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mercoledì 3 febbraio 2016

Il delitto del nonno (reg. Abel gance 1919)

Il vino, il compare e i pregiudizi
di Michele Papalia

   Ogni domenica il nonno li attendeva. Dopo la rasatura, la visita quotidiana al quadretto di orto, che insisteva accanto alla casa seguita da un quarto di vino. Li aspettava seduto su una cigolante sedia a sdraio che mal sopportava il peso di un uomo tozzo, arcigno e dalle ossa dure come pietre. Era domenica 29 settembre, e per i fedeli a Platì alla liturgia dell’Eucarestia si accompagnava la festa in onore dei tre arcangeli.
   Alla spicciolata arrivarono, una dozzina in tutto, per una visita imposta a loro da bambini come doverosa ma col passare degli anni divenuta piacevole rituale.
   Quei nipoti erano avidi di storie e aneddoti, attratti dalla voce narrante del nonno, maestro nell’uso delle brevi pause cadenzate e bastevoli per far perdere gli occhi dei più piccoli nel mare oceano della fantasia. Narrava il nonno di storie dimenticate, di streghe e folletti, di bombe piovute dal cielo e di tesori nascosti negli anfratti d’Aspromonte.
   ‘Ntoni, il più grande di essi e però il più impaziente, chiedeva al nonno la questione del “traffico”, senza risultati giacché il vecchio sembrava non sentire. E attaccava con gli stessi discorsi; quanta merce aveva trasportato dalla Jonica alla Piana, talvolta fino alle Serre o in direzione della Valle Grecanica tanto da conoscere ogni sentiero di montagna e aver stretto tre comparati per ogni paese, tutti dello stesso mestiere “Che se non ci guardavamo tra noi altri mulattieri …”. Questi infatti, alla stregua di una società di mutuo soccorso, non dimenticavano mai i bisogni dei compagni di ventura e sventura e a distanza di anni, abbandonati muli e sentieri, coglievano ogni loro incontro per trasformarlo in una gara di brindisi dove il passaggio dal sobrio all’avvinazzato era intervallato giusto dai primi bicchieri, svuotati quelli gli alticci compari non distinguevano più la corposità né il colore rosso del vino.
    Dietro la continua insistenza di ‘Ntoni, quando i due nipoti più piccoli mossero verso la cucina attratti dal profumo delle melanzane, il nonno stavolta senza ritrosie andò alla questione del “traffico” esordendo con la solita esclamazione: “A ottant’anni chi se lo sognava, manco se me lo avesse detto la zingara!”.Infatti, quando si parlava di carcerati e galera, di cose storte e di ingiustizie, la veneranda età e l’illibata fedina penale del nonno, altero, lo inorgoglivano, sentendosi innocente e fortunato perché salvatosi da certe giri e macchinazioni.
Non sapeva leggere e scrivere, e pur sapendo far di conto inquadrando uomini e cose, aveva con negligenza sottovalutato i nuovi tempi, credendo smaliziata la sua condotta nel ritrovarsi sotto il pergolato di Mico Racina, compare al nonno per avergli battezzato l’ultimogenito.
   Era accaduto due lustri addietro eppure ancora a pensarci il nonno ricordava profumi e sensazioni di quelle giornate, ricordava pure la voce rauca di suo compare che non avrebbe più rivisto. E cominciarono a riaffiorare dettagli e parole.
   “Vi aspetto per sabato mattina. Che così ci facciamo un quarto di vino, di quello nuovo”, fatta l’ultima chiamata di invito che suonava più come imperativo, Mico Racina aveva riposto cornetta e rubrica telefonica, risolvendosi che tutti erano stati invitati sotto la pergola.
   Ma un nuovo sole non fece in tempo a spuntare per i vecchi mulattieri.
   In piena notte dopo il canto del cuculo e prima che il gallo svegliasse il vicinato, divelta la porta di casa i militari se lo portarono a forza per condurlo al penitenziario.Tra imprecazioni e bestemmie a denti stretti, il nonno era e rimaneva ignaro di ogni accusa fino a quando non si trovò di fronte al giudice istruttore: “Voi venite accusato di traffico di stupefacente del tipo cocaina commesso unitamente a vostro compare Mico Racina”. Continuò il giudice a leggere l’ordinanza di custodia cautelare non certo perché sapesse dell’analfabetismo dell’anziano mulattiere, il quale impaurito dagli occhi di diavolo che vedeva in quelli dell’inquisitore, non riusciva a raccapezzarsi.
   Ridestatosi da funesti visioni e fattosi coraggio, adoperando la lingua dei padri come succedeva quasi d’istinto quando il discorso si faceva terribilmente serio, in un dialetto stretto che l’avvocato compaesano si premurò di tradurre, il carcerato fece sentire le sue ragioni: “La signoria vostra deve sapere che i miei traffici li chiusi venti anni fa quando, morto il mio asino, decisi di abbandonare i sentieri”.Un attimo di pausa per guardare l’avvocato a mo’ di conferma e il nonno riprese: ”I miei compari mi chiamano a bere vino, rosso della qualità di Cirò, e l’unico traffico di cui mi potete accusare è per l’appunto questo”.
   Le porte del carcere si schiusero dopo un mese; tanto ci era voluto affinché un altro giudice, vagliati gli incartamenti, decifrasse l’arcano spegnendo l’abbaglio che irradiava gli occhi del collega, giudice incarcerato dal pregiudizio.
Nei dialoghi tra gli indagati, la giara non corrispondeva al carico di cocaina, né il rosso e il bianco ad altre sostanze stupefacenti; e le mangiate e le bevute sotto il pergolato, che il giudice sosteneva celassero l’occasione per spartire illeciti proventi, altro non erano se non un ritrovarsi che compare Mico Racina organizzava periodicamente per riabbracciare i vecchi amici.
   Il nonno tornato a casa emaciato e sbattuta la porta che la nonna aveva fatto riparare, chiesto il solito quarto di vino sentenziò: “Non conosco più a nessuno. Né compari né amici, solo Padre, Figlio e Spirito Santo”.Risoluto si autoassegnò il domicilio coatto, imponendosi di non banchettare più se non con la nonna e i figli.
   Aveva di meglio da fare: un quadretto di orto da curare e dodici nipoti che non mancava bonariamente di ammonire: “Statevi attenti! Che oggi giorno avere amici è delitto”. Non sia mai che a qualche scellerato uomo di legge e figlio del pregiudizio venissero in mente altre diavolerie.

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Questo racconto di Michele è già apparso altrove. Appena letto ho avuto invidia dei miei predecessori che, lasciatelo dire, non hanno riconosciute le novità che lo scritto nasconde,  accanto alla deliziosa scrittura che cela in sé i toni e i colori del quadro di Cézanne che illustrava (lì decolorato) una delle precedenti pubblicazioni. E la novità per me è nel reinventare e trasporre le vicende paesane affinché altri, altrove, possano uscire dai pregiudizi che stampa e media arcaici e moderni hanno riversato traendo spunto dalle cronache e non solo da quelle.
Il cumulo dei miei anni mi hanno disilluso per l’avvenire spettantemi, per chi spera la via è tracciata da Michele che ha il compito, nonché l’invito, di continuare a scrivere.

Affinché non mi si accusi di furto con plag(g)io vi informo che il lavoro di Michele è apparso su:
In Aspromonte- giornale di cultura, ambiente, risorse, eventi del massiccio montano- novembre 2015
e su Platìonline.net il blog di don Ciccillo Violi



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