lunedì 15 marzo 2021
A Dio piacendo [di Filippo Altadonna - 1996]
Carissimo don Ernesto
sabato 13 marzo 2021
È permesso maresciallo? - Blood Brotherhoods
(…) non si
può non ricordare che la memoria popolare ci ha tramandato come figura simbolo
della repressione fascista contro la malavita calabrese quella del maresciallo
dei carabinieri Giuseppe Delfino. Complici lo zelo del figlio Antonio497 e un veloce accenno in un racconto di Corrado Alvaro498, si è costruita di lui un’immagine leggendaria e singolare:
profondo conoscitore dei paesi aspromontani, sembra, infatti, battesse la
campagna travestito da pastore per mimetizzarsi e scovare i latitanti,
guadagnandosi il soprannome di “Massaru Peppi”. Giuseppe Delfino non era
iscritto al PNF e, dal modo in cui se n’è tramandata la memoria, i suoi arresti
sembrano più iniziative individuali che misure repressive inserite in un più
ampio contesto di lotta contro la criminalità. Ciò ha creato nell’immaginario
collettivo l’idea di una figura eroica, ma anche controversa, come traspare,
per esempio, dal famoso episodio secondo il quale “Massaru Peppi”, nel 1940,
avrebbe preso accordi con il boss della Locride, Antonio Macrì, affinché non si
verificassero incidenti durante i festeggiamenti della Madonna di Polsi,
tradizionale momento di riunione dell’intera Famiglia Montalbano e di
esecuzione delle sentenze del tribunale di Omertà. Giuseppe Delfino, dunque,
sembrava più uno sceriffo che coordinava e gestiva la pubblica sicurezza con
iniziative individuali e contingenti che un uomo delle istituzioni. Lasciando
da parte la leggenda e i racconti popolari, e basandoci sui pochi documenti a
disposizione, viene fuori che Giuseppe Delfino fu sicuramente attivo nelle
indagini che portarono alla scoperta delle associazioni a delinquere della
Locride e della zona di Platì, ma altre figure, come e più di “massaru Peppi”,
sono state protagoniste dell’azione repressiva del periodo fascista, senza,
però, sviluppare alcun profilo pubblico.
(…)
il
maresciallo Giuseppe Delfino, “massaru Peppi”, nel 1940 prese accordi con la
picciotteria per evitare spargimento di sangue nei giorni della festa della
Madonna di Polsi; il referente criminale di questo accordo fu proprio il boss
di Siderno, che in cambio ottenne la certezza di una certa impunità. Fu in
quegli anni che Antonio Macrì si arricchì notevolmente, gestendo il racket
delle protezioni e il mercato nero nella locride.
PER SAPERNE DI PIU’
- Corrado Alvaro, Il canto di Cosima, in Id. L’amata alla finestra, Bompiani, Milano 1958.
- Cfr. Giovanni Melardi, Massaru Peppe sequestra il codice della “ndrangheta”, in «Parallelo 38. Settimanale politico d’attualità», n. 3, a. XII, Reggio Calabria, 27 gennaio 1973, pp. 16-17. Enzo Ciconte, Ndrangheta dall’unità a oggi, cit. pp. 231-236.
- Corrado Stajano, Africo. Una cronaca italiana di governanti e governati, di mafia, di potere e di lotta, Einaudi, Torino 1979, pp. 37-38. Cfr. anche John Dickie, Blood Brotherhoods, pp. 346-349.
- Vasta associazione a delinquere, «Cronaca di Calabria», 08 dicembre 1927. Da Platì. Un maresciallo dei carabinieri che si fa onore, «Gazzetta di Messina e delle Calabrie», 03 aprile 1927.
