NATILE (f.c.) - Grave e costante
pericolo sulla statale 112, diramazione Aspromonte, che collega Natile Nuovo a
Bovalino, divenuta, ormai, il “mattatoio” degli audaci per il completo
disinteresse dell’Anas. Infatti l’Azienda statale, incurante delle proteste,
non ha ancora provveduto, a distanza di otto mesi, a rimettere, sul ponte
“Giulia”, le ringhiere laterali di ferro, abbattute, nel febbraio scorso, da
un’autovettura, precipitata nel sottostante torrente. Il vento ha spazzato via,
da tempo, le striscette di nailon che i cantonieri avevano, frettolosamente,
legato ai “resti” dei muretti per segnalare (si fa per dire) il pericolo!
Quindi c’è ormai … via libera a possibili altri incidenti, dovuti anche alla
scarsa visibilità nella curva e alla
mancanza di segnaletica.
PLATI’, 28 –Avevano avvisato persino Michele Giamba a tenersi pronto
con il suo tamburo di pelle d’asino a suonare il tam tam della contestazione. Ma
Michele Giamba, preso dai suoi studi danteschi, si è addormentato.
Avrebbe fatto senza dubbio la parte di Fronte di Rocca che capeggiava i
careresi quando al grido di “viva il re, viva la regina“ come dice Francesco
Perri, andavano ad occupare le terre di
Ancona, Carruso, Angelica e Flavia usurpate dai grossi e pingui agrari.
Qualcuno avrebbe voluto vedere come nel dipinto “Fragalà” di Ernesto Treccani
la scena delle occupazione delle terre del Marchesato.
Ma questo non è successo.
All’alba quando l’ultima stella scompariva dietro il Calvario dai
vicoli dell’Ariella al Vignale, al Giardinello sino alla chiesuola si sono
trovati tutti in piazza. C’era da scalare l’Aspromonte, dall’aria un po’
corrucciata, con la siepe di nubi a grondaia su Monte Scorda.
Si riempirono i camion, ogni mezzo si stipò come nei vecchi autobus di
linea, quando, nel secondo dopoguerra, le persone si accovacciavano persino sul
tetto. Si utilizzarono persino gli asini, mancò all’appuntamento soltanto uno,
il più vecchio, falcidiato tempo fa, ahimè, dai colpi di mitra e lupara.
L’appuntamento era al Fonte di Cromatì sulla statale 112 impropriamente
detta strada. Qualche buontempone intrecciò con oleandri, ginestre e mirti una
corona con la scritta “ANAS”. Fu buttata fra la commozione generale nel
ruscello sottostante. La commemorazione fu significativa. Quindici anni fa il
ponte fu coperto sa una montagna di detriti a qualche giorno dal collaudo. L’ANAS
era arrivata, come si disse, a “tumulazione avvenuta”
Al Passo della Rondinella 600 persone erano precedute dalla ruspa
rumorosa di Peppe “u maistru”, allegro e scanzonato. Spesso si ride per non
piangere. Dietro con badili e picconi tutti gli altri ad aprire al traffico una
strada statale su cui da tempo l’ANAS aveva steso un certificato di morte. Un
amara storia di intrallazzi, beghe, progetti scomparsi e riapparsi come nel
cilindro del più bravo prestigiatore.
Questa volta a Platì hanno detto basta. Si sonno sostituiti alle
carenze dello stato, hanno offerto le proprie braccia per garantire un pubblico
servizio che una burocrazia borbonica e lontana un anno luce ha sempre negato.
La strada statale 112 di Aspromonte è persino scomparsa dalla più
aggiornata cartografia europea. Chiusa al traffico dopo l’alluvione del 1951,
fu ripristinata per garantire soltanto un sicuro rifugio a branchi di capre e
pecore allo stato brado che dimoravano fra i colpi assordanti dei clacson degli
automobilisti. È stata sempre considerata come il termometro della strafottenza
burocratica e del pressapochismo politico. Una volta si bruciava il municipio o
l’ufficio delle tasse, oggi i cittadini di Platì hanno messo in mostra una
nuova forma civile di contestazione. Ci sostituiamo allo Stato, dicono
contenti.
