai genitori è vano lo so. Le parole più belle e confortanti riescono sempre troppo dure al cuore dei genitori e se noi parlassimo loro della Patria, dei suoi ideali, della sua grandezza e del suo diritto, oh! I genitori non sanno ascoltarci, essi sentono solo l’angoscia infinita dell’anima che ha distrutte le loro più belle e più grandi speranze. Ma poiché ci troviamo al cospetto di Colui che amò tanto la Patria sino a piangere di dolore per essa; poiché altro conforto non ci resta se non quello che ci viene dalla Religione; diciamolo pure francamente, a conforto della desolata famiglia, come egli buono, religioso, ubbidiente, ha fatto una morte, starei per dire invidiabile. Perché, alla fine, la morte non è così brutta per i buoni che ricevono il premio della virtù Oh! Tutt’altro. Ma la madre, mi direte voi, il padre, le sorelle …
Oh si, non sono tanto alto da non vedere l’umanità coi suoi dolori, coi suoi spasimi, con le sue angosce. Ma ci sono delle bende per i cuori sanguinanti; c’è dell’olio e del balsamo che si sparge su tante sciagure, ed è la carità del mio Maestro che vuole che tutti gli uomini siano fratelli e come tali si amino. Religione e Patria! Le ali che Dio ha dato all’anima per salire sino a Lui; le corde più armoniose dei nostri cuori, le leve che sospingono verso nuovi orizzonti il nato di fango, per cui si sente vicino agli angioli; assimilato a Dio!  Amori che non si possono separare, che completano l’uomo interiore e dove non c’è Religione non c’è Patria, perché la prima non si fonda che sull’amore del prossimo, e la seconda non è altro che questo prossimo che siamo tenuti ad amare. Porgiamo perciò il nostro conforto a questa famiglia desolata e se il tempo con le sue fredd’ali vi spazza fin le rovine, oh facciamo almeno che non si cancelli dalle nostre menti e dai nostri cuori il ricordo degli eroi, perché i figli si possano specchiare nelle virtù dei padri  e voi sapete che “ A egregie cose il forte animo accendono, L’urne dei forti “.
E più che un nobile entusiasmo quello che ci anima, dev’essere un sentimento di riconoscenza e d’amore. Mi spiego. Se domani, ad esempio, la vostra esistenza viene minacciata da un pericolo ed in quel momento accorre in vostro aiuto un parente, un vicino, un amico; non siete voi tenuti a ringraziarlo?
E se questo amico, parente, vicino, per liberare voi, la vostra casa, i vostri figli, abbia perduto perfino la vita, non sentite che le sole, azioni di grazie non bastano e che ci vuole amore, amore, amore per pagare tanto sacrificio? Ebbene! Mittiga Domenico è morto per voi, per me, per tutti!
Sacrificò la sua esistenza, perché le porte d’Italia fossero ben assicurate; perché i sonni che noi dormiamo fossero più sicuri, perché le vergini, le madri, le spose fossero ben rispettate. E che se noi pensassimo alle donne martirizzate del Belgio, ai ragazzi mutilati e abbandonati per le vie della Serbia, alle chiese pollute e i monasteri violati della Polonia … se noi pensassimo, dico, che solo per un miracolo di eroismo del nostro eroico esercito furono arrestate le onde dei barbari là in Val Sugana e Valle Lagarina in questi giorni, se tutto questo pensassimo, oh allora non potremmo far di meno di non benedire i martiri che col proprio sangue vinsero il nemico; benediremmo i superstiti, benediremmo tutti, e ci parrebbe di essere indegni, degeneri, ingrati, il giorno in cui li dimenticassimo per un solo momento.
Non sia così! Il concorso di tutti voi, nobili signori, graziose signore, e popolo tutto, questa manifestazione di stima, che vi esalta, mentre segue l’apoteosi di Mittiga Domenico, depone bene di voi, ond’io non trovo che il patriottismo e la religione sono affetti inseparabili e che voi, onorando i caduti della Patria, vi dimostrate dio essere un popolo altamente civile, religioso e onesto. Come tali, inchiniamoci dunque dinanzi a questo tumulo che è l’espressione del nostro entusiasmo e del nostro amore.
La patria è grande e la religione è santa. Mostriamoci degni della patria e onoriamo Dio. Nell’Ecclesiastico si leggono le lodi di coloro che concorsero col senno e con la mano a rendere forte, indipendente e libera la Patria. Il grande capitano della Giudea, mandò a Gerusalemme dodicimila dramme di argento per offrire doni e sacrifizii alle anime dei caduti, bene e religiosamente pensando. Ché, se la patria sulle ferite dei corpi, come il pietoso samaritano, sparge il vino dell’assistenza civile con cento e cento ospedali della Croce Rossa, la religione dal canto suo, spalanca le porte delle sue chiese e dinanzi ad una Croce rossa ancora del sangue d’un Dio, chiama a raccolta i suoi figli a pregare per le anime. E qui, nel tempio, intorno a questi monumenti solenni, è qui che si stringono i patti della solidarietà; è qui che si sente la maestà di Dio, la grandezza della patria. E siccome il dolore è il migliore cemento per amalgamare le anime, qui in questo ambiente saturo di pianto, promettiamo a Dio di essere uniti di mente e di cuore, di forze, di anime e di volontà, nel fine supremo della Vittoria d’Italia che è la vittoria della grandezza e della civiltà  umana.
Salvete o Morti!