- Il profilo criminale di Antonio Macrì è ricostruito nella sentenza del Tribunale di Locri emessa contro gli affiliati tratti in arresto in occasione del summit di Montalto del 1969, interrotto dall’irruzione della polizia.La mafia a Montalto. Sentenza 2 ottobre 1970 del Tribunale di Locri, Reggio Calabria. 1971. Su Antonio Macrì si veda anche John Dickie, Blood brotherhoods, cit. pp. 356-358 e sulla sua attività nel secondo dopoguerra cfr. i vari riferimenti in Id. Mafia Republic..
Fabio Truzzolillo, Fascismo e criminalità organizzata in Calabria, Scuola di Dottorato in Storia, Orientalistica e Storia delle Arti, Università di Pisa, seduta d’esame 23/10/2014.
mercoledì 10 marzo 2021
martedì 9 marzo 2021
Il cavaliere implacabile [di Allan Dawn- 1954]
In paese si respirava un clima diverso.
I primi reduci erano tornati dalla prigionia. Si formavano le camere del lavoro e monsignore, con l’eterno cappello a tre spicchi con pompon viola, organizzava l’azione cattolica. Quella sera al circolo, come d’incanto, c’erano tutti. Il vecchio conte declassato dai pignoramenti e dalla sifilide, Don Giacinto lo speziale che preparava purghe su ordinazione anzi su prescrizione del cavaliere Trifala. Una vecchia radio «Allocchio Bacchini», grande come un armadio gracidava bollettini di guerra mentre mastro Pasquale l’anarchico dall‘altra parte della piazza al numero degli aerei dell’Asse abbattuti ripeteva sul filo delle labbra; pochi, sempre pochi! Trifala teneva conversazione. Amico di un grosso gerarca era diventato il despota della zona. I rapporti aumentavano ogni giorno sui tavoli dei gerarchi ed i comandanti la stazione dei carabinieri duravano lo spazio di un mattino.
Di notte andava personalmente a controllare in una fetida baracca di ex terremotati del 1908 due operai antifascisti piombati dal nord per il soggiorno coatto. A Reventino fu destinato Massaro Peppe. Le lettere anonime infoltivano il tavolo. I carabinieri non avevano tregua.
Ma quella sera afosa d'agosto dal vicolo delle Monache sbucò un uomo mascherato che assestò con un nodoso bastone un preciso fendente sul capo di Trifala.
La testa si apri a melograno. Un fuggi fuggi generale. Il vecchio medico Zucco mentre iniziava a suturare le ferite fu interrotto dall'arrivo di Massaro Peppe che provvide a reggere il lume a petrolio tra i lamenti del cavaliere.
In paese la notizia si sparse come un baleno. II commento più benevolo era «finalmente hanno rotto la cornatura al cavaliere». I giovani avanguardisti con il fazzoletto azzurro ed il medaglione con la scritta «se avanzo seguitemi» tennero un raduno dopo aver riempito le
giberne di frutta rubata nell’orto del povero Ceo. Mastro Pasquale al suono della «Comparsita» da un vecchio grammofono, ingurgitava sulla soglia l'o1io di ricino. Tutto
d’un fiato e senza tapparsi il naso. Iniziarono le indagini.
Arrivarono i panciuti gerarchi e venne pure i1 procuratore dei re accompagnato da don Pietrino, il cancelliere. Ma non c’era nulla da verbalizzare. Con scrittura a svolazzi sul fascicolo si scrisse come un’epigrafe: ad opera d'ignoti.
Le lettere anonime finirono d'un colpo ed il podestà smise gradatamente di occuparsi di politica anche perché le sorti dell‘Impero volgevano al termine. I vecchi fascisti aspettavano i cambiamenti per tornare a comandare sotto l‘egida dei partiti.
Dalia camicia nera al saio intero.
Vent‘anni dopo, a Platì, arriva un generale dei carabinieri. Massaro Peppe è sindaco. L'alto ufficiale che da capitano si era interessato del «caso Trifala» disse all'ex brigadiere: “Nella tua carriera hai scoperto tutti i casi più difficili tranne l’attentato al podestà».
