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giovedì 16 ottobre 2025

La macchina da scrivere [Mario Landi, 1971]


16 – 12 – 1948
Caro Cugino,
Rispondo la vostra
Lettera, e mi dispiace molto che quest’anno per la grande Solennità Cristiana, non riceverete i miei auguri, come nemmeno io ne ho voglia di riceverne. Spero che un altro anno si sia alquanto rimarginato il vostro dolore e ci scambieremo di nuovo gli auguri. Del resto, non possiamo andare contro le Leggi Divine.
Il nostro caro congiunto mi aveva assicurato, che ogni giorno pregava per me nel Santo Sacrificio della Messa.
Spero che ora mio cugino vorrà fare le sue veci, e pregare per me quando Celebra il Sacrificio della Messa, che ne ho tanto bisogno.
Voi non sapete quanta pena mi è rimasta che non ho risposto la Sua lettera. Non me lo credeva affatto ch’era prossima la sua fine.
Ora non ci rimane altro che pregare per il riposo della Sua Benedetta anima, invocando la sua protizione per la nostra lotta quotidiana.
Riguardo come dite di scusarvi che avete scritto a macchina, solo mi dispiace della vostra indisposizione. Come sapete ora in America non si usa più questa etichetta. Tutto si scrive a macchina, tanto per fatti commerciali e tanto per intimità. E se non fosse di moda, per me era lo stesso.
Scrivetemi come meglio vi aggrada. Mi dispiace che io non mi sono mai interessata di questa macchina, che le mie occupazioni giornaliere non mi permettevano. Le mie figlie quando erano a casa, ne facevano assai uso, ora di questi che sono rimasti qui con noi, solo Michele la sa maneggiare, ma noi lo vediamo a casa solo quando è l’ora della tavola. Il resto della sua giornata dopo ritorna dall’ufficio appartiene agli sport e due ore al giorno deve studiare che fra due o tre anni dovrò avere il diploma di ingegnere industriale, e per miracolo se qualche voltami può scrivere una direzione. Questa settimana la Compagnia ha fatto un Bollettino di tutti gli uffici. Abbiamo tagliato questo pezzettino del suo ufficio lui è al primo seduto. Spero che a quest’ora avete ricevuto i due pacchi che vi ho mandati. Il primo fu spedito il giorno 20 di ottobre, ed il secondo dopo siamo ritornati da New York nel mese di novembre. Nel secondo pacco ci stanno abiti nere, che le mie ragazze quando hanno inteso la ferale notizia, me li hanno dati per le vostre figlie. Qui, il nero, si usa per gala più di ogni altro colore, e speriamo che non serve sempre per lutto. Ancora me ne sono rimaste un poco se le ragazze vostre le vogliono li posso mandare in un altro pacco, che mi sono rimaste scarpe pure in ottime condizioni. Veramente il mio piacere sarebbe di comprarle nuove, ma voi vi regolate, che una famiglia numerosa non può disporre di quello che vuole. Ancora vi faccio una domanda. Se ci vuole qualche cosa per la cugina Serafina, tengo un abito di velluto nero ed un cappotto nero che posso mandare per essa. Per la cugina vostra moglie ho l’idea di comprare un pezzo di stoffa nera. Vi ripeto ancora quando non potete scrivere voi, i vostri figli faranno le vostre veci, e non badate a convenienze, fate a come vi rende più comodo. Vi ricevete tanti saluti dalla mia famiglia, estensibile alla vostra famiglia. Inviandovi i miei più affettuosi saluti mi dico vostra aff.ma cugina
Bettina


Bettina Gliozzi in realtà si chiamava Maria ed era nata a Platì il 22 giugno 1886 da Michelangelo di anni trentatre, vaticale, e dalla sua unione con donna non maritata non parente né affine con lui nei gradi che ostano al riconoscimento. Studiò e divenne maestra di scuola. A Platì il 2 febbraio 1907 sposò Pasquale Romeo di Antonio e Francesca Papalia di anni 29 e con lui un anno più tardi emigrò in America e precisamente a Massena NY dove vissero. Bettina morì il 9 marzo 1968. Il cugino della lettera era Luigi Gliozzi figlio di Francesco e Rosa Fera. Michelangelo e Francesco erano figli di Domenico ed Elisabetta Gliozzi. L'altro cugino di cui lamenta l'improvvisa perdita Bettina era il sacerdote e poeta Ernesto Gliozzi il vecchio (1883-1948), fratello di Luigi e Serafina. Nella foto d'apertura Michele [Mike] il figlio ingegnere industriale è il primo a partire da sinistra.