In due giorni di lavoro si sono fatti miracoli. Le previsioni
catastrofiche di miliardi che si dovevano spendere per ridare una strada
decente ai due versanti dell’Aspromonte sono state smentite. Si è rifatta una
strada con pane e olio. Un pane duro e raffermo, tagliuzzato a dadi, di cui in
platiesi non buttano neppure le briciole. Una lezione di coraggio e dignità che
fa meditare tutti.
ANTONIO DELFINO
GAZZETTA DEL SUD, 29 Luglio
1972
Nota
Bisogna riconoscere che Toto Delfino il paese di Platì lo portava nel cuore. La foto, conservata da Francesco di Raimondo, è pure sua.
ARDORE MARINA – Chiamato dalla fiducia di S. E. il Vescovo di Locri, il
rev. do don Ernesto Gliozzi, che per oltre due anni resse questa Parrocchia, si
è trasferito oggi nella nuova sede per completare il collegio dei canonici.
Non è un vago elogio se diciamo che questa popolazione cattolica,
entusiasta dell’opera cristiana svolta da questo giovane ministro della Chiesa,
è rimasta alquanto turbata, vedendosi privata del suo pastore che ispirò in
tutti illimitata fiducia per serietà e correttezza nella sua delicata missione;
e si augura, pertanto, che il successore
non sarà meno degno di seguire la via tracciata dal bravo sacerdote, a cui
auguriamo migliori progressi ecclesiastici, non mancando in lui il grave contegno
né la vasta cultura.
Il Mattino,1954
Nota. Nella foto lo zio Ernesto, alla sua destra mons. Pierantoni, davanti la chiesa di Ardore Marina, quando reggeva quella cura. Tutto questo perché domani, giorno della Candelora, ricorre l'anniversario della sua salita in Cielo.
Platì 8/06/1961. Funerali di mio nonno Rocco De Marco nato nel
1880 ed emigrato negli Stati Uniti a 18 anni con il piroscafoa vapore ‘ Patria'.
Ritornò in Italia intorno al
1915 con una gamba amputata e camminava con un tutore .
IL TRAPPETO ad ACQUA
Insieme a don Peppino Caruso
(tuppujancu) realizzò di fronte all’albergo della ‘Baggiana’uno dei primi
frantoi ad acqua. L’acqua arrivava incanalata nella ‘mastra’, attraversava la
strada e si riversava nei bicchieri della ruota Persiana,
un’ enorme ruota in legno che, girando, azionava, all’interno del
frantoio, tre pesanti ruote in pietra da cui fuoriusciva l’olio di prima spremitura. Tre enormi presse venivano azionate poi
manualmente dai ‘machinanti’ i quali spingevano i bracci di un albero girevole collegato a delle verticali viti senza
fine.
Da bambino passavo molti pomeriggi invernali dentro questo frantoio al
calduccio di una stufa a legna alimentata anche con la sansa esausta cioè dagli scarti dell’ultima spremitura ottenuti
inserendo all’interno delle ‘sporte’, la poltiglia rimasta nelle vasche delle macine. Osservavo l’arrivo dei
muli carichi di sacchi d’ olive che, in attesa di essere lavorate, venivano collocate provvisoriamente nello ‘zzimpuni’(lo
zimbone) un magazzino di stoccaggio in cui si veniva investiti dall’odore penetrante e piacevole delle olive
mature ogni volta vi si entrasse.
Strumenti di misura dei nostri nonni
Va ricordato che da noi persistevano le vecchie misure del Regno di
Napoli e che le nuove misure adottate dopo la Rivoluzione Francese furono
estranee al nostro mondo contadino.
‘U Cafisu’ dall’arabo Qafiz Un contenitore di 16-17 litri
‘u menzu cafisu’ 8 litri
'u quartucciu’ dalla capacità di 1 litro e mezzo
inoltre,la salma, che equivaleva a 161,297 litri
Nota
Il testo e le foto sono un ulteriore contributo di Rocco De Marco che con zelo ha ricostruito uno dei tanti aspetti
della laboriosità platiota. Il momento della raccolta delle ulive e la
successiva macina scandivano uno dei momenti più attesi, sia per la manodopera
impiegata come anche per il frutto ricavato, che non era solo guadagno ma gusto nonché rito,
legati alla tipicità delle olive, da condividere a tavola, in famiglia, con i
parenti, con gli amici. E tutti sappiamo che l’olio ricavato a Platì era unico,
unicità derivata dal processo lavorativo come anche da fattori concorrenziali
tipici, legati al background di cultura e tradizioni ma anche da determinanti
fattori naturali come aria, esposizione, acqua, humus.
Con piacere abbiamo notato che il segnale di strada interrotta sulla
nazionale 112 è passato dal Km 70+500 al km70+100; ciò vuol dire che ben
quattrocento metri di strada sono stati riaperti al traffico dopo 20 anni dacché
una mina dei nazisti in fuga diede il segnale d’inizio della scissione
geografica e commerciale tra la Piana di Gioia e la nostra terra: Non c’è che
da rallegrarsene con l’ANAS, perché, evidentemente, vuol fare qui le cose per
bene.
Dice un saggio proverbio: Chi va piano, va sano e va lontano.
Se le notizie della TV son vere, al confronto dell’autostrada del Sole,
che in un baleno da Milano ha raggiunto Salerno, e in un altro … baleno di
accartoccia come se fosse di carta pesta, noi abbiamo motivo di star più
allegri, perché sarà tardi, è vero: ma, fatti i debiti calcoli, siamo sicuri
che fra 700 anni i nostri lontanissimi pronipoti potranno finalmente realizzare
i nostri sogni di amichevoli relazioni, di floridi commerci, di piacevoli
ristori tra il fresco dei nostri incantevoli monti: e allora non vi sarà forza
al mondo che potrà più ridurli ( i nostri pronipoti) alle miserevoli condizioni
di oggi, perché la strada 112 sarà riparata tardi, ma bene.
E. G.
Ernesto Gliozzi il giovane
Nota
La foto, conservata da Francesco di Raimondo, appartiene all'archivio Delfino.
Ieri come
oggi, indagando la nostra storia, non si riscontrano grandi opere in prosa,
piuttosto tracimano dalle memorie familiari rime d’amore e di satira, vicende
intime e umane passioni, cantate di chitarra o recitate nelle serate di vino –
di un distico molti platioti erano e rimangono capaci. È un patrimonio
letterario in versi, generato dalle menti più ossigenate: poeta il proprietario
e poeta il suo garzone, il maestro di scuola che non disdegnava il vernacolo;
poeta pure l’analfabeta, anzi, a tratti inversamente proporzionale il rapporto
tra calamaio e altezza delle rime. È sicuramente un capitale, lirico e umano,
non indifferente in cui forse entra in gioco la componente genetica. Certamente
una tradizione che chiede e impone il recupero, per non farla finire. Ieri come
oggi, oggi per domani.
1) Papalia Michele (n. 1933, analfabeta)
Femmina che allo scalino vi sedete E a chi passa lo imitate Lasciate stare chi la sulla miete Che io lo so quello che fate La notte vi coricate con i mariti E il giorno con i visi nascosti
Quando la gallina fa l’uovo al gallo gli brucia il culo
2) Trimboli Rocco (n. 1943)
Guardate gente che successe
Il mondo in peggio cambiò E non si può più pregare a Dio Che il vescovo pure il prete cacciò Il consiglio pastorale che l’ha sciolto, che le regole disubbidì Guardate in questo paese che succede Che l’ Islam vuole incrementare Queste guardate sono cose vere La religione vogliono cancellare
Libera Chiesa in libero Stato, più o meno
3) Barbaro Giuseppe (n. 1947)
Che brutti tempi e che brutte manier Non si conosce più peso e misura Perdemmo la pace, il sonno e la religione Ci albeggia e non sappiamo se ci fa scuro
Mala tempora currunt
4) Perre Francesco (n. 1959)
Paese che Platì tu sei chiamato Stasera vengo a cantarti e a suonarti Ti dico che mi sento assai onorato Dell’accoglienza e del benvenuto Ai piedi della montagna sei collocato E la fiumara ti passa di lato Sono contento stasera e ti dico Che festeggiamo la Madonna di Loreto Terra madre: sangue, suono e divine suppliche
5) Catanzariti Paolo (n. 1974)
È giorno ormai, giorno di Natale, e la mia mente fa giri strani E sento i miei figli parlare, da dove arriva babbo natale E cercano di conoscere quel viso nella gente che vedono passare Io torno indietro con i pensieri di quando ero io ad aspettare Il mio non portava i regali e non veniva neanche a orari strani Il gesto suo mi faceva pensare alle sette di mattina sentivo chiamare E mamma pronta lo faceva entrare
Profumo d’innocenza
6) Perre Giuseppe (n. 1981)
Con passo lento e suono di chitarra Un giovanotto giura il suo amore E spera che si apre quella serranda Così per parlare con i suoi genitori
Serenata d’Ariella
7) Papalia Francesco (n. 1990)
Il castagno nella quercia Il pesco nella prugna Il ciliegio con la compagna L’albero di noce che si bagna Prugne e mandorle con chi vuoi Fichi e nespole con i suoi Ogni cosa innestata Sempre la luna va guardata
Pollice verde, giovani rime
Nota
- Questa traduzione, come l’introduzione, di Michele Papalia, delle poesie
pubblicate qualche post addietro, rende ancor più vigorosa la testimonianza di
un fermento culturale mai spento e che l’Associazione
Santa Pulinara si è fatta carico di conservare e diffondere. Ancora, voglio farvi notare il senso minimalista e lirico di una
quotidianità vissuta in prima persona, trasfusa su un pezzo di carta e diffusa dai
navigatori in rete. LONG LIVE PLATI’!
Con il titolo che vedete in alto viene riproposto un tema
già affrontato in altre pubblicazioni come prequel di questo serial che parte
da oggi. Il soggetto è la Strada Statale
112. Se è vero che le vie di comunicazione sono fondamentali per una
comunità, quella strada per il paese di Platì era tutto. E qui insisto con le
parole di qualche giorno addietro: “sorge il sospetto che quanto sia accaduto a
Platì non fosse che una strategia elaborata altrove, senza tener conto di un
passato che aveva dato lustro all’Aspromonte”. E sì, perché non ripristinando
in maniera definitiva l’accesso alla Montagna i platioti si son dovuti arrangiare
come meglio potevano, esodo e crimine, compresi. Oggi l’ennesima frana di un
anno fa ha sepolto le speranze residue. A Platì i giornalisti giungono per
cercare qualcosa che a loro conviene e che desti l’insana curiosità di lettori
e spettatori fallaci. I veri mali del paese non interessano la Chiesa, la
Magistratura e nemmeno i politici, con o senza scalpo, assisi su comode
poltrone pagate dai contribuenti anche disoccupati.
INTERROGAZIONE AL MINISTRO DEI LL. PP.
CHIESTA LA SISTEMAZIONE DELLA STRADA STATALE 112
Gli onorevoli Catanzariti e Girolamo Tripodi hanno
presentato una interrogazione ai ministri dei Lavori pubblici e per il
Mezzogiorno, per sapere “ se sono a conoscenza del grave, profondo,
giustificato malcontento delle popolazioni di Platì, Bovalino, Benestare,
Careri, Santa Cristina, Sinopoli, Bagnara, Delianova, Cosoleto, S. Eufemia,
Oppido per il mancato ripristino della statale 112, notevolmente danneggiata
dalle alluvioni del 1951; se siano a conoscenza della iniziativa promossa
dall’Associazione turistica di S. Cristina d’Aspromonte, in collaborazione con
l’Amministrazione comunale locale e della energica presa di posizione dei
sindaci dei comuni interessati, i quali chiedono con forza la immediata
soluzione del ripristino della statale 112, motivata da esigenza economiche, sociali,
turistiche e civili.
<<Gli
interroganti chiedono di sapere i motivi per i quali a 21 anni di distanza
un'arteria di così vitale importanza non è stata riattivata, nonostante gli strumenti
legislativi predisposti a seguito delle alluvioni e gli impegni solenni assunti
dal capo del Governo e dai ministri del tempo, in occasione delle loro visite
ai centri duramente colpiti;
«Si chiede inoltre di sapere: se, data la gravità
della cosa, che assume l'aspetto di un vero scandalo, se non ritiene opportuno
accertare le responsabilità per il mancato ripristino di tale arteria in un
periodo in cui opere di maggiore rilevanza stradale sono state portate a
compimento o avviate a soluzione, come le autostrade, i trafori».
<< Gli .interroganti, infine, chiedono di
conoscere lo stato attuale delle cose in proposito dei tempi di realizzazione
di detta strada, non solo limitatamente al tratto non aperto al traffico che va
da Plati a S. Cristina, ma anche in riferimento alle opere di ampliamento,ammodernamento
rettifica curve, lungo tutto il percorso e particolarmente tra Bovalino - Benestare,
Careri, tenendo conto della vitale importanza di una delle poche arterie di
collegamento tra lo Jonio ed il Tirreno, come è nelle giuste attese delle
popolazioni interessate, che non possono non manifestare la loro sdegnata
disapprovazione per la politica di abbandono di cui la strada 112 è sintomatica
manifestazione”
GAZZETTA DEL SUD Mercoledì 19 Luglio 1972
Come potete vedere nelle foto di apertura la natura agisce come può per cassare la 112.
In aprile Giacomo s’innamorò. Una ragazza, che gli era stata presentata
da un amico, gli piacque immensamente, ed egli decise di farle la corte. Cercò
di incontrarla quante più volte avesse potuto, l’attese all’uscita dalla scuola
di belle arti, dove frequentava il corso di pittura, la fermò, cosi, come per
caso, e si mise a discorrere con lei.
Passeggiavano i due giovani e l’avvenire era lieto davanti a loro: egli
le espresse i suoi sentimenti, ed ella parve convincersi. << Se è
destinato, saremo insieme felici» gli rispose la ragazza; e in un impeto
improvviso di fede, volle separarsi da lui, andare sola a pregare nella chiesa
vicina. "
Si trovavano ogni giorno, di
mattina, per un momento, e di sera più a lungo. Di sera andavano fuori porta, sulla
strada polverosa delle automobili, camminavano un po’, quindi attraverso il
viottolo tortuoso, uscivano nell’aperta campagna.
Si dirigevano in un boschetto vicino: lì sotto la cupa verzura degli
alberi si sdraiavano, e le mani nelle mani si raccontavano storie innocenti.
— Vediamo chi ha più forza, di noi due? -- le proponeva Giacomo; e voleva
provare, come se dubitasse di sé.
- No, no, mi sciuperesti il vestito e i capelli!
— E cosa importa che ti sciupi i capelli? Non mi piaceresti lo stesso?
Ed io con le mie mani non te li acconcerei?
-- Ed il vestito, dopo che si fosse sgualcito o strappato? Cosa faresti
tu?
-- Ma no, che non si strapperà...
Faremo cosi, per ridere! Via, Adelina, non mi scontentare! Sii buona
con me!
Seduti per terra, allora, si cingevano con le braccia; e facevano come
per scuotersi. Ma poi egli avvicinava la bocca alla sua; ed Adelina, confusa,
cedeva.
Si abbracciavano quindi più volte e liberamente; e si baciavano a lungo
senza stancarsi; mentre voci non si sentivano. Ed il canto solo degli uccelli al
tramonto, volanti festosi sugli alberi prima della notte imminente, squillava
alto nel cielo.
S’alzavano i due giovani ed in fretta ritornavano in città. Parlavano
di rado ora e i loro visi erano tristi. La malinconia dell’insoddisfatto amore,
il mistero della vita che si rivelava nel chiuso delle loro anime, la delusione
che segue le ore di intensa felicità e il pensiero del distacco fino al giorno
dopo accompagnavano i loro passi.
Arrivati in città, il più delle volte si separavano per non essere
riconosciuti; ma qualche volta Giacomo accompagnava la donna fino alla porta di
casa; ed entrato nel portone, in silenzio e come un disperato s’afferrava alla
sua bocca.
Fu felice quel tempo.
Ma passo troppo presto; perché Giacomo, che era studente ed ancora
doveva aspettare un anno per laurearsi, fu costretto a partire per il suo
paese.
Poi il padre cadde ammalato e mori.
Gli affari vennero meno, le passività aumentarono. Sua madre, avvilita,
piangeva.
Giacomo dovette abbandonare gli studi e pensare di sistemare la
famiglia; e intanto col pensiero alla donna lasciata, poco riusciva a
concludere.
Le scriveva di ricordarsi di lui e di attenderlo; le prometteva di
sposarla; la supplicava nel dubbio.
E perché ella non dubitasse delle sue capacità, le assicurava che anche
senza la laurea avrebbe potuto trovare un buon posto; che avesse la pazienza di
aspettare; e dopo, l’indugio sarebbe stato compensato dalla gioia di non
dividersi più fino alla morte.
In principio, Adelina ricambio l’affetto e le ansie; poi comincio a raffreddarsi;
e non sempre rispondeva per tempo.
Intanto Giacomo non riuscì a fare nulla di buono; si mise nel commercio
e non aveva attitudini; e un posto, non riuscì affatto a trovarlo.
Né la famiglia lo lasciava tranquillo: la madre sempre era afflitta e
stordita, i fratelli piccoli avevano bisogno di guida. Giacomo, inceppato, non
poteva partire per la lontana città.
Domandò allora alla ragazza come mai così presto si fosse stancata di
lui: ancora non era passato un anno! E dunque? Non gli aveva voluto mai bene?
Adelina colse la palla al balzo; disperò di poterlo mai più rivedere e
gli scrisse di non pensare a lei. Ella lo aveva amato, si; ma ora, colla
lontananza, di meno. Voleva essere sincera.
Che pensasse lui a dimenticarla, come pure si sarebbe sforzata di fare
lei.
Giacomo, disperato, le rispose supplicandola di scrivergli e di
aspettare la sua venuta, prima di dire l’ultima e irrevocabile parola. Che non
gli facesse il torto di mostrarsi ingrata e cattiva.
Adelina, gentile, rispose di no, che non poteva; e che ella era indegna
di lui. Non le scrivesse più; egli avrebbe potuto trovare altre migliori di
lei.
Giacomo alla lettera fremé. Non sapeva se sdegno lo avesse preso o
continuo e rinnovato furore d’amore. Come un pazzo le scrisse di nuovo.
Ma Adelina non si fece più viva.
Giacomo voleva partire, voleva raggiungere la donna, pregarla di nuovo
o insultarla, non sapeva bene.
Ma i disordini della sua amministrazione glielo impedirono. In quel
tempo i mobili della sua casa gli vennero pignorati e venduti, un piccolo
podere della madre messo all'asta e venduto per poche lire.
Giurò a se stesso di rifarsi la posizione e, cambiando genera di commercio,
riprese il lavoro. I guadagni erano modesti, ma sicuri. Risparmiando sul
mangiare e sul vestire, qualcosa poteva mettere da parte.
La casa a poco a poco si ricostituiva.
I fratelli furono mandati a scuola; e la madre, nelle pratiche di
religione, trovava il conforto di cui aveva bisogno.
Nel lavoro e nella preoccupazione passò diverso tempo. Gli amici
antichi della città s’erano squagliati. Egli loro scriveva e quelli non
rispondevano.
Passò, ripeto, del tempo. Ma pochi anni, cosa erano in confronto della
vita d’un uomo? E dell’eternità senza confini?
E com'è che nella vita di Giacomo tali anni avevano un così grave peso?
Comè che si sentiva invecchiato e stanco?
Qualche capello grigio era spuntato sulle tempie; la faccia e la pancia
erano ingrossate; il colorito, una volta cosi fresco, era vizzo; ed i capelli,
i bei capelli ondulati della sua gioventù, erano scomparsi come per una raffica
improvvisa.
Il suo cuore pure era vecchio e stanco. L’ amore più non balenava
dinanzi alla sua immaginazione. E le speranze? E le illusioni?
Giacomo a poco a poco si era adattato alla sua vita mediocre; si
contentava di umili donne del popolo che come un servizio gli offrivano
l’amore, era rassegnato del suo stato modesto.
Aveva lasciato gli studi per sempre; e di -rado rimpiangeva di non
essersi preso la laurea.
Né soffriva più per le abitudini della provincia: ormai le aveva fatte
sue, e ci stava a suo agio. E commerciante tra commercianti adoperava il loro
linguaggio grossolano, le loro frasi, le loro maniere.
Solo di tanto in tanto pensava alla bella Adelina, amata per cosi breve
tempo e pur cosi viva nel ricordo: la vedeva sempre giovane e fiorente. E non
immaginava che potesse essere sposa di altri.
L’ignoranza che egli aveva della vita di lei lo incoraggiava a sognare
secondo il ritmo del passato; e la vedeva, ardita e splendente, andare insieme
a lui nella campagna del suo passe. S’accorgeva della fantasia, e smetteva.
Ma una volta —- erano passati quasi dieci anni — Giacomo volle
permettersi il lusso di prendersi le vacanze e fare un viaggio. Prese il
biglietto e, partì per l’antica città della sua giovinezza.
Aveva curiosità di sapere la fine di Adelina. Con cuore trepidante andò
a casa di lei. Non se ne ricordava bene.
Bussò, ed una donna anziana s’affaccio.
-- Abita qui la famiglia Cozzupoli?
-- No, chi desiderava?
-- Niente, o niente. E non sa dove si è trasferita?
— Stanno a Roma, ma l’indirizzo non lo so.
— E non conosce chi me lo potrebbe dare?
— No, proprio. E’ da diversi anni che son partiti.
— Grazie tante, lo stesso! – disse Giacomo; e non rimpianse troppo di
non averla veduta.
Giro per altre città e si divertì finché finirono i soldi e dovette
pensare al ritorno. Capitò a Roma dove solo per qualche giorno avrebbe voluto
rimanere.
Si trovava solo davanti alla piazza della stazione, quando un signore
elegante parve riconoscerlo; anche lui lo riconobbe. Era Enrico Piromalli,
l’amico che gli aveva fatto conoscere Adelina, e di cui poi non aveva saputo più
nulla.
-- Chi si rivede? Come stai? – gli disse l’amico.
-- Bene! E tu? Ti rivedo con tanto piacere! — rispose Giacomo.
— Senti! Ho da fare! Debbo andare all’ufficio! Non mi puoi
accompagnare?
— Ma si — rispose Giacomo contento.
Parlarono del tempo trascorso insieme, degli anni di poi, delle seccature
della loro vita presente. L’amico non ricordava gli amori di Giacomo, tante cose
gli erano sfuggite, e questi non gliene parlo.
Arrivarono, così, dinanzi a un Ministero.
Ci vedremo a cena stasera? – disse l’amico – vieni a trovarmi a casa,
segnati l’indirizzo. Ho sposato, sai, e sto bene!
— Si, verro, ma non vorrei recare disturbo.
-- Ti pare?
E si lasciarono.
La sera dello stesso giorno, Giacomo bussò alla porta di casa
dell‘amico.
Venne egli stesso ad aprire. Il corridoio era splendidamente
illuminato; mobili di lusso adornavano le stanze
—-Siediti, che ora chiamo mia moglie.
-- Si, si.
Dopo un po’ s’intese di nuovo la voce dell’amico. Altri passi si
sentivano ai suoi.
Giacomo si alzò dalla poltrona
dove s’era messo a sedere.
— La conosci? '-- gli disse l’amico ridendo; e gli batté una mano sulla
spalla.
Comparve una donna, giovane, fresca, dall’acconciatura elegante. Col
sorriso sulle labbra, agile di corpo e snella come un animale selvatico, gli fu
davanti.
S’avvicinò a lui, gli- stese la mano.
Egli divenne pallido e s’appoggiò al braccio dell’alnico; il cuore gli
sembrò uscisse dal petto; temé di cadere; perché la bella donna, di cui toccava
tremando la mano gentile, non era che la sua fidanzata per sempre perduta.
Mario e La Cava
Pubblicato su IL MESSAGGERO
nel 1941
Nota. Questo
ritaglio, come quelli riguardanti Francesco Perri, fa parte dell’archivio di
Ernesto Gliozzi il vecchio. Anche se i bovalinoti ora mi daranno addosso,
consideriamo, causa i suoi antenati, Mario La Cava uno scrittore platiotu, aggiungendolo al nostro “Pantheon” di glorie paesane, mi pare anche, che le note del Maestro
rendano bene gli affanni di Giacomo in questo racconto poco noto.
Correva l'anno 1863 ed a Napoli alle ore diciassette dell'8 giugno, presso l'Uffiziale di Stato Civile si presentava don Luigi Mittiga di Platì, Calabria Ultra prima, di anni quarantuno, Uffiziale al Retiro, domiciliato in Salita Petrajo numero quattordici per presentare una femmina nata il giorno avanti da lui e da Donna Margarita Spinandi di anni trentadue a cui davano il nome di Marianna Giuseppa Paolina Maria.
Don Luigi, stando ai registri battesimali della parrocchia, era nato il diciassette giugno del 1819 da Domenico Mittica e Meladoni Giuseppa.