Ed il Massaro Peppe di rimando: «1a testa al podestà gliel’ho rotta io!».
«E l’unica volta — rispose il generale — che non ti posso proporre per un encomio».
lunedì 8 marzo 2021
Donna di rispetto [di Enzo Acri - 2018]
Sono- di E. Gliozzi ed hanno per titolo:
MARIA DI MAGDALO
(A l’amico D. Pasquale Lentini)
Quando, sereno - quale un Nume il biondo
Rabbi acclamato da la turba fu,
Corse la voce pel Giordan fecondo
Narrante la sua fama e la virtù.
Osannando dicea la turba: Il figlio
Di Davide tra noi comparve già
Ha nobile lo sguardo, e non cipiglio,
Ha pieno il labbro di soavità
Ed il Rabbi marciava a la conquista
De’ cuori, predicando la virtù;
Una donna lo vide, a prima vista,
Lo conobbe da lungi: Ecco Gesù.
Su gli omeri la chioma in quel momento
La peccatrice donna abbandonò;
E l`occhio - pieno di faville - spento,
Umile, a terra_ - vindice - appuntò.
E allor che la casa di Simone
A la mensa s’assise il buon Gesù,
Quella donna comparve. Ed il suo nome
Era d’infamia, e la sua vita più....
Ma ciò non monta; ed ora il suo presente
E’ costrizione, massima, umiltà....
Il divino Maestro dolcemente
Le dice: Donna, ti perdono, va....
domenica 7 marzo 2021
Treni strettamente sorvegliati [di Jiří Menzel -1966]
Platì, 15 marzo
Com'è noto gli abitanti della civilissima riviera jonica, sono costretti a spostarsi con la velocità delle lumache sulle rotaie della linea che congiunge Reggio, Locri, Riace eccetera.
Spostarsi per i propri affari con la velocità delle lumache non sarebbe poi il peggio, il peggio sono le conseguenze della velocità predetta: i trabalzoni e gli scossoni poderosi che affliggono il malcapitato viaggiatore per tutta la durata delle corse; le lunghe fermate a tutte le stazioncine possibili e immaginabili, qua per incrociare con un altro lentissimo convoglio, che non arriva mai, là per rifornire di acqua le vecchie caffettiere che con molta fantasia sono state adibite a locomotive. Si impiegano tre ore, spesso quattro, non di rado cinque o sei, sdraiati e sballottati sugli scomodissimi sedili di prima o di seconda classe (forse le F. S. hanno creato i sedili delle loro vetture per delle indossatrici tanto hanno fatto gli schienali severamente perpendicolari ai rispetti “dessoux”!) per scoprire, dopo lo scioccante carosello, che si sono coperti ottanta o novanta chilometri.
Per i paesi della Calabria Tirrenica, sta già realizzandosi il sogno del doppio binario. Per noi ci sono soltanto le vecchie caffettiere che ci manda il Nord munito di elettrotreni.
Un vantaggio forse c'è a viaggiare con le locomotive a vapore: si gusta meglio il paesaggio; diremmo anzi che lo si gusta fino alla nausea. Altri vantaggi: ci si sente molto pittoreschi. Specie quando, scesi dal treno, ci si accorge che i vestiti hanno abbandonato il loro colore primitivo per assumere quello, molto più “chic” del nerofumo. - Poi ci sono gli imprevisti che spezzano la monotonia del viaggio: per esempio, quando uscite da una galleria, in nove casi su dieci c'è nella vostra vettura un novellino che grida: “al fuoco, al fuoco!”, credendo causate da un incendio le innocenti fumate che la locomotiva vi ha affettuosamente inviato attraverso la volta del tunnel!
Gli emozionanti tunnels della linea Jonica!!!
In quei brevi istanti di buio assoluto, succedono le più poetiche cose. Scappatelle “lampo” che si concludono il più delle volte con ceffoni che superano il fragore delle ferraglie.
