Roccu era da Rocca,alle sue spalle, dove io l'ho ritratto con la Nikon in una pellicola Kodak, e lo rimarrà fino alla fine del mondo, visto che i suoi figli ne sono gli eredi, avendolo comprato da Saro, Maria, Luigi e Gianni Mittiga, e non penso che loro mi abbiano a male per tutte le volte che lo cito, avendomi, il loro padre, portato per mano, quand'ero infante, lungo i crinali della Rocca.
Ora ditemi, come si fa a cancellare un Anonimo, visto che vi sono ancora altri citati citatori.
Mi dispiace che il mio suggerimento, perché di questo si trattava, sia stato preso per un affronto-scontro e sono pronto ad un chiarimento, non tradendo le mie convinzioni di comunista del web.
Tutto questo a discapito di quanto si tenti di fare per cambiare l'aurea nera che circonda il paese, vedi i recenti programmi televisivi.
lunedì 6 maggio 2013
venerdì 3 maggio 2013
Ladri di saponette (reg. Maurizio Nichetti - 1989)
Non sono arrabbiato! Vi giuro che non lo sono - è il caso di esserlo? -ma adiamo con ordine.
Il lavoro all’interno di questo blog era maturato col preciso intento di dare la parola scritta ai ricordi, creando un’immagine discordante di un paese ben altrimenti reso famoso. Il tutto sfruttando la memoria, le fotografie, i manoscritti, le pubblicazioni e la corrispondenza di una raccolta personale. Si è scelta la blogsfera perché essa da una maggiore intimità tra l’autore e i lettori. I lavori una volta pubblicati sono a disposizione di tutti. Questa disponibilità non significa dispersione col conseguente saccheggio e trasformazione per altri fini lontani a quelli per cui sono state postate. Che una foto, una poesia o una lettera vengano riprese sta nel comunismo del web e va bene, il prelievo e la ripubblicazione devono essere seguite dal rimando alla fonte originaria , in questo caso chiamatela url o pagina web, per cui sono nate e non stravolte in un contesto di migliaia di disattenti fruitori . In quel rimando alla fonte originaria sta l’onestà intellettuale, perché di questo si tratta, di chi copia ed incolla. Tolta l’onestà rimane un plagio senza fondo che esclude una riproposizione, se si vuole, critica. Tutti possiamo copiare ed incollare I promessi sposi manzoniani con la punteggiatura riveduta e assumersi la paternità dell’opera, con i mezzi di oggi si possono addirittura modificare i titoli de I predatori dell’arca perduta e apporre il proprio nome e cognome e spedire il film sul vostro tubo come se tutti fossimo dei Quentin Tarantino minori. Quanti campionano segmenti musicali altrui, è il caso dei rappers, citano sempre l’origine, compreso l’autore, da cui e stato fatto il rilevamento
Rimane la certezza e la soddisfazione che nessuno potrà mai attribuire a se stesso la scrittura del tempo perduto di Proust o il découpage di A bout de souffle di Jean-Luc Godard.
giovedì 2 maggio 2013
Ghost Dance - Robbie Robertson
Per noi tutto è immutabile, in eterno. L’uomo bianco crede che tutto sia mortale: le pietre, la terra, gli animali, anche gli uomini, anche quelli del suo popolo e più una cosa è viva più i bianchi fanno di tutto per distruggerla.
Chief Dan Gorge in Piccolo grande uomo di Arthur Penn
martedì 30 aprile 2013
A Kiss Before I Go - Ryan Adams
Tempora laburunt, tacitisque senecimus annis,
et fugiunt freno no remorante dies.
Il tempo scivola via, e noi invecchiamo per silenziosi anni:
i giorni fuggono senza che alcun freno li attardi.
Ovidio, op. cit
lunedì 29 aprile 2013
Evangeline - The Band
I am one of you and being one of you
Is being and knoing what i am and know
Sono uno di voi ed essere uno di voi
è essere e sapere ciò che sono e che so.
