Il vino, il
compare e i pregiudizi
di Michele Papalia
Ogni domenica il
nonno li attendeva. Dopo la rasatura, la visita quotidiana al quadretto di orto,
che insisteva accanto alla casa seguita da un quarto di vino. Li aspettava
seduto su una cigolante sedia a sdraio che mal sopportava il peso di un uomo
tozzo, arcigno e dalle ossa dure come pietre. Era domenica 29 settembre, e per
i fedeli a Platì alla liturgia dell’Eucarestia si accompagnava la festa in
onore dei tre arcangeli.
Alla spicciolata
arrivarono, una dozzina in tutto, per una visita imposta a loro da bambini come
doverosa ma col passare degli anni divenuta piacevole rituale.
Quei nipoti erano
avidi di storie e aneddoti, attratti dalla voce narrante del nonno, maestro
nell’uso delle brevi pause cadenzate e bastevoli per far perdere gli occhi dei
più piccoli nel mare oceano della fantasia. Narrava il nonno di storie
dimenticate, di streghe e folletti, di bombe piovute dal cielo e di tesori
nascosti negli anfratti d’Aspromonte.
‘Ntoni, il
più grande di essi e però il più impaziente, chiedeva al nonno la questione del
“traffico”, senza risultati giacché il vecchio sembrava non sentire. E
attaccava con gli stessi discorsi; quanta merce aveva trasportato dalla Jonica
alla Piana, talvolta fino alle Serre o in direzione della Valle Grecanica tanto
da conoscere ogni sentiero di montagna e aver stretto tre comparati per ogni
paese, tutti dello stesso mestiere “Che
se non ci guardavamo tra noi altri mulattieri …”. Questi infatti, alla
stregua di una società di mutuo soccorso, non dimenticavano mai i bisogni dei
compagni di ventura e sventura e a distanza di anni, abbandonati muli e
sentieri, coglievano ogni loro incontro per trasformarlo in una gara di
brindisi dove il passaggio dal sobrio all’avvinazzato era intervallato giusto
dai primi bicchieri, svuotati quelli gli alticci compari non distinguevano più
la corposità né il colore rosso del vino.
Dietro la
continua insistenza di ‘Ntoni, quando
i due nipoti più piccoli mossero verso la cucina attratti dal profumo delle
melanzane, il nonno stavolta senza ritrosie andò alla questione del “traffico”
esordendo con la solita esclamazione: “A
ottant’anni chi se lo sognava, manco se me lo avesse detto la zingara!”.Infatti,
quando si parlava di carcerati e galera, di cose storte e di ingiustizie, la
veneranda età e l’illibata fedina penale del nonno, altero, lo inorgoglivano,
sentendosi innocente e fortunato perché salvatosi da certe giri e macchinazioni.
Non sapeva leggere e scrivere, e pur sapendo far di conto
inquadrando uomini e cose, aveva con negligenza sottovalutato i nuovi tempi,
credendo smaliziata la sua condotta nel ritrovarsi sotto il pergolato di Mico Racina, compare al nonno per avergli
battezzato l’ultimogenito.
Era accaduto due
lustri addietro eppure ancora a pensarci il nonno ricordava profumi e
sensazioni di quelle giornate, ricordava pure la voce rauca di suo compare che
non avrebbe più rivisto. E cominciarono a riaffiorare dettagli e parole.
“Vi aspetto per sabato mattina. Che così ci
facciamo un quarto di vino, di quello nuovo”, fatta l’ultima chiamata di
invito che suonava più come imperativo, Mico
Racina aveva riposto cornetta e rubrica telefonica, risolvendosi che tutti
erano stati invitati sotto la pergola.
Ma un nuovo sole
non fece in tempo a spuntare per i vecchi mulattieri.
In piena notte
dopo il canto del cuculo e prima che il gallo svegliasse il vicinato, divelta
la porta di casa i militari se lo portarono a forza per condurlo al
penitenziario.Tra imprecazioni e bestemmie a denti stretti, il nonno era e
rimaneva ignaro di ogni accusa fino a quando non si trovò di fronte al giudice
istruttore: “Voi venite accusato di
traffico di stupefacente del tipo cocaina commesso unitamente a vostro compare
Mico Racina”. Continuò il giudice a leggere l’ordinanza di custodia
cautelare non certo perché sapesse dell’analfabetismo dell’anziano mulattiere,
il quale impaurito dagli occhi di diavolo che vedeva in quelli
dell’inquisitore, non riusciva a raccapezzarsi.
Ridestatosi da
funesti visioni e fattosi coraggio, adoperando la lingua dei padri come
succedeva quasi d’istinto quando il discorso si faceva terribilmente serio, in
un dialetto stretto che l’avvocato compaesano si premurò di tradurre, il
carcerato fece sentire le sue ragioni: “La
signoria vostra deve sapere che i miei traffici li chiusi venti anni fa quando,
morto il mio asino, decisi di abbandonare i sentieri”.Un attimo di pausa
per guardare l’avvocato a mo’ di conferma e il nonno riprese: ”I miei compari mi chiamano a bere vino,
rosso della qualità di Cirò, e l’unico traffico di cui mi potete accusare è per
l’appunto questo”.
Le porte del
carcere si schiusero dopo un mese; tanto ci era voluto affinché un altro
giudice, vagliati gli incartamenti, decifrasse l’arcano spegnendo l’abbaglio
che irradiava gli occhi del collega, giudice incarcerato dal pregiudizio.
Nei dialoghi tra gli indagati, la giara non corrispondeva
al carico di cocaina, né il rosso e il bianco ad altre sostanze stupefacenti; e
le mangiate e le bevute sotto il pergolato, che il giudice sosteneva celassero
l’occasione per spartire illeciti proventi, altro non erano se non un
ritrovarsi che compare Mico Racina
organizzava periodicamente per riabbracciare i vecchi amici.
Il nonno tornato
a casa emaciato e sbattuta la porta che la nonna aveva fatto riparare, chiesto
il solito quarto di vino sentenziò: “Non
conosco più a nessuno. Né compari né amici, solo Padre, Figlio e Spirito Santo”.Risoluto
si autoassegnò il domicilio coatto, imponendosi di non banchettare più se non
con la nonna e i figli.
Aveva di meglio
da fare: un quadretto di orto da curare e dodici nipoti che non mancava
bonariamente di ammonire: “Statevi
attenti! Che oggi giorno avere amici è delitto”. Non sia mai che a qualche
scellerato uomo di legge e figlio del pregiudizio venissero in mente altre
diavolerie.
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Questo racconto di Michele è già apparso altrove. Appena letto ho avuto
invidia dei miei predecessori che, lasciatelo dire, non hanno riconosciute le
novità che lo scritto nasconde, accanto
alla deliziosa scrittura che cela in sé i toni e i colori del quadro di Cézanne
che illustrava (lì decolorato) una delle precedenti pubblicazioni. E la novità
per me è nel reinventare e trasporre le vicende paesane affinché altri,
altrove, possano uscire dai pregiudizi che stampa e media arcaici e moderni
hanno riversato traendo spunto dalle cronache e non solo da quelle.
Il cumulo dei miei anni mi hanno disilluso per l’avvenire spettantemi,
per chi spera la via è tracciata da Michele che ha il compito, nonché l’invito,
di continuare a scrivere.
Affinché non mi si accusi di furto con plag(g)io vi informo che il lavoro
di Michele è apparso su:
In Aspromonte- giornale di cultura, ambiente, risorse, eventi del massiccio montano- novembre 2015
e su Platìonline.net il blog di don Ciccillo
Violi
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