E la luce non c’è? Si chiederà qualcuno. -
Evidentemente, o gli accumulatori sono mattacchioni, o sono esauriti, o bisogna conservarli integri, perché vadano a illuminare linee meno scalcinate della nostra. Comunque, bisogna riconoscere che così è molto più emozionante.
Avete mai visto un treno fermarsi perché qualcuno chiede un passaggio? Siamo convinti che se le cose procedono di questo passo, lo vedremo fra non molto, sulla linea Jonica.
Della elettrificazione della linea jonica si parlava già ai tempi di Matusalemme; non è improbabile che quest’ultimo si sia occupato personalmente del progetto, in questo caso, siamo portati a credere che Matusalemme sia stato un bel jettatore.
Scherzi a parte, sarebbe ora che le Ferrovie dello Stato si mettessero finalmente di fronte a quello che costituisce un loro preciso dovere. Siamo contribuenti come tutti gli altri italiani e abbiamo il diritto di vedere funzionare i servizi pubblici
Oltreché alla "convenienza” di elettrificare la linea jonica si dovrebbe guardare, anche e soprattutto alla comodità. della tutt'altro che ristretta cerchia di viaggiatori.
Certo che se i servizi della linea jonica funzionassero bene, su un binario doppio, e con la corrente elettrica, i cittadini preferirebbero i treni alle automobili pubbliche.
La nostra, più che una protesta, vuole essere un’istanza perché sia posto fine alla inconcepibile situazione che si protrae ormai da troppo tempo, e che da troppo tempo ostacola il progresso economico dei civilissimi paesi dell'Jonio. Tale istanza è sottoscritta da tutti i calabresi e senza dubbio da tutti i buoni italiani.
MICHELE FERA
GAZZETTA DEL SUD, 16 Marzo 1957
Nota. La vaporiera in apertura è ferma a Bova Sup.
giovedì 4 marzo 2021
Wedding Party - pecorai e bracciali
01.04.1824 = Cutrì
Giuseppe di Domenico - Barbaro Elisabetta di Carmelo
Quando
Giuseppe Cutrì, pecoraio, si presentò davanti all’altare aveva diciannove anni
e per quei tempi era ancora un minorenne. Figlio di Domenico, anche lui
pecoraio, e Francesca Alleva abitava al vico Vallone. Giuseppe era nato il 20
febbraio del 1805. Elisabetta Barbaro di un anno più grande di Giuseppe era
invece una maggiorenne ed era nata il 13 giugno del 1804 da Carmine, pecoraro,
e Rosa Campiti, abitanti “ia Cresiola”. Mentre Giuseppe per il matrimonio il
consenso di entrambi i genitori Rosa aveva solo quello della madre essendo premorto il padre. La notifica del
matrimonio era stata affissa sulla porta del Casa Comunale nei primi giorni di
febbraio dello stesso anno. Davanti al sindaco Domenico Oliva erano presenti
anche: Rosario Papalia di anni quarantotto, proprietario; Michele Oliva di anni
ventidue, civile; Pasquale Romeo di anni trenta tre, bracciale e … il ben noto
a queste pagine Filippo Tripepi. In chiesa con il lauretano parroco apposero la
firma Michele Paplia e Domenico Morabito.
14.07.1824 = La
Zoppa Pietro - Marcellino Elisabetta
Pietro La Zoppa era di Messignadi e Elisabetta Marcellino di Careri. Figlio del bracciale Francesco ed Elisabetta Staleri il primo; di Giuseppe e Anna Callipari la seconda. Pietro ventunenne domiciliato nel paese d’origine, Elisabetta diciassettenne orfana di padre era domiciliata con la sola madre nel corso San Nicola. Le notifiche de matrimonio apparvero agli ingressi delle Case Comunali di Platì e Careri nel maggio precedente. In chiesa erano accanto agli sposi Antonio Zappia e Giuseppe Catanzariti; in Comune: Rocco Mittica bottigaio di anni cinquanta; i falegnami Antonio Calabria di anni quarantacinque e Giuseppe Antonio Caruso di trentacinque anni; il bracciale Pasquale Romeo trentaseienne. A parte il sindaco erano tutti senza alfabeto.
26.07.1824 = Taliano
Francesco di Bruno - Treccasi Elisabetta di Domenico
Francesco
Taliano di Bruno ed Elisabetta Carbone era nato il 2 ottobre del 1803 e faceva
il pecorajo. Elisabetta Treccasi di
Domenico e Francesca Mavrelli era nata il 3 gennaio del 1802. Al momento del
matrimonio la sposa mancava di entrambi i genitori e lo sposo del padre. La
notifica del matrimonio apparve sulla porta della Casa Comunale appena venti
giorni prima. In Comune con loro c’erano gli immancabili Filippo Tripepi e
Pasquale Perri affiancati dal forese di anni trentaquattro Domenico Di Marco e
da bracciale Pasquale Romeo di anni trentasei. In chiesa le firme le apposero
il Sig. Giuseppe Mittiga e Don Francesco Zappia.
Viene
il sentore che Filippo Tripepi e Pasquale Perri stazionassero volentieri
nella Casa Comunale ricavando per le loro testimonianze se non qualche ducato almeno un bicchiere di vino.
In apertura un ritaglio dello sposalizio Maria e Giuseppe del Giotto. Agli sposi è dedicata questa canzone di un gruppo molto seguito sul finire del secolo passato.
mercoledì 3 marzo 2021
Come quel giorno [di Mario Caserini -1916]
L'associazione Etno Culturale SANTA PULINARA di Platì è lieta di annunciare l'evento dell'anno
Siederanno al tavolo dei lavori noti studiosi, scrittori, giornalisti e autorità. Parteciperanno vari Enti Promotori locali e nazionali.
L'evento sarà trasmesso in diretta e in streaming da una nota emittente radio-televisiva.
L'organizzazione si riserva di comunicare per tempo data e luogo dell'evento.
lunedì 1 marzo 2021
La lunga sfida [di Nino Zanchin -1967]
IL
SEMINARIO DI GERACE
RISPOSTA A FRANCESCO PERRI
A
proposito di una lettera dell'autore di "Emigranti" e de "Il discepolo
ignoto", Francesco Perri, pubb1icata di recente su " La voce di Calabria"
(9-10 febbr. 1954), c'è da fare qualche rilievo sia circa l'ispiratore della
lettera (il ben identificabile C puntato) sia circa lo stesso autore.
Circa l'ispiratore
o gli ispiratori della lettera, si rileva come dopo una petizione indirizzata
alla S. Sede, tutta infarcita di buaggini e di argomenti puerili e fatta
firmare o con inganno o con minacce da una buona parte del Clero della Diocesi;
dopo una vile campagna di menzogne e di calunnie condotta da tutto un popolo
contro il suo benefattore, viene ora la lettera dello scrittore, quella che
dovrebbe essere "il suggello ch'ogni uomo sganni", “Roma locuta est" per darla vinta a quei
di lassù. Si ingannano: perché come a nulla son valse quel po' di sciocchezze scritte
maliziosamente e sottoscritte ingenuamente, come non son valse e
non
varranno le calunnie e le minacce degne di tempi ormai tramontati, cosi neanche
la lettera di uno scrittore, per quanto illustre, può dar per vinta una causa
che è molto seria.
Circa l'autore
della lettera è il caso di fermarsi un po' più a lungo.
E ci
vorrà questi consentire, democraticamente, di esporre il nostro pensiero, anche
se Egli siede sull'Olimpo della letteratura e noi ci troviamo le mille miglia
lontani da quello. Perché mentre noi leggiamo con ammirazione e - perché no? - con
orgoglio le bellissime pagine di "Emigranti" o degli altri suoi volumi,
leggendo questa lettera non proviamo altro che una vampata di sdegno per quelle
argomentazioni che egli vuole artificiosamente imbastire.
Ci
parla di dolore e di stupore, il tutto imperniato su sterili sentimentalismi, come
egli stesso ammette. Ci ricorda i suoi studi coronati da successo alla maturità
classica; ma non ci spiega se siano state proprio quelle mura minaccianti
rovina ad ogni soffiar di vento od ondeggiar di terra, o quelle attrezzature
antigieniche a stillargli nella mente il sapere che gli fece onore; se aia
stato il freddo intenso di quei rigidi inverni che faceva scoppiare le mani pei
geloni, se sia stato il trasbordo da una camerata all'altra per ripararsi dalla
pioggia, se quell'acqua allora piovana e che pur si beveva, o se piuttosto le
scorpacciate, fatte alla chetichella, di roba che i buoni papà portavano nelle
capaci bisacce per supplire alla scarsezza di nutrimento, ad aguzzargli l'ingegno.
Ma se il merito è stato non dell'edificio, ma degli uomini che vi abitavano, non
ci spiega neppure se gli ingegni come Francesco Sofia Alessio che tanto decoro
diedero al Seminario in tempi remoti, siano piante esotiche proprietà riservata
di Gerace, e per di più Superiore. Se vuole, il nostro Perri, i ricordi della
sua infanzia li consacri in un libro, ma li tenga esclusivamente per sé, come sopramobili
o anticaglie. Noi abbiamo altri ricordi e non tutti lieti. Ricordiamo le
tragiche Odissee dei nostri genitori quando venivano a trovarci, percorrendo
strade impervie a dorso di mulo e, sorpresi dalla tempesta, a stento
rientravano a casa.
Ci
parla di stupore, quando se mai lo stupore dovrebbe esser nostro per il suo scritto.
Gli potremmo chiedere di lasciare che i fatti nostri ce li vediamo noi; ma non
lo facciamo appunto perché dice di essere e rimanere “notoriamente un uomo di sinistra",
di quella parte, cioè, che decanta di andare contro i ricchi e a favore dei
poveri, salvo poi a scriver lettere con cui si difendono interessi di ... caccia
riservata. Di quella parte, cioè, che accusa la Chiesa di spirito conservatore,
di attaccamento alle tradizioni, salvo poi a consigliare questa Chiesa a
restare attaccata a quattro mura o a diciotto colonne, siano pure pregevolissime,
siano pure del tempio di Persefone; a restare attaccata lì, perché Gerace “possa
vivere del suo Duomo e del suo Episcopio". Di quella parte, cioè, che dice
di andare incontro ai miseri, salvo poi a tentare di farceli dimenticare tanti indigenti,
tanti derelitti, tanti ignoranti che solo la paterna sollecitudine di un
Vescovo in una Diocesi può scoprire per porger loro aiuto; salvo poi a consigliarci
di educare i giovani al sacerdozio in un regno di beatitudine ... solitaria, dove
nulla si ode, nulla si vede di quello che è il gemito di una umanità
sofferente.
Ma
sarebbe troppo ingenuo non pensare che lui, uomo di sinistra, forse questi
consigli vuol dare per tentare di staccare il Clero e i fedeli dal loro Vescovo,
per quella famosa legge romana, che torna di moda in qualche regime: divide et impera;
per far sì che il Vescovo si limiti "ad officiare nella stupenda solennità
dell'antica Cattedrale normanna", pronto a dargli addosso se insieme con il
fasto liturgico egli voglia accoppiare una provvida operosità civica.