La precedente lettera di condoglianze è qui: https://iloveplati.blogspot.com/2020/11/un-dolore-improvviso-di-ubaldo-maria.html






 

martedì 14 ottobre 2025

La strada della vergogna [ Kenji Mizoguchi, 1956]


"Come on inside
Takin' that ride to nowhere"
David Byrne, 1985


 

VIABILITA’ IN CALABRIA
 La sistemazione definitiva
della “112” d’Aspromonte
 I danni prodotti dalle alluvioni
non sono stati ancora riparati
 
Platì, 23 Aprile
Uno spettacolo desolante offre oggi la strada statale 112 d’Aspromonte, che fu una delle strade più belle e più importanti della Penisola.
Raffazzonata alla meglio dopo l’alluvione del 1861 [1951?], con passerelle di legno montate sui gabbioni, questa strada subì anche i danni dell’alluvione del 1953, che aggiungendosi a quelli precedenti non ancora sanati, la ridussero in uno stato veramente pietoso.
Ci meraviglia moltissimo la evidente riluttanza dello Stato ad affrontare con decisione e definitivamente il problema della distribuzione di una strada di tale importanza.
Dal 1951 ad oggi i provvedimenti presi per essa, furono scarsi, e con carattere di provvisorietà. Tutt’oggi, dopo ben cinque dall’ultima alluvione la strada suddetta è ancora interrotta al traffico: e lo sarà ancora per molto tempo data l’esasperante lentezza con cui procedono i lavori.
Una sistemazione razionale di questa strada, non è, invero, impresa da “pigliarsi a gabbo”; ma trova comunque una piena giustificazione sul piano dell’economia nazionale, data la grande importanza della strada medesima, che congiunge direttamente l’Jonio al Tirreno.
Vogliamo pertanto sperare che questa nostra istanza venga presa in considerazione dalle autorità competenti.
GAZZETTA DEL SUD, 24 APRILE 1954 

Il testo di cronaca non porta firma. Le inadempienze dello Stato sono testimoniate dalle immagini d'apertura: la prima del 1954, la seconda di qualche mese fa. Come di qualche mese fa è il rilancio sul piano economico della "112".

 


lunedì 18 agosto 2025

La Minaccia [Alain Corneau, 1977]




PER INFILTRAZIONI D’ACQUA
Minacciate le fondamenta di alcune abitazioni a Piatì
In via 24 Maggio le cunette di scolo non rispondono alla
bisogna per cui si verificano conseguenze molto dannose
 
Platì, 30 giugno
(M.F.) - A seguito di segnalazione di molti cittadini Interessati, rendiamo noto che lungo il tratto della stradale 112 che attraversa Piati e che viene denominato: «Via 24 Maggio», si verifica da molto tempo una situazione del tutto contraria alla Pubblica Utilità. Molte abitazioni situate su detta strada, hanno il piano terreno sotto il livello della medesima e il primo piano sopra. Le cunette di scolo costruite ai margini della strada da parte dell'A.N.A.S., cunette cosiddette «alla francese» sono costruite così male, e servono così male al loro scopo, che nei plani delle abitazioni che sottostanno al livello stradale, si verificano continue e dannosissime infiltrazioni d'acqua, che fanno imputridire le travature dei pavimenti, con conseguenti minacce di crollo dei medesimi.
Più volte i cittadini si sono rivolte agli organi competenti dell'A.N.A.S. per chiedere la costruzione di canali più razionali, o la drenatura del fondo stradale in prossimità delle abitazioni, ma non hanno ottenuto niente di niente.
La cosa è gravissima di per se stessa; ma diventa ancora più grave se si pensa che per fabbricare queste inutili e irrazionali cunette «alla francese», sono state demolite le vecchie cunette «all'italiana», che anche se non avevano una affascinante denominazione esotica, tuttavia raggiungevano benissimo lo scopo per le quali erano state costruite.
MICHELE FERA
GAZZETTA DEL SUD, 1 luglio 1956

In apertura l’ingresso della nostra CASA in via XXIV maggio n° 25, di seguito un particolare delle cunette in questione. Demolita la casa, demolite le cunette.
La pubblicazione serve anche per ricordare la nascita di papà, 19 agosto 1908.


 

domenica 3 agosto 2025

Salita al Cielo - True Stories about Amalia Gliozzi (1925/2025) #2

"Era il tempo migliore e il tempo peggiore, la stagione della saggezza e la stagione della follia, l'epoca della fede e l'epoca dell'incredulità, il periodo della luce e il periodo delle tenebre, la primavera della speranza e l'inverno della disperazione. Avevamo tutto dinanzi a noi, non avevamo nulla dinanzi a noi; eravamo tutti diretti al cielo". 
Charles Dickens, A Tale of Two Cities, 1859