///

Conforto ai  vivi, riposo ai morti
L’Italia implora, Gran Dio da te
Fa che Vittoria cantino i forti
Sacri alla Patria e alla fe

FINE
Sac. Ernesto Gliozzi il vecchio

mercoledì 1 ottobre 2014

Brand new day - Al Kooper






Gli artisti dell'Italia moderna sono i suoi burocrati che intuiscono ed elaborano le tasse; i suoi filosofi sono i contadini che le pagano.
Norman Douglas, Old Calabria, Aldo Martello editore



Le pesche sono del Moio e si vede.

lunedì 29 settembre 2014

Il principe folle (re. Harold Braun - 1957)


La morte del Principe
Odo lenti rintocchi,
morto è qualcun co’ fiocchi,
un agitarsi vario,
anzi straordinario
di sarti e calzolai ,
e di fabbri-ferrai,
e di candele e fiori
d’incensi, fumi e odori,
di falegnami chini
su cassa da becchini,
di priori e fratelli,
di chericotti belli,
di sacerdoti e croci,
di lacrime e di voci,
per funebri apparati
son tutti affaccendati.
Ecco ch'é preparata
la cassa sospirata:
aperta, vi si serra
un corpo, che la terra,
ove per sempre giace.
accoglie; e si dispiace
del puzzo che esso spira
che a vomitar ti tira,
dai pochi denti guasti
dal tempo, già rimasti;
da bianca testa e calva;
da grinze de la malva
del colorito cupo;
da le labbra di lupo;
da l'occhio che s'incava
ne l'orbita che scava;
dal padiglione acustico
od asinino e rustico;
dal pendolo evirato
da moto esagerato,
che sempre de la volpe
ricorda molte colpe.
La bara parte, un'onda
di gente la circonda;
l'olla di traditori,
di ladri e adulatori,
di adultere deluse
e vergini contuse,
di sordidi usurai,
del mondo eterni guai;
di prepotenti tristi,
di vili camorristi,
di bastardi parecchi,
di paraninfi vecchi,
di tutta la plebaglia
che ha nome di canaglia.
Ahi! non si vede il povero
che nel suo vil ricovero
va.. mentre vi si reca,
contro la salma impreca;
il giusto in casa fugge.
di gaudio si strugge;
la donna egregia, onesta.
come ne' dì di festa,
di nastri cinge il crine;
la popolana in trine
si para, pur s'adorna,
impreca e dice corna
al suono della squilla:
il ciel, l'aria brilla;
foresi e forosette
in su le collinette
cantando, in ogni loco.
fanno falò, va in foco
del misero massajo
qualsiasi pagliajo;
ruggir di gioia s'ode
la vampa, che pur gode;
gli uccelli pure inneggiano
di libertà gorgheggiano;
tripudio si arriso
nè anco è in paradiso;
mentre l'inno di morte
intuona la coorte
di preti rallegrati,
financo ai morti ingrati.
Durante il lutto un moto
di servi, non ignoto,
di serve e concubine,
dì cugini e cugine,
e d'altri in parentezza
si svolge con destrezza,
si svolge con la mani,
frugando in ogni vano
casse, cassette, scrigni,
stipi, tutti gli ordigni,
di giorno e pur di notte,
rubando fln ricotte.
Il lutto terminato,
va tutto suggellato;
e, fatto' l’inventario,
cosi cala il sipario.
Ad onorare l’ossa
si scrive in sulla fossa:
Qui senza lividure,
ma pieno di lordure;
di Dio e dei diavoli
non degno, sterco ai cavoli,
qui giace sua Eccellenza;
finì la penitenza!
 Vincenzo Papalia, op. cit.

domenica 28 settembre 2014

Bianco e nero (reg. Paolo Pietrangeli - 1975)