Wallace Stevens, Angel
Cit da Luigi Meneghello in Libera nos a malo
venerdì 26 aprile 2013
La seta ed altri stracci - pt. 3 - Fine
Torniamo ancora alla Grecia classica ed a Pitagora.
Ovidio, che noia la vita senza il Nasone, nel XV libro delle Metamorfosi fa dire a Pitagora: «quaeque solent conis frondes intexere filis agrestes tineae (res observata colonis) ferali mutant cum papilione figuram...», riporto la traduzione della Bompiani per cura di Enrico Oddone: “ e quelli che sogliono intessere le frondi con bianchi filamenti, i bruchi dei campi ( l’osservazione è consueta ai contadini ) mutano l’aspetto con quello delle farfalle mortuarie “.
In quel tempo Pitagora si trovava a Crotone, affinché si sviluppasse la coltura/cultura serica in Calabria – annoto a questo punto che il nome Kalabria emigrò sulla parte meridionale dell’antico Bruzio verso il 680 d. C. – a Catanzaro, dovevano passare parecchi secoli.
Non mi disserto in erudite annotazioni su come li vi sia giunta, col rischio di annoiarvi, di certo è vero che arrivò da Costantinopoli e trovò il terreno ed il clima adatti ad impiantare dapprima i gelseti e successivamente portare i bozzoli o forse addirittura i semi. Fu un’attività che si diffuse lentamente e a tappeto in tutta la regione.
Ora mi riallaccio a quanto detto prima a proposito del cognome Catanzariti ed all’introduzione della bachicoltura e della lavorazione della seta nel territorio di Platì.
A quel cognome ed a quanti dal Catanzarese si trasferirono nel Platiese, ma è da aggiungere dovunque dalla Calabria alla Sicilia – il toponimo Catanzaro lo troviamo a Fiumedinisi (ME), Palazzolo Acreide (SR), Modica (RG), Sciacca(AG), Termini Imerese (PA) – è legata la lavorazione della seta, vale a dire la bachicoltura e la sericoltura in due momenti distinti e separati l’uno dall’altro.
I Catanzariti portavano la lavorazione della seta già con un procedimento avanzato per quei tempi, se ci riferiamo alla fondazione di Platì che avvenne tra la fine del XV° e gli inizi del XVI° secolo.
Certamente in quella filanda si tesseva seta grezza per gli usi interni del paese o la vendita ai mediatori per mezzo dei quali il prodotto andava a rifornire gli stabilimenti tessili della stessa Calabria e forse della penisola.
Come già detto la filanda era posta fuori dal centro abitato a causa di alcuni passaggi produttivi dannosi per la salute. Invece l’allevamento del baco avveniva principalmente nei casolari di campagna se non addirittura nella casa in paese. Li dentro i bachi nutricavano.
Seconda digressione
Conoscevo questa parola per averla sentita da bambino ma non vi so dire da chi. L’ho risentita per voce, molti anni dopo, nei primi giorni di Ciurrame, da don Peppinu “ petrazzu “, quando gli feci notare una casa che anni prima aveva attirato la mia attenzione ed in cui mi sarei trasferito volentieri. L’avevo notata un giorno, di quelli della mia vita a quattro zampe, quando con Nino u “ ‘ccinnaru “ salivamo all’Altolia con la sua R4 rossa a portare la ricotta alle massaie di quel villaggio. E’ una casetta rustica, addossata alla collina che sovrasta la fiumara, con due arcate al pian terreno ed una balconata di ferro battuto al primo piano. Quella volta che feci notare a “ petrazzu “ la casetta, invece, ma già ero un Ciurramìco, viaggiavamo nella mia Peugeot 305 familiare e lo stavo riportando all’Altolia dove abitava con la signora Cammela (sarebbe Carmela), lui mi disse che quella casetta era di sua proprietà ed era lì dentro che nutricavano.
Ora il verbo nutricare e l’attività che declina penso che siano riferite tanto al baco che alle persone che li nutrono di foglie “moresche”.