La zia Amalia in realtà si chiamava Maria Amalia. Ecco come andò. Maria Amalia Gliozzi nacque il 7 agosto del 1925, un venerdì. Il nonno Luigi per tempo si fece una bella pensata e convinto che il nascituro probabilmente sarebbe stato l’ultimo della sua progenie, allo stato civile ne aveva registrati già sette, tutti con nomi familiari a lui o alla sua diletta sposa, la nonna Lisa che di cognome andava Mittiga. Rimaneva ancora la mamma di sua mamma,  Maria Amalia. Quest’ultima era figlia di Don Rosario Zappia e Donna Rosa Lenzi, a diciannove anni sposò il trentaseienne Don Giuseppe Fera. Con i cognomi citati siamo nel pieno del settecentesco Catasto Onciario platiese e il Don è d’obbligo. Maria Amalia Gliozzi non ebbe una vita facile e felice. Fin dalla sua adolescenza dovette occuparsi dei genitori, delle sorelle e dei fratelli. Gli anni trascorrevano e le sorelle più grandi andavano spose, una, Serafina, vergine e sposa di Cristo. Costretta single, alla morte del padre dovette occuparsi della madre e dei due fratelli sacerdoti, della casa. In quei tempi, nei paesi dell’entroterra calabrese, governare la casa non voleva dire fare le pulizie, rammendare o cucinare. Bisognava aver continuamente cura dell’olio, del vino e del formaggio, che stavano negli angoli più riposti e freschi della casa. Bisognava fare il sapone con l’olio più vecchio e con i pomodori che arrivavano da Sfalassi in agosto fare la salsa, riempire le bottiglie, metterle a bollire in enormi, affumicati calderoni di rame zincato, che raffreddate bisognava mettere anch’esse in quegli angoli riposti. Prima della Quaresima, a carnevale, c’era il maiale e i suoi derivati: sangue, cardara con frittole e sajimi, pulire e riempire le budella con conseguente stagionatura. Come anticipato, la zia Amalia fu anche al servizio dei due fratelli preti, da giovane quando questi venivano spediti nei paesi della diocesi, da grande quando gli stessi ebbero la cura della Parrocchia. Essi, destinati ad essere gli ultimi parroci nati e vissuti in Platì. Le toccò in sorte anche di doversi occupare dei predicatori quaresimali, e di quelli delle feste: Ritu, San Rocco, Madonna del Rosario, Immacolata, San Nicola, varie ed eventuali. Così, essa diventò la loro sposa e non ebbe facilità e felicità alcuna. Dopo una vita al servizio di tutti lasciò la Terra lontano da quella Casa che la vide nascere e sacrificarsi.

In apertura la zia Amalia in abito tradizionale calabrese e l'agendina dove il nonno Luigi il 7 agosto del 1925 fissò: "ore 7 nacque M. Amalia".




 

sabato 14 giugno 2025

La sconosciuta [Giuseppe Tornatore, 2006]

"You ain't gonna find nothin' down here friend
Except seeds blowin' up the highway in the south wind"
Bruce Springsteen, 1985






Ancora una volta qualcosa di “Ignoto”, frutto di una fortuita visita in un vivaio nella vallata del Careri: il fagiolo Platì. Naturale l’accostamento ai Catasti Onciari della Motta Platì. Notizie sull’origine di questa pianta non si trovano, bisogna affidarsi all’inventiva: certamente è una pianta coltivata nei tempi andati, gradualmente dispersa, risorta per merito di un’azienda della Campania. Come i citati Catasti sono conservati a Napoli, i semi Platì sono un prodotto della valle del Sarno. Essa ha tutte le caratteristiche del paese di cui porta il nome: generosità e calore, adattandosi a qualsiasi territorio in cui migra.

Le foto ritraggono esempi di ciurramesca coltivazione.


 




lunedì 9 giugno 2025

Zangiku Monogatari (残菊物語) Storia dell’ultimo crisantemo [Kenji Mizoguchi, 1939]


Signori,

Oggi, la riconoscente Samo di Calabria, è in lutto per la morte del Cavaliere Don Giulio Mezzatesta.
L’imponente corteo mi dice che scende nella tomba un uomo dabbene. Oh, il fascino irresistibile della carità di Cristo! Un uomo che possegga tutte le lingue, un dotto e arcigno, un uomo insomma, per così dire, di lettere - senza la carità - non è altro se non un cembalo, un campanello squillante... e ce lo dice San Paolo.
Veramente, ai giorni nostri, gli sguardi delle masse si fermano meglio sopra i cuori che amano, anziché sulle teste che pensano.
La carità è tutto: è il sole che illumina, rianima, riscalda tutte le creature vive; e l’astro maggiore dell’universo: cieco chi non vede! Quando un uomo, da cui emana questo sole di carità, si oscura o si ecclissa, si sente come un sintomo di freddo nelle ossa, si vedono grandi ombre proiettarsi sui vicini e sui lontani, un sentimento di malinconia e di malessere invade tutti. Ecco - dicono i superstiti - era pur buono! e piangono ...
Il pianto che fu dato all’uomo per distinguerlo dai bruti; il pianto che esalta le creature umane sino a renderle divine; il pianto non e l’esponente dei cuori deboli e fiacchi, ma dei cuori nobili e forti.
Voi piangete, o popolo di quattro comuni riuniti, voi siete grandi e civili.
Ma perché piangete? Forse, perché un signore, avanzato negli anni, scende nella tomba, assistito da una siepe di parenti e munito dei conforti della nostra santa religione? 0, non pure perché quest’uomo era il padre del nostro Podestà, la figura magnifica, la più nobile e rappresentativa di Samo di Calabria?
Non è per questo, mi dite. Ah, comprendo! Qualche cosa ci viene dunque a mancare, qualche cosa a cui ci eravamo abituati per lunga teoria di anni, che ci arrecava un sollievo, senza che noi lo sapessimo!
Questa esistenza che s‘inabissa, o meglio, che passa dalle tenebre per camminare nella perpetua luce - questa esistenza era come un faro che risplendeva di luce propria. Chi si avvicinava a lui, scorgeva in quell'anima come una lampada quieta, serena, ardente - e questa lampada era la sua bontà.
Quella bontà non negativa, ma fattiva; bontà fatta di disinteresse, di amore vero per tutti, di beneficenza occulta, di compiacimento per il bene degli altri, una bontà schietta, senza infingimenti, senza sottintesi, senza ombre.... ecco quello che brillava in lui e faceva del nostro amico un uomo buono val quanto dire un galantuomo.
«Ma vale proprio la pena» mi dirà qualcuno «venirci a dire che Don Giulio era un uomo buono; sia pure un uomo santo ... quasiché la bontà, la santità non dovesse formare per un gentiluomo che si rispetta, la parte integrale del suo galantomismo?»
«Si, basta» rispondo io «quando la bontà è tutta di un pezzo, il galantomismo é a tutta prova ed una vita intemerata sia coronata da una morte edificante.»
Voi conoscete bene la sua vita - io conosco bene la sua anima. - Quell‘uomo pacifico, buono, sereno, sorridente - galantuomo del vecchio stampo – che aveva sempre un consiglio, o un sorriso da regalare - amava la Religione e la Patria, credetemi. Anni fa venne tra voi un missionario zelante. Non ricordo il nome, né l’ordine a cui il buon padre apparteneva; questo ricordo: che il nostro Cavaliere Don Giulio Mezzatesta era in quei giorni animato di giovanile e santo entusiasmo. Seguiva le prediche con desiderio crescente, con gioia di sentire le bellezze ed i trionfi della fede e serrava nell’anima l’augurio che la missione fosse apportatrice di un miglioramento civile, morale e religioso di un popolo affidato alle cure del suo diletto figliuolo.
Non so se ne sia rimasto deluso.
A me, qualche volta, è riuscito pure di sondare la sua bell’anima, materiata di religiosità. Avrebbe voluto che non ci fossero il fariseismo e neppure il rispetto umano - cose d’altronde che spiacciono.
Dall’amore di Dio scaturisce l’amore della famiglia e della Patria. Non credete a coloro che asseriscono e dicono di praticare il contrario.
Giulio Mezzatesta oltre che il sangue purpureo, sgorgato dalle ferite del figlio Capitano Rocco (minorato di guerra) offrì alla grande causa della libertà dei popoli il suo censo e il suo consenso.
Mi fu detto con quale ansia seguiva le notizie dei giornali, in quegli anni di guerra; le tappe gloriose dei nostri eroici fanti nella conquista immancabile dei naturali confini.
E mentre - altrove - i disfattisti, i Graiano d’Asti*, gioivano alle notizie funeste dopo Caporetto - il Cavaliere Don Giulio Mezzatesta non disperò, non cadde, ma ebbe a dire solamente «Noi vinceremo lo stesso!» Vennero poi le giornate del Piave e di Vittorio Veneto, venne pure il bolscevismo controbattuto dalla costituzione dei fasci; venne infine l’ordine, mantenuto da una muraglia di camicie nere - e quella di Don Giulio - lo sapete - fu una delle prime.
Oggi è morto!
Non resta. di lui che la mortale spoglia – contesa alle braccia affettuose delle figlie, del figlio, della moglie e d’ una siepe di parenti, che si stringono intorno alla bara come un mucchio di naufraghi.
L’anima è volata via, verso il cielo, verso altri orizzonti, verso la patria dei buoni.
Che Dio l’ammetta nella perpetua luce!
Pregate!
Ma intanto, dinanzi a salma di questo galantuomo emerito, di questo padre affettuoso, di questo cittadino integerrimo, scopriamoci riverenti, gettiamo sopra di lui i fiori del nostro affetto, l’edera della nostra riconoscenza perenne ed i crisantemi pallidi del nostro dolore sincero.

Signori,

Possiamo dire che un accompagnamento simile, difficilmente si ottiene e scarsamente si merita.
Ha dovuto seminare il Morto grande copia di bene se raccoglie - in questo giorno - si grande messe di lacrime.

Inchiniamoci!

Ed alta echeggi per Lui la voce possente di tutto un popolo, la voce rotta dai singhiozzi della famiglia addolorata, la voce dei sacerdoti, nella preghiera cristiana dicente: «Riposo eterno dona a Lui, o Signore: Requiem aeternam dona ei, Domine.»
Arciprete ERNESTO GLIOZZI

*Grajan d’Aste partecipò alla Disfida di Barletta (1503) e fu ritenuto da Massimo d’Azeglio, un traditore, accusa recepita nel ventennio fascista e da Alessandro Blasetti nel film Ettore Fieramosca (1938). 

Il testo dello zio Ernesto il vecchio con tutta la sua drammaturgia, letto oggi suscita, nei più, ilarità, tuttavia esso è una testimonianza di un'epoca difficile da rimuovere.





 

lunedì 2 giugno 2025

Salita al Cielo - True Stories about Amalia Gliozzi (1925/2025)



Quando nella primavera del 2011 la zia Amalia scese per l’ultima volta la scala che vedete nelle immagini d’apertura, questo blog, allora daplatìaciurrame, non aveva che pochi mesi di vita e scarse speranze per il suo avvenire. Non risalì più quelle gradinate ed ora la casa è in declino. Un ingresso di legno, l’entrata storica, ed un garage nel Vico San Nicola; un portoncino in alluminio verniciato nel Corso San Nicola divenuto ingresso ufficiale da quando la Casa è stata ristrutturata. Chi vi passa va sempre di fretta, pedoni, SUV e scooter. Solo le signore che vanno a messa ricordano che in quelle mura abitava l’ultimo parroco nato e vissuto in paese, passed away nel giorno della Candelora del 2008. Lo stesso destino implacabile si è accanito contro balconi in ferro battuto e ghisa, scoloriti avvolgibili in plastica color ocra, e infissi in alluminio. Assurda la cronaca di quando un plotone di GIS, mimetizzati, sfondarono la portafinestra che dà sul Vico San Nicola looking for gallerie e bunker che si dipanano per il paese alla volta di Bovalino. Spaventarono a morte la zia e confusero di più lo zio Ernesto sulla missione affidatagli da Dio Stesso. Persone addestrate che pensavano di essere Joel Mc Crea in Wichita (1955) di Jacques Tourneur, invece non erano altro che Cuck Norris in una irritante fotosensibile emulsione di Menahem Golan. State calmi ora.
Tutta questa fantasiosa introduzione serve a un serial, come va di moda oggi, di pubblicazioni per commemorare il centenario della nascita della zia Amalia (1925 – 2017), l’otto agosto prossimo venturo.





 




martedì 6 maggio 2025

L'ascesa [Larisa Shepitko, 1977]

Ecco, Luigi. Ho terminato la traduzione e la sottopongo alla sua attenzione. L'architettura formale è molto complessa e lo stile involuto, quasi enigmatico, ben si attaglia all'argomento: l'elogio è sottile e oscuro, evidentemente riservato a spiriti eletti, in grado di cogliere il senso riposto dei riferimenti sottesi. Nella resa ho cercato di mantenere la massima fedeltà nei confronti del'originale, anche a costo di risultare a mia volta poco chiaro



Ode

Salve, Divinità del Tevere, creata

In questo giorno, mai ricordato, in cui

Vedi gli anni di Pietro, e salve ancora,

O Sommo dei Devoti!

I popoli che vedono questo giorno esultano,

Poiché credono che proprio allora per Te

Trasformi le lacrime in riso, e in alma

Pace la guerra.

Tu per cinque lustri illimitate,

Barbaramente preparate contro tanti figli,

Nel corpo a malincuore sopportasti tollerante

Nel cuore fatiche.

Donde tanti eventi, se non per il fatto che fosti

L’integro custode delle Tradizioni e della Fede?...

Che tu insegni con la tua parola e la tua penna accorte,

Con la morte proteggi!...

Di qua ferve la Potenza di questo secolo putrido,

E ferve il Principe che giace nelle Tenebre,

Stridono con i denti e stolti tentano

Di rovinare il Sacro[1]!

Ma contro la Fede potranno pochissimo

Le porte degli Inferi, come un’alta canna,

Subito, anzi, spezzate periranno,

Testimone il Maestro.

Come il cane morde la pietra gettata,

Quando, rabbioso, non può mordere la mano di chi gliela scaglia,

Così fanno anche quelli che vedono il dono della Fede,

Ma non possono toccarlo.

I perfidi insultano il trono di Pietro e quella

Che in tutto il mondo è venerata con pia devozione,

La tua vecchiaia, la insultano tra la gente,

Dicendo il falso!...

E Dio stesso, per confondere gli ingiusti,

E garantirti di nuovo cari fedeli,

Questo Sole con nuova e insolita luce

Fece sorgere.

L’ascesa al soglio in questo giorno manifesta al Mondo

Che regni col cuore, con l’anima, sui tuoi,

Che s’impegnano tutti insieme per pagare il tributo

D’un tenero amore.

Da qui celebrano felici la tua vecchiaia,

Ti salutano a gran voce, con le mani piene

Di corone il seggio reale del duplice diritto[2]

Ornano di fiori.

Testimonino la loro gratitudine per un favore così grande,

Di qui si dirigono in chiesa e chiedono calorosamente

Che il Signore almeno fino a un secolo di vita

Ti protragga gli anni.

Li protrarrà!... verrà il tempo in cui i ribelli

Tristi vedrai coi tuoi occhi

Implorare il perdono ai tuoi piedi, con la fronte

Cosparsa di polvere.

O Padre benevolo, gioisci di una grande felicità,

Dio prepara allori trionfali[3]

Per la nave dei misteri e per te che la governi,

Percossi i flutti[4].

Allora la gioia sarà piena per il popolo e per Te,

Che l’avrete ottenuta, con lo stupore delle persone,

Allora “PIO NONO” e “salve” ripeteranno

Entrambi i Mondi!

………………………………………………………………………………………………………………......

Vincenzo Fragomeni, Canonico Penitenziario della Chiesa Cattedrale di Gerace

 

Il celeberrimo Don Antonio Pujia, Arcipresbitero di Filadelfia, una volta che ebbe letta quest’Ode, onorò molto l’autore, che era un suo Amico, con i seguenti versi, composti secondo lo stesso schema metrico:

Modulando la strofe saffica, o amico,

Prepari innumerevoli allori,

Oh! voglia il cielo rendere realizzati

 Gli auspici formulati.

La Volontà della Provvidenza divina, del Vecchietto sacro che indossa l’emblema della dignità sacerdotale,

Che conserva le chiavi del fedele Pietro,

Finché supererà i colpi ostili

Protrarrà l’esistenza[5].



[1] Il punto dopo Sacra andrebbe eliminato per recuperare il senso del periodo, che così torna (stolidi, nominativo plurale maschile, si riferisce sia a Potestas che a Princeps e la concordanza viene rispettata). Un’ipotesi più indolore potrebbe essere quella di tramutare il punto in virgola, anche se in linea di principio qualsiasi modifica al testo tràdito per me risulta sempre dolorosa. Notevole la frequenza delle iniziali maiuscole, che ho cercato di mantenere, compatibilmente con le esigenze della traduzione.

[2] Chiaramente umano e divino.

[3] Endiadi.

[4] Le virgole nel testo sono un po’ libere, ma questo è il caso più particolare: nell’ablativo assoluto fluctibus ictis, stando almeno a questa dispositio verborum, non dovrebbe esserci alcun elemento separatorio.

[5] Ho mantenuto la disposizione dell’originale latino, ma in realtà il periodo andrebbe riordinato nel seguente modo, per una sua migliore fruibilità: «La Volontà della Provvidenza divina protrarrà l’esistenza del Vecchietto sacro che indossa l’emblema della dignità sacerdotale e conserva le chiavi del fedele Pietro, finché supererà i colpi dei nemici».


La traduzione, le note, come l'epigrafe iniziale, sono del Prof. Arduino Maiuri docente di latino e greco presso il Liceo Classico Cornelio Tacito di Roma e dottore di ricerca in Filologia greca e latina e Storia religiosa presso la Sapienza Università di Roma.

Il Canonico Vincenzo Fragomeni (16 dicembre 1814 - 10 maggio 1884), geracese, compose l'ode in occasione del faustissimo giorno 23 agosto 1871 in cui Pio IX raggiunse gli anni ed i giorni del supremo pontificato di San Pietro in Roma.

Don Antonio Pujia (Filadelfia, 1818 -1886), fu arciprete di Filadelfia (VV)

Il documento originale apparteneva al sacerdote Prof. Rosario Oliva di Platì, ceduto dallo stesso ad Ernesto Gliozzi il vecchio.

Questo post è un'occasione per ricordare Larisa Yefimovna Shepitko (1938 - 1979) "one of the most prominent Soviet filmmakers".
 

sabato 26 aprile 2025

La forma dell'acqua [Guillermo del Toro, 2017]

IN CALABRIA È TORNATA LA PIOGGIA
La tragica sorte di Platì
un paese destinato a sparire
E come Platì, spariranno sotto le frane Mammola, Caulonia, Grotteria, Africo e anche S. Caterina d’Aspromonte se non si iniziano lavori di grande portata. 

DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE

 REGGIO CALABRIA, 7

  Per farsi un’idea dei disastri che l’alluvione ha provocato in Calabria, bisogna andare a Platì.
  Non è facile raggiungere, Platì un piccolo presepio di seimila anime a trecento metri sul mare, e annidato in una gola di montagna, ma è interessante andarvi, prima perché, come vi dicevo, i danni dell’alluvione sono stati, in questa zona enormi, poi perché a Platì, come in tutti questi paesini di montagna, che vivono sempre nel tragico presentimento di una sciagura, si trova la Calabria, la più semplice e la più rude, quella che in fondo è la più vera e dove il tempo pare si sia fermato in una estatica contemplazione degli avvenimenti i quali si seguono per loro conto senza che queste popolazioni si affatichino a rincorrerli.
  Andiamo dunque a Platì. Il treno ci porta sino a Bianconovo. Da Bianconovo a Bovalino – 9 chilometri – la linea è interrotta per il crollo del ponte.
  Nei primi giorni si trovavano pronti a Bianconovo dei camion e dei calessini che si incaricavano di eseguire il trasbordo, non avendo le ferrovie dello Stato provveduto ad istituire un qualsiasi mezzo che raccogliesse i viaggiatori; ma da qualche giorno un povero diavolo, più per bisogno di fare qualche soldino che per amor del prossimo, ha tirato fuori da chissà mai quale deposito di cose fuori in uso, un vecchio arnese che un tempo doveva esser stata una corriera. Del resto date le condizioni della strada che bisognava percorrere essa è ancora in buono stato.
            Spettacolo desolante
  La corriera ansima, traballa e pare che voglia rovesciarsi ad ogni scossa. Ai lati lo spettacolo comincia a diventare desolato: le campagne sono ridotte ad un letto di torrente e, in qualche punto, il rilevato stradale è stato asportato dalle impetuosità delle acque. Il Genio Civile ha provveduto a costruire due passerelle ma esse non sostengono più di tre tonnellate per cui per rendere più variato il viaggio, bisogna scendere dalla corriera due volte e fare, per due volte, qualche centinaio di metri a piedi, cercando di evitare i materiali di risulta ed il fango che vi giunge sino alle caviglie.
  Giunti a Bovalino i viaggiatori che debbono proseguire per Taranto trovano, quando Dio vuole, un treno; ma per Platì che è nell’interno non c’è altro mezzo che scegliere che l’automobile. Ed anche qui bisogna raccomandarsi a Dio e all’autista perché la strada è spesso interrotta da frane ed i monti che la fiancheggiano hanno tutta l’aria di voler, da un momento all’altro, giocare un brutto scherzo, che potrebbe essere per esempio quello di lasciarvi cadere sulla testa dei grossi sassi che sembrano a stento sostenuti dalla roccia.
  A Platì troviamo, come accade in tutti i disastri qualcuno che è sempre pronto a fare da guida e ad enunziare le distruzioni.
  Più che il dolore in questa gente ciò che colpisce è la prostrazione. Platì ha il triste primato dei morti: 15 su 85 che si sono avuti in provincia. La nostra guida ci mostra il torrente che ha operato tanti danni: un filo di acqua che scorre ribollendo tra il fango e le pietre. La gente di Platì si chiede come sia stato possibile ad un torrente così magro e di solito tanto tranquillo di infuriarsi in quel modo: eppure è un fenomeno naturale di questi torrentelli a breve corsi in pendio rapidissimo.
  Essi si impennano in un baleno e già dalle sorgenti prima di defluire a valle acquistano una violenza spaventosa così da riversare milioni di metri cubi di acqua nell’alveo che poco prima era asciutto o percorso da un rigagnolo.
  In tal modo si spiega come in queste alluvioni vi sono stati dei contadini che, mentre attraversavano col somarello il torrente ancora asciutto, investiti dalla furia delle acque non hanno fatto in tempo a salvarsi e sono annegati: perché data la tortuosità di questi torrenti e la rapidità con la quale si sono ingrossati, quei contadini hanno avuto sentore della piena quando essa era già vicinissima, come se d’improvviso si fossero spalancate due paratie e, nel loro varco fosse apparso l’enorme mostro delle acque che si avviava verso il mare. Qui usano chiamarla le «teste del torrente» ed esse sono caratteristiche dei fiumi del torrente.
          Case nel fango
  Se ci guardiamo intorno vediamo il paese o la parte del paese che è rimasta in piedi non sono che povere cose che stringono il cuore, e interamente circondate dal fango: il fango subito dopo l’alluvione era così alto che non permetteva di entrare nelle case.