Bianco
(con una nota su Ferdinando Mittiga, partigiano
ed il testamento di Padre Bonaventuta da Casignana)
E’ una delle più cospicue e antiche terre della diocesi ed occupava il quinto posto nella gerarchia ecclesiastica.
Col terremoto del 1783 il paese rimase totalmente distrutto compresa la Chiesa parrocchiale e per sovrana disposizione il popolo passò a trapiantare la patria nell’amenissimo suolo di Pugliano dove in virtù del Reale Decreto 1788 vi trasferì l’Arcipretura e l’amministrazione comunale.
Per officiare provvisoriamente si eresse dalla pietà dei fedeli una capanna, mentre con una elargizione della Cassa Sacra si diede principio alla Chiesa Arcipretale. Già la costruzione era molto avanzata quando vennero meno i mezzi, e già si era ottenuto il mandato di altre somme  per il compimento di essa, ma per cavilli degli impiegati, le somme non furono pagate. Successero intanto le vicende calamitose dell’occupazione militare francese che portava spese enormi, continui alloggi e saccheggi, sicché la popolazione restò esaurita e immiserita per quattro anni. Ristabilita la pace il Decurionato ottenne 600 ducati dal Sovrano perché abolita la Cassa Sacra, e con quella somma si portò la chiesa a compimento. Vi era la parrocchia detta di Santa Marina che fu soppressa dal Vescovo Scoppa nel 1791 e la popolazione fu aggregata alla matrice.
In detta chiesa vi era il beneficio di San Giacomo, di patronato della famiglia Medici, fondato nel 1693, quello di S. Maria della Stella della stessa famiglia; quello della Concezione della famiglia Mediati, col peso di una messa settimanale; quello di S. Antonio di Padova della famiglia Saporito, con due messe settimanali; quello di S. Michele Arcangelo della famiglia Medici; quello di S. Francesco di Paola, della famiglia Staiti; quello di S. Giov. Battista, della famiglia Palizzi, con l’onere di 4 messe settimanali; quello di S. Giuseppe della famiglia Ceratti, poi Mesiti; quello di S. Caterina, che fu poi aggregato alla teologale di Gerace; quello di S. Giacomo e S. Nicola De Muscolis, fondato dai fratelli Abate Diego Muscolo, Medico Francesco Muscolo e Ignazio, dotato il 7 Maggio 1677. Inoltre quello di S. Domenico, dell’Annunziata e quello di S. Mercurio di patronato del Principe di Roccella e quello del Sacramento.
Vi erano pure i seguenti altari: Del S.S. Crocefisso di patronato della famiglia Saporito; del Carmine della famiglia D’Andrea con l’onere di due messe settimanali poi passato alla famiglia Medici e quello di S. Gregorio della famiglia Albanese con l’onere di due messe settimanali; quello di S. Maria della Stella della famiglia Napoli e Pittari e quello dell’Immacolata della famiglia Medici; quello didel carmine e di S. Giuseppe eretto da Prassede D’Andrea.
Nell’ambito della cura vi era la chiesa di S. Francesco di Paola situata nel rione Bombile di patronato della famiglia Ielasi e si celebrava la sola festa di S. Francesco. Con l’andare del tempo distrutta la chiesa gli eredi Ielasi in memoria del Teol. Ielasi la costruirono nuovamente nel rione Marina aderente al proprio palazzo. Vi era pure la chiesa campestre di S. Nicola col beneficio omonino distrutta prima del 1750 e il beneficio fu aggregato alla matrice. Vi era ancora la chiesa di S. Giov. Battista e quella dell’Annunziata nella quale vi era la cappella di M. S. S. di Loreto di patronato di Laura Ciranta. Vi era un conservatorio di vergini fondato nel 1632 da Suor Maddalena Lucà per legato fatto da Giovanni Lucà. Le vergini convivevano a propriie spese ed avevano la Chiesa propria sotto il titolo di S. Giov. Battista dove l’economo celebrava messa e amministrava i sacramenti della Penitenza e della Eucarestia. Questo luogo non solamente fu rispettato dal Sovrano ma bensì con reale decreto venne dichiarato sotto la sua protezione. Verso lo scorcio del 1700 i beni furono usurpati da varie persone del luogo. Vi era pure un monte dei Pegni.
Nel 1875 esisteva una confraternita sotto il titolo di Pugliano e sciolta questa dall’Arcip. Dama nel 1912, ne istituì quella del Carmine ed il suo successore Arcip. Raschellà compilò lo statuto che venne approvato dal Vescovo Del Rio.
Titolari della parrocchia sono “ Tutti i Santi “, patrono è S. Leonardo. La Chiesa non fu consacrata né vi ha canonica. La popolazione della parrocchia ascende a 3.500abitanti. Hanno luogo durante l’anno le seguenti processioni: Pugliano, del Carmine, S. Francesco, S. Antonio. Poco lontano era la chiesa sotto il titolo di S. M. di Pugliano che apparteneva alla celebre badia sotto lo stesso titolo, le cui rendite ascendevano a 700 scudi annui ed ebbe quale Abate Commendatario il Cardinale Enrico Enriquez. Vi era inoltre il convento dei riformati, sotto il titolo di S. M. della Vittoria fondato nel 1622. Sorgeva in uno dei tre villaggi che formavano la “ terra di bianco “ detto Crocefisso, forse perché si venerava ivi la miracolosa ed antica Immagine del S. S. Crocefisso. Questo convento non patì detrimento dal terremoto del 1783 e viene diretto con somma cura da un numero di morigerati esemplari Padri che vivono di elemosina. Si rende eziandio di somma utilità per le due fere che si fanno nel piano del convento una alli 3 di Maggio per tre giorni continovi e similmente un’altra alli 14 di Settembre ove vi concorrono compratori di più luoghi della provincia. Il Principe Carafa si dice che era lui ad ordinare da una finestra del Convento l’incominciamento delle fiera. Esercitava tale diritto perché forse era stato il fondatore del Convento, come lo fu di tanti altri.
In detto convento visse quasi tutta la sua vita Padre Bonaventura da Casignana religioso di santa vita che era stato confessore della Regina di Spagna, la beata Maria Cristina ( di cui si conservano alcune lettere dirette allo stesso). Egli fu valente oratore ( un volume delle sue prediche esiste), predicò a Roma, Corfù, Venezia ed in molte città, col ricavato delle sue prediche arricchì il Convento di suppellettili preziose e di sette statue. Nel 1860 il Convento fu bruciato per rappresaglia dei bersaglieri comandati dal tenente Rossi e dal tenente Quadri i quali seguivano le peste dei 22 ufficiali e del Generale Boryers mandati dalla Spagna ad inquadrare e comandare il grosso brigantaggio di Ferdinando Mittiga da Platì. Il Padre Samuele da Siderno, al secolo Antonio Vincenzo Mercuri fu Pietro, era in quell’epoca il Guardiano del Convento ed avendo dato alloggio alle truppe spagnuole, diede motivo alla rappresaglia per cui il convento fu bruciato. Il 21 Settembre 1861 P. Samuele fu proditoriamente ucciso. Durante l’incendio è andato distrutto il celebre, antico e artistico Crocifisso che vi si venerava e si vuole che nel cadere a terra abbia lasciata l’impronta della mano del Cristo.
Vi era inoltre il Convento dei P. P. Osservanti di S. Francesco di Assisi fondato nel 1576 e soppresso nel 1789 di cui nulla resta. Di quello invece di Riformati esistono le mura, fu adibito ad uso di cimitero comunale sino a poco tempo fa, oggi chiuso per ordine del Prefetto della Provincia.

Sac. Ernesto Gliozzi, il vecchio


Testamento di Padre Bonaventura da Casignana al secolo Giuseppe Nicita

Avendo io qui sottoscritto dal mio superiore Generale nel 1827 il permesso da potermi conferire in Napoli e dimorar colà tra frati del mio ordine del convento di S. Pietro ad Aram, subito mi son conferito colà, ed ivi cominciai a far parte di quella comunità, ma non potei sanzionar nel luogo  conto per lungo tempo, perché spesso disturbato da due vizi capitali ambizione ed invidia. Col permesso del suo successore Padre Ferdinando da S. Bartolomeo ottenni e passai ad altra famiglia dei PP. Osservanti di S. Severo Maggiore ove dimorai per il corso di anni 22, ed in questa lunga dimora mi applicai nell’esercizio della santa predicazione, e cavalcai quasi tutti i pulpiti rinomati del regno non esclusi quelli di Corfù Venezia Benevento, da quali ricavai molto lucro, che applicai all’acquisto di sacri arredi, mobilia ed ornamenti di chiese, e molte statue di santi, che comperai per ornarci la chiesa del convento del Sant. Crocifisso di Bianco, ove a mie spese feci fabriche, riformai la chiesa, , ma ritenni per uso mio libri, ed arredi sacri, che per gratitudine lascio al mio pronipote Giuseppe Nicita per consegnarli al suo figlio Francesco Nicita essendosi iniziato per ascendere al Sacerdozio. Detti oggetti li lascio anche col permesso del Sommo Pontefice a me comunicato per mezzo della Sacra (…..), e per gratitudine verso lo stesso il quale per il corso di anni dodici mi mantenne in convento e fuori a sue proprie spese, e mi salvò come è noto al pubblico ed al chiesaro  da fiera persecuzione, per cui son vivo per miracolo. Così voglio, e così lascio, poiché niuno da chiesaro e di fuori, potrà domandar veruno oggetto, né libri, né calici, né camici, né pianete. A questo permesso si unisce u  fondo di vari decreti reali, i quali accordano al religioso la facoltà di disporre degli oggetti da lui acquistati e che conserva a suo uso e comodo. Lascio questa mia volontà in scritto per cautela a cui ho tutto lasciato.
Casignana oggi 23 7bre 1859
P. Bonaventura da Casignana lascio come sopra

Da un altro atto testamentario quasi identico risulta che il padre Bonaventura avesse in Platì una sorella, Elisabetta Nicita, moglie di Domenico Portulise. I quali ebbero quattro figli di cui il primo, Rocco nacque nel 1811, come risulta dal lavoro compiuto dello zio Ernesto, il giovane


venerdì 26 settembre 2014

Dies irae (reg. Carl Theodor Dreyer -1943)





Innocens manibus, et mundo corde
Qui non accepit in vano animam suam,
nec iuravit in dolo pròximo suo.
                                                           (SALMO XXIII 4)

             NEI TRIGESIMI
             DELLA MORTE
            DELLA
CONTESSA MARIA OLIVA – LENTINI
PLATì’ 27 AGOSTO 1927
 Una Prece


V. S. è pregata di intervenire
al funebre officio di Trigesimo, in
suffragio del fu
   Arciprete Don SAVERIO OLIVA
che sarà celebrato nella Chiesa Par-
rocchiale, alle ore 9 del 20 del m. c.
          Con anticipati ringraziamenti

Platì, 18 – 1 – 1920

                             GIACOMO TASSONI OLIVA


Le famiglie Morabito Mercurio pregano V. S. di voler intervenire ai funerali
che si celebreranno nella Chiesa Matrice domani 3 Novembre,
in occasione della morte del loro caro congiunto Ferdinando
                               Anticipano ringraziamenti
                Platì, 2 – 11 – 27.



Mercurio Mariannina vedova Morabito e cognato pregano la S. V.
a volere intervenire ai solenni funerali che saranno celebrati
nella Chiesa Matrice domani 3 ottobre in ricorrenza
del I° della morte del loro compianto Ferdinando.
                               Anticiano ringraziamenti









giovedì 25 settembre 2014

L'implacabile condanna (reg. Terence Fisher - 1961)




In nome di sua Maestà Vittorio Emanuele secondo per grazia d’Iddio e per volontà della Nazione Re d’Italia
La giustizia conciliatrice del comune di Platì ha reso la seguente sentenza
Nella causa tra Mastro Francesco Mittiga di Rocco calzolaio domiciliato in Platì, attore e comparente di persona
Contro Mastro Antonio Ciampa fu Vincenzo muratore di anni quaranta domiciliato e residente in questo comune di Platì convenuto contumacia L’attore Mastro Francesco Mittiga con citazione del messo comunale Romeo in mano propria ha domandato il pagamento di lire venti dovutegli per scarpe fattegli ha credito ed ha conchiuso per le spese. Il convenuto Ciampa non è comparso di persona ne per mezzo di suo procuratore.
L’attore in conformità di provvedimenti emessi nella precedente udienza ha domandato alla giustizia sentire le prova in persona di Catanzariti Francesco macellaio di anni cinquanta residenti in Platì e Don Giuseppe Mittiga fu Domenico di anni quaranta indrustiante residente in pari in questo comune, ai quali
Fatti palesi le ritualità riflettente la prestazione del giuramento e dietro averlo prestato hanno unanime deposto che l’attore gli ha fatto ma ignorano se il loro ammontare di lire venti ho meno. Domandate all’attore altre prove questi ha offerto la persona di Giuseppe Morabito fu Domenico di anni trenta e il suo giuramento supletorio e ripetute le formalità del giuramento ha deposto che l’ammontare delle scarpi fatte a credito al convenuto Ciampa è di lire venti giusto la dimanda considerando che le prove assunte da questo ufficio bastantemente fanno gravare la dimanda  Considerando che la contumacia del convenuto ci fa presumere la reltà del dare Ritenuto che chi soccombe è tenuto a pagare le spese per tali motivi Dichiariamo la contumacia del convenuto Antonio Ciampa fu Vincenzo e lo condanna al pagamento in favore dell’attore Mittiga della richiesta somma di lire venti, alle spese che si tassano in centesimi novanta più quelli bisognevoli per la presente spedizione e sua notifica
Fatta a Platì addì sette settembre milleottocento settantasei = Il Giudice conciliatore firmato Fortunato Furore 0 Il cancelliere firmato Rosario Fera  = Letta e pubblicata dal sottoscritto cancelliere all’udienza di oggi suddetto giorno mese ed anno alla presenza del solo attore = Diritto riscosso sessanta
Il cancelliere
Comandiamo a tutti gli usciere che ne sieno richieste di porre in esecuzione la presente, Al Ministero pubblico darvi mano, a tutti i comandanti ed uffiziali della forza pubblica di concorvi con essa quando ne sieno legalmente richiesta
Spedita questa prima copia a quattordici settembre 1877 a richiesta dell’attore Francesco Mittiga
Il cancelliere
Fera
Specifica
Carta bollata                                     L  0,30
Scritturazione per facciate sei                 1,20  
Diritto di spedizione                               0,25
Totale lire una e cent. settanta 5             1,75

Il cancelliere
Fera

Vista la soprascritta dimanda fatta da Mastro Francesco Mittiga di Rocco Ritenuto il probabbile trafugamento dei mobili ed oggetti mobiliari di pertinenza di Antonio Ciampa fu Vincenzo il ritardo del pagamento attesa la sua condizione infelice. Visto il titolo in base al quale si vuole procedere ed essendo in piena regola. Visto l’articolo 575 P. C. invocato dallo esponente   Noi Francesco Oliva giudice conciliatore del Comune di Platì autorizziamo col presente decreto l’usciere Comunale Sig. Filippo Zappia a procedere immediatamente alla ….


Nota: Per dirla sincera dopo tutto questo tempo l'implacabile mastro Francesco Mittiga di Rocco era il padre del nonno Rosario. Un'altra considerazione che mi viene da evidenziare riguarda chi teneva le redini del potere in paese e cioè le famiglie Furore, Fera, Oliva, Zappia tutte presenti nel redigere l'atto.

mercoledì 24 settembre 2014

Papà ma che cosa hai fatto in guerra? Pt.8



22 Agosto 917
Soldato Gliozzi Luigi
3° Fanteria  10° Compagnia
a Messina per
CAMPO INGLESE

Reclama tuoi baci bambina nata felicemente ieri ore 18
Tutti bene            Gliozzi




 Platì 25 – 8 – 1917
Mio carissimo
Ieri non ti ho scritto, perché in seguito al telegramma annunziate la nascita della cara e bellissima bambina – credevo che ti accordassero la brevissima licenza, tanto per baciarla. Mi accorgo che trovi difficile la cosa, e non mancherò di interessare la Benemerita  Arma perché telegrafassero di ufficio. Ma se anche questo non si effettuerà, ti prego di non darti pensiero, giacché Bettina sta bene e da un giorno all’altro lascerà il letto. In quanto al nome, mi piace chiamarla col nome della sorella e di lei faccio voto che pigli solo le virtù e non la fortuna.
Il battesimo lo faremo quando sarà finita questa tempesta di sangue e ci potremo dare il lusso di una giornata contenta. Per ora basta così. L’Arciprete è andato a Siderno e mi lasciò l’incarico di ossequiarti per lui. Lo stesso fa il su Rosario. Sento che si apriranno le licenze per gli ulivi e che dureranno tre mesi. Tutti i proprietari di macchine e di ulivi potranno approfittare: ma non so quali sono le formalità per ottenerla. Non appena verrà al municipio cercherò di apprendere che bisogna fare e lo farò subito. Se tu lo saprai prima scrivimi minutamente. Mi pare di averti detto che il garzone lavora e che l’affare del figlio fu risolto. Oggi fu qui G. Cosenza e starà tre giorni egli ti ossequia. I mussobello anche ti ossequiano ed accudiscono ai maiali e al granturco alla Agliastretti, però l’orto gli è fallito. Cianciana anche ti saluta ed è continuamente agli Sfalasi dove lavora sempre e si porta bene. Solo è da riprovarsi Perri il quale ha la faccia tosta di pretendere le terre anche di Serafina, ma io gli ho negato anche le altre. E con i saluti di questi dipendenti, unisco anche quelli dello zio, ancora ammalato, della zia Nunziata e della zia Betta. Baci tenerissimi da parte di Ciccilo. Rosina Caterina ed Ernestino – Serafinuzza, non potendoli dare te li chiede. E tu baciandoli e benedicendoli tutti pensa con affetto a loro ed anche a noi che ti amiamo.
Abbracciandoti con Bettina, Serafina ed Antonio
                                                                                              Ernesto

lunedì 22 settembre 2014

Il canto dei nuovi emigranti (reg .Felice D’Agostino/Arturo Lavorato - 2005)

Oggi in contemporanea col nuovocinemaloretodiplatì



Ce ne andiamo. Ce ne andiamo via. Dal torrente Aron Dalla pianura di Simeri.Ce ne andiamo con dieci centimetri di terra secca sotto le scarpe con mani dure con rabbia con niente.
Vigna vigna fiumare fiumare
Doppiando capo Schiavonea.
Ce ne andiamo dai campi d'erba tra il grido delle quaglie e i bastioni. Dai fichi più maledetti a limite con l'autunno e con l'Italia. Dai paesi più vecchi più stanchi in cima al levante delle disgrazie.
Cropani
Longobucco
Cerchiara Polistena
Diamante
Nao
Ionadi Cessaniti
Mammola
Filandari...
Tufi. Calcarei immobili massi eterni sotto pena di scomunica.
Ce ne andiamo rompendo Petrace con l'ultima dinamite. Senza sentire più il nome Calabria il nome disperazione.
Troppo tempo siamo stati nei monti con un trombone fra le gambe. Adesso ce ne scendiamo muti per le scorciatoie.
Dai Conflenti
dalle Pietre Nere da Ardore.
Dal sole di Cutro
pazzo sulla pianura
dalla sua notte, brace di uccelli.
Troppo tempo a gridarci nella bettola il sette di spade a buttare il re e l’asso.
Troppo tempo a raccontarci storie chiamando onore una coltellata e disgrazia non avere padrone.
Troppo troppo tempo a restarcene zitti quando bisognava parlare, basta.
Noi vivi e battezzati
dannati.
Noi violenti sanguinari con l'accetta conficcata nella scorza dei mesi degli anni.
Noi morti ce ne andiamo in piedi sulla carretta.
Avanzano le ruote cantano i sonagli verso i confini.
Via!
Via dai feudi dagli stivali dai cani dai larghi mantelli.

Ussahè…

Via Via!
Via dai baroni.
I Lucifero
I conti Capialbi
I Sòlima gli Spada
I Ruffo
I Gallucci.
Usciamo dai bassi terranei dal sudario dei loro trappeti dai parmenti della vendemmia profondi
a lume di candela e senza respirazione.
Via
dai Pretori dalla Polizia dagli uomini d'onore.
Non chiamateci. non richiamateci.
È scrittonei comprensori
È scritto nei fossi nei canali
È scritto in centomila rettangoli
alto su due pali
Cassa del Mezzogiorno
ma io non so che cosa si stia costruendo se la notte o il giorno.
Ci sono raffiche su vecchie facciate che nessuno leva: l'occhio del Mitra è più preciso del filo a piombo della Rinascita.
Addio, terra. Terra mia  lunga  silenziosa.
Un nome non lo ebbe  la gioventù
non stanchiamoci adesso
che ci chiamano col proprio cognome
Noi Noi ce ne siamo  già andati.
Dai catoi dagli sterchi orizzonti.
Da Seminara
dalle civette di Cropalati.
Dai figli appena nati inchiodati nella madia calati dalle frane dall'Aspromonte dei nostri pensieri.
Spegnete le lampadine della piazza. scordiamoci delle scappellate dei sorrisi dei nomi segnati
e pronunciati per trentasei ore.

Cassiani
Cassiani
Cassiani
Cassiani
Foderaro Galati
Foderaro
Antoniozzi
Antoniozzi
Cassiani
Cassiani

La croce sulla croce,diceva l'arciprete.
E una croce sulla croce,
segnavano le donne.
andavano e venivano.

Foderaro
Antoniozzi
Antoniozzi

È stato sempre silenzio. silenzio duro della Sila delle sue nevicate a lutto.
È stato il pane a credenza portato sotto lo scialle all'altezza del cuore.
Sono stati i nostri occhi stanchi guardando le finestre illuminate della prefettura.
Carabinieri,fermatevi.  giratevi non c'è nemmeno un cane.
Siamo tutti lontani latitanti.
Fermatevi.
Restano gli zapponi dietro la porta, i cieli, i vigneti. La pietra di sale sulla tavola.
I vecchi che non si muovono dalla sedia, soli con la peronospera nei polmoni.
Le capre
la voce lunga
degli ultimi maiali scannati.
L'argento a forma a forma di cuore, nella chiesa.
Le ragnatele dietro i vetri, le madonne.
la ragnatela del Carmine
la ragnatela di Portosalvo
la ragnatela della Quercia
Restano le donne consumate da nove a nove mesi con le macchie della denutrizione della fame.
Le addolorate Le pietà di tutti gli ulivi, Lavando rattoppando cucinando su due mattoni raccogliendo spine e cicoria.
Cancellateci dall'esattoria Dai municipi dai registri dai calamai della nascita.
Levateci il I giorno di scuola senza matita senza quaderno senza la camicia nuova.
Toglieteci dalle galere.Non ubriacateci. Liberateci dai coltelli di Gizzeria dal sangue dei portoni.
Non chiamateci da Scilla con la leggenda del sole del cielo e del mare.
Siamo ben legati a una vita
a una catena di montaggio
Scioglieteci dai limoni dai salti del pescespada.
Allontanateci da Palmi e da Gioia.
Noi vivi
Noi morti
presi e impiccati cento volte ce ne siamo già andati staccandosi dai rami, dai manifesti della repubblica.
Di notte come lupi come contrabbandieri come ladri.
Senza un'idea dei giorni delle ciminiere degli altiforni.
Siamo in 700 mila su appena due milioni.
Siamo i marciapiedi più affollati.
Siamo i treni più lunghi.
Siamo le braccia le unghie d'Europa. Il sudore Diesel.
Siamo il disonore la vergogna dei governi.
Il Tronco di quercia bruciata
il monumento al Minatore Ignoto
Siamo l'odore di cipolla che rinnova le viscere d'Europa
Siamo un'altra volta la fantasia degli dei.
Milioni di macchine escono targate Magna Grecia.
Noi siamo le giacche appese nelle baracche nei pollai d'Europa.
Addio, terra.
Salutiamo,  è ora.

Franco Costabile


domenica 21 settembre 2014

Umano, troppo umano (reg. Louis Malle - 1975)




Milano lunedì 20 settembre 1991

  Reverendo Padre ho ricevuto già da alcuni giorni la vostra gradita lettera.
sono contento che la tromba che vi ho inviato vada bene per l’impianto della nostra chiesa
Nei giorni scorsi vi ho inviato con vaglia postale la somma dio L. 500.000 per contribuire per quanto possibile alla riparazione della chiesa, che in occasione della mia venuta a PLATI’ ho trovato alquanto dissestata mi auguro che dietro vostra sollecitudine altri nostri concittadini facciano altrettanto affinché la chiesa possa sempre svolgere la sua funzione educativa e pastorale.
Per quanto graditi mi sono i vostri ringraziamenti tengo a farvi sapere che quanto finora ho fatto  è stato per me una grande gioia anche se purtroppo non basta a risolvere il problema anch’io sarei stato felice di incontrarvi e scambiare con voi quattro parole ma purtroppo ciò non è stato possibile spero in futuro
prima di lasciarla vorrei chiederle un favore personale, desidero che una Domenica delle prossime venga celebrata una messa di suffragio per i defunti che mi affretto a elencarvi in calabrese
fu gnura Elisabetta a sciampagna
“  gnura Maria detta a …
“  gnura Maria Antonia Portolesi
    Don Peppino Mittiga detto degli spizzingoli e per sua Moglie Donna Momina
    Don Ciccillo Gelonesi che è stato mio insegnante
    Per vostro Fratello che è stato mio insegnante di Religione alle Medie, per i miei nonni Paterni e Materni e per le anime dimenticate, è mio desiderio che questi defunti vengano ricordati durante una messa domenicale di mattina … ora mi unisco a voi nella preghiera e nella speranza dio poterci incontrare porgo distinti saluti augurandovi ogni Bene

        Vostro affezionatissimo  Sergi Pasquale

Nota
Purtroppo non sono riuscito ad identificare il soprannome della gnura Maria detta a ...

venerdì 19 settembre 2014

James - She's a star




Una donna di Calabria vale quanto l'uomo d'ogni altro paese: i fianchi vigorosi, gli occhi arditi, i polsi robusti, le gote floride, la ricca capigliatura, e l'accento minaccioso la dicono nata nel paese dei terremoti e dei vini forti. Vive sulle montagne? gonna di colore vermiglio, come i gruppi dei lampi che saltellano per le montagne. Vive presso il mare? gonna azzurra come gli olivi, sotto cui mena la vita. Maneggia la conocchia ed il fucile, la spola e la scure, ed il suo sguardo è infallibile come il suo fucile. Ti fissa sopra lo sguardo? Ti raddoppia la vita. Ti fissa sopra il fucile? Te la toglie. Nondimeno, la donna fu considerata ovunque come un essere decaduto, e tale si stima pure in Calabria. Il pastore che caglia il latte, deve avvolgere il presame in un pezzo di tela appartenente ad uomo e non a donna; altrimenti è sicuro che il latte non cagli. La parte inferiore della camicia della donna si dice musto: coi fili di questo musto se si fa un lucignolo per la lucerna, il lucignolo non arderà. Ma se la donna è zitella, l'opinione sul conto suo e tutt'altra. Il tocco delle dita di lei si crede portentoso, profetica la parola, ispirato lo sguardo. La zitella fabbrica il pane? Esso le cresce nelle mani, ed anche senza lievito riuscirà gonfio, alluminato e spugnoso più del pane fermentato. La famiglia compra un bicchiere, una bottiglia, un orciuolo? Perché acquistino buono odore, la prima a porvi su le labbra deve essere la zitella. Vanno le donne a raccorre i covoni e spigolare? Se nel campo vi è uno stelo a doppia spiga, colei che lo trova è certamente zitella. Avete un'infiammazione negli occhi? L'unico farmaco che può guarirvi è la saliva della zitella. Ella riceve il più delicato rispetto nella famiglia, e la donna più corrotta e l'uomo più dissoluto non osano in Calabria profferire una parola meno che onesta innanzi a lei. Quanto son belli e poetici i seguenti proverbii, e quant'altezza di sentire manifestano in Calabria! La zitella e` Santa come un altare. L'uomo che gitta un cattivo pensiero nell'anima di una zitella è simile al Demonio che versò il male nel paradiso terrestre. Tre sole cose hanno fragranza in questo mondo, il fiato del fanciullo, della zitella e del vitellino lattante.
Vincenzo Padula, Persone in Calabria