Da notare che l’allevamento del baco non pregiudicava le altre attività agricole: grano, olive ed allevamenti legati alla produzione del latte e dei suoi derivati.
Il bozzolo a Platì proveniva dai commercianti all’ingrosso di Bovalino. I gelsi, le cui foglie servivano a nutrire i bachi, sorgevano lontano da orti e campi coltivati a causa della folta chioma ombreggiante e delle lunghe radici, sia in terreni di proprietà delle parrocchie ( frutto di donazioni,a volte lontani dal paese dove aveva sede la stessa) che di privati cittadini. Che io sappia ne sorgevano alcuni piedi anche “ iaffora ‘e Ssalis “ ma non erano sufficienti. In base alle carte raccolte dal nonno Luigi, suo padre Francesco, che tra le altre attività conduceva pure quella dell’allevamento del baco, con accordi sottoscritti, si riforniva presso una proprietà della chiesa di Natile (il vecchio Natile) e presso una proprietà della chiesa di Palmi. Facevano da mediatori sia i fattori della proprietà sia gli stessi parroci.. Gli inadempimenti dell’una o dell’altra parte a volte si trascinavano per anni e coinvolgevano le prefetture o sottoprefetture locali ed innumerevoli fogli di carta da bollo del Regno delle Due Sicilie dapprima e successivamente del Regno d’Italia.
Il compito dell’allevamento del baco, come il lavoro in filanda, era affidato quasi esclusivamente alle donne. Le stesse dovevano tenere sotto controllo (monitorare si dice oggi) i bachi affinché non si ammalassero di flaccidezza pregiudicandone la qualità del filo.
La nonna Lisa nutricava nei solai della casa in paese. Poneva foglie e bozzoli nei cannizzi (foto sopra) che poste su degli improvvisati cavalletti dovevano restarvi per circa cinquanta giorni prima che avvenisse la filatura. Il solaio era un luogo ideale perché arieggiato attraverso le aperture tra una ciaramida e l’altra i bachi si sfamavano mantenuti ad una temperatura adatta per svolgere il ciclo.
Ricavata la seta, che, ripeto, doveva essere molto grezza, la nonna Lisa tesseva al telaio ricavando quanto serviva per la famiglia: tovaglie, tovaglioli, lenzuola, coperte e indumenti per qualsiasi utilizzo.
Mi rendo conto che quando scrivo parlo di un tempo passato, ricostruito nella mente dalla nostalgia, tramutando in un’Arcadia rosea e verde, con il pastorello che esegue la colonna sonora, l’esistenza di tutti i giorni.
Leggendo le cronache devo ammettere che non sempre era così. Vi erano anche il dolore ed il pianto legati alla non riuscita delle fatiche che a volte servivano per un guadagno necessario, destinato per il mantenimento di accettabili condizioni di vita all’interno dei gruppi familiari.
In questo, soprattutto per quanto riguarda il bozzolo, si andava incontro ad annate negative che dovevano essere messe in conto preventivamente, con la conseguente perdita di tempo e danaro.
E devo dire di essere anche in possesso di biglietti con richieste di prestiti in denaro o anticipi di sacchi di foglie di gelso non sempre accolte benevolmente.
Haec olim fuere
Acqua passata
mercoledì 24 aprile 2013
Seta ed altri stracci pt 2
La ginestra si sviluppa come un arbusto, germoglia in primavera e fiorisce a grappolo in estate.
E’ in questo periodo che venivano potate con le forbici le parti più tenere. Queste, dimezzate, si bollivano nei calderoni di rame. Era questa una preparazione che veniva svolta ‘nto catoiu. Mi pare di aver sentito dire una volta che questo compito veniva svolto dallo zio Ciccillo per conto della nonna Lisa. Era lei che dirigeva tutte le operazioni fino alla tessitura finale. Ma sono andato troppo avanti.