  Ora nel paese il fango è stato in gran parte rimosso ma dove erano i seminati nessuno ha pensato di toglierlo. Sarebbe una pazzia il tentarlo; il fango ha inghiottito tutto: agrumeti, frantoi, un oleificio di cui non si vede più nulla; anche una piccola centrale elettrica che era stata costruita ad opera di un privato è andata distrutta ed il paese è rimasto al buio.
  Tra qualche ora mentre le ultime luci avranno abbandonato la valle, Platì non avrà più nulla che ricordi la vita.
  Anche il sonno dei morti a Platì non è stato rispettato: il mostro delle acque ha attraversato il Cimitero, lo ha sommerso e quando l’acqua si è ritirata si sono visti – o spettacolo pieno di orrore – tibie, femori, crani che la corrente portava alla deriva; e i vecchi resti umani si mescolavano ai morti recenti. Oggi la pietà dei rimasti ha tentato di ricomporre le loro povere ossa nei loro avelli.
  E questa è la tragica sorte di Platì un povero paese che come Mammola, come Caulonia, come Grotteria, come Africo, è destinato a sparire dalla faccia della terra   perché sotto di lui il terreno frana e slitta verso una corsa paurosa alla morte: ed è la sorte di S. Caterina d’Aspromonte che, oltre ad avere perduto l’acquedotto, ha avuto quasi tutte le case distrutte ed è sotto l’incubo di due frane che minacciano l’abitato: la sorte di Condofuri anch’essa in pericolo per una frana: la sorte di tante piccole frazioni dove, se ricomincerà a piovere, comincerà a farsi sentire il pericolo dei torrenti in piena. È una situazione che di giorno in giorno appare più angosciosa e allarmante.
 Da Roma giungono notizie sul fervore col quale si formulano progetti e disegni di legge, decisioni e programmi; ma i calabresi alzano le spalle. È un pessimismo indubbiamente non giustificato o per lo meno prematuro. Ma come volete dare la croce addosso a questa gente se sorride sentendo parlare di miliardi che saranno spesi per la Calabria? Il calabrese non conosce la ribellione: secoli di sottomissione lo hanno abituato ad essere cupamente rassegnato, ma non apre facilmente il suore alla speranza. La sua stessa storia gli ha insegnato a non credere al dilà di ciò che vede e tocca con mano.
            Si aspetta un miracolo
 Ed allora? Solo un miracolo potrà rendergli la fiducia, la speranza che i suoi paesi saranno assicurati stabilmente alla terra ed i fiumi apporteranno prosperità, invece di essere un pericolo di morte; e il terreno tornerà ad essere umido ed acre e idoneo a ridare i suoi frutti. Questo miracolo sarà possibile se il problema della Calabria sarà guardato con occhio diverso e con decisa volontà d avviarlo alla soluzione. Io ricordo di aver veduto lasciando Platì, due donne che scendevano a valle. Si erano caricati sulle teste, ciascuna di esse, un materasso ed una coperta e camminavano l’una rasente l’altra con la stessa grazia che, di solito, si riscontra in loro quando tornano a casa portando le anfore e cantando. Lasciavano il paese ed andavano a chiedere un posto per dormire a chi aveva la fortuna di possedere una casa. Si sono fatte appena da parte per lasciar passare la nostra automobile ma non si sono nemmeno voltate ed hanno proseguito senza chiedersi se da noi potesse venire loro un aiuto.
 Questa tragedia di sentirsi soli è il grande sconforto nel quale gli uomini possono cadere. Ma, purtroppo. È una realtà in questi paesi che non hanno più niente che li avvicini alla vita; dove nemmeno il sonno dei morti è rispettato ed anche l’acqua, questa grazia di Dio che dovrebbe essere la ricchezza dei paesi, si trasforma in un castigo.
 Questa sera ha ricominciato a piovere e la pioggia, se dovesse durare, renderebbe più angosciosa la situazione dei paesi colpiti; la situazione soprattutto degli sfollati ai quali non si è potuto dare, né si potrà dare per adesso, una sistemazione conveniente:
          Vittorio Ricciuti
IL MATTINO, 8 novembre 1951


Questo pezzo, già citato da Toto Delfino*, lo devo alla solerzia di Salvatore Carannante, che si è presa la briga di andarlo a stanare presso la sede de IL MATTINO a Napoli.

 *https://iloveplati.blogspot.com/2011/10/have-you-ever-seen-rain-creedence.html

    https://iloveplati.blogspot.com/2018/09/riders-on-storm-doors.html




 

venerdì 11 aprile 2025

FESTEN [Thomas Vinterberg, 1998]


Ernesto Gliozzi il giovane
12 aprile 1915