Fa
male il Perri a non conoscere il nuovo Vescovo; venga a conoscerlo, magari quando
nella torrida estate egli vorrà deliziarsi della frescura del suo mare Jonio; e
vedrà qual nuovo soffio di rinascita spirituale e materiale aleggia in questa
ancora, purtroppo, infelice Diocesi. Venga con tutti i suoi compagni a vederlo
questo Vescovo, seduto all'altare, che chiama ad una ad una le Parrocchie della
Diocesi, impazienti di offrire il loro obolo, a volte modesto, a volte grandioso
nel sacrificio, per la ricostruzione materiale e morale del Seminario e soprattutto
degli alunni del Seminario. E si persuaderà che non è vero quello che scriveva l'Unità
su pretesi contrasti tra Clero, Azione Cattolica e Vescovo nella Diocesi.
E
sorvolando gli insulti lanciati dal nostro scrittore contro il Clero, tacciato
di inerte, di immorale e di poco spirito evangelico (forse tale perché si formò
in quel seminario che egli decanta e sedette a fianco a fianco con lui), vorremmo
pregarlo di portarci altri solidi argomenti, se ne ha, a favore di Gerace; perché,
come ben dice egli stesso, "con i soli argomenti sentimentali non si
difende una causa".
Doppio
torto arreca al Geracesi che egli vuol difendere perché non adduce validi
argomenti; e perché sapendo di non averne, crede di poter avallare con la sua
rispettabile firma i vani sforzi di un'ignobile
cricca
di sfruttatori.
E. G.
Questa lunga lavata di capo di Ernesto Gliozzi il giovane allo lo scrittore di Careri ebbe un
seguito molti anni dopo, nell’anno della contestazione, quando lo zio, all’epoca
parroco della cittadina che diede i natali al romanziere, ritornò sui suoi
passi:
“Ebbi la sorte di entrare in polemica con Lei in occasione del
trasferimento della sede Vescovile da Gerace a Locri, verso il 1952, con
un articolo pubblicato su un giornale di Reggio, che voleva rispondere ai Suoi
ben apprezzati argomenti in pro di Gerace; Lei scriveva per nostalgia del luogo
in cui aveva trascorso buona parte della Sua giovinezza io rispondevo guardando
alla realtà dei fatti che imponevano la soluzione di quel problema per cui si
batterono Mons. Giuseppe Piccolo da Mammola ed altri, fin dal primi lustri del
nostro secolo. Lei credette allora di polemizzare con il Suo ex compagno di
scuola e non con il nipote, per cui chiuse la replica con un generoso atto di
comprensione”.
Lo
stesso scrittore ridimensionò i fatti ricordando anche il suo compagno di
Seminario, Ernesto Gliozzi il vecchio.
Reverendo e Caro Arciprete, la Sua lettera, che ha fatto rivivere in me il ricordo di suo zio e della mia adolescenza nella camerata dei mezzanini (che strane denominazioni allora nei nostri seminari!) e la figura minuscola, arguta, vivacissima di Ernesto Gliozzi che aveva sempre pronta la battuta spiritosa ed anche tagliente, quando occorreva, mi ha sinceramente commosso. Mi ha anche fatto ricordare la nostra polemichetta, nella quale Ella portava la opinione del clero e magari anche delle autorità ecclesiastiche, mentre io parlavo avendo nel cuor la nostalgia della grande cattedrale normanna, e lo stato d'animo degli antichi uomini di chiesa, che amavano la solitudine e la elevata meditazione. I poeti non sono mai stati uomini politici!
In apertura un'immagine d'epoca del Duomo geracese.
Il motivo della reprimenda è qui:
https://iloveplati.blogspot.com/2016/12/lultima-sfida-reg-edwin-l-marin-1951.html
la
corrispondenza Perri – Gliozzi qui:
https://iloveplati.blogspot.com/2016/04/la-corrispondenza_10.html
https://iloveplati.blogspot.com/2016/04/la-corrispondenza.html
https://iloveplati.blogspot.com/2016/04/la-corrispondenza-reg-giuseppe.html