Raffreddata l’acqua la ginestra veniva scolata e sfilacciata separandola dalle parti legnose e posta a macerare in acqua corrente. Scolata di nuovo e sbattuta per togliere i residui d’acqua era asciugata al sole ricavando un prodotto simile alla lana o alla stoppa. I lavori che seguono venivano svolti in casa e cioè la pettinatura o cardatura, a forza di braccia, e la filatura. Erano gli stessi lavori che le donne eseguivano con la lana di pecora.
Il pettine era uno strumento che mi atterriva di paura: due tavolette di circa venti centimetri per quaranta piene di chiodi; mi è tornato in mente durante la lettura dell’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, quando descrive la mandibola dell’orca ferone. Assicurata una di queste tavolette su un punto stabile, si ricoprivano i chiodi, o denti, di ginestra e con l’altra tavoletta libera si scorreva a mo di pettinatura, la stoppa allungandosi, successivamente veniva filata, disponendo della rocca e del relativo fuso, raccogliendo il tutto in gomitoli artigianali.
Entra ora in scena il vero protagonista, colui che porterà a termine la trama:il telaio.
Avete presente l’organo della Cattedrale di Lipsia dove Giovanni Sebastiano Bach digitava la sua musica per Dio? Ecco a quello strumento solo si può paragonare il telaio della zia Angeluzza o della nonna Lisa ed esse ne erano le esecutrici che al termine dell’intricato canone di tutto lo spartito producevano lenzuola, tovaglie, tovaglioli e mappine che nessuno stilista di nome eguaglierà mai.
continua ...
martedì 23 aprile 2013
Seta ed altri stracci (reg. Abel Gance - 1915)
dedicato alla zia Angeluzza sorella del nonno Rosario, sposa Lentini, madre di Ciccina sposa du mastru, Peppino Caruso.
Procedamus in pace
In nomine Christi, amen
Nelle case si allevavano i bachi da seta, i bizzarri “ cavalieri “ che si spargevano come un minuto seme nero ( la “semenza” ) e a mano a mano diventavano piccole miniature di bruchi, poi si vedevano crescere di giorno in giorno, si allargavano su ampi territori ombrosi e tiepidi di tralicci accatastati a ripiani, invadevano le stanze, brucando con forza sempre più grande la “ foglia “ di moraro.
Luigi Meneghello, op. cit.
1
C’è Francesco di Raimondo che sta preparando una storia compendiata di Platì. In attesa che porti a termine, da par suo,il nobile compito (fai presto perché ho una certa età) mi prendo io la briga (superiore e marina) di dare un breve accenno su alcuni aspetti che hanno apportato un contributo di cultura, progresso e benessere nelle vicende del paese, spinto dai documenti raccolti dal nonno Luigi e conservati dallo zio Ernesto fino ad oggi.
Non mi sono mosso per niente da casa: per poter portare a termine il tutto mi sono bastati Francesco Perri, Corrado Alvaro, Saverio Strati, Salvatore Satta e Luigi Meneghello che con i loro romanzi mi hanno fornito un’idea basilare su come pensare il territorio e la sua gente; ed il web per le notizie più specificatamente storiche e scientifiche.
L’argomento è tutto al femminile: la ginestra e la seta con i loro processi produttivi.
Quello che rimane oggi di questo passato è solo un vico o via Filanda, in riguardo alla seta, per la ginestra niente toponomastica, è molto più povera lei, indifferente alle mode campeggia a tutt’oggi lungo i pendii di Platì e di Ciurrame, tinteggiando di giallo e verde, come un Van Gogh, il paesaggio.
Mentre il lavoro attorno alla ginestra non recava danni per la salute ( oggi si dice ecocompatibile) e quindi comodamente svolto in casa, quello che concerne la sericoltura per le esalazioni, i fumi, ed il cattivo la filanda era situata in un territorio fuori dal paese, sempre ai bordi della fiumara, ed è li che troviamo vico della Filanda, sebbene oggi, per l’ampliamento del centro abitato, faccia parte dello stradario platiota.
Rimane anche un cognome, Catanzariti, uno dei più diffusi, legato alle origini del paese e all’introduzione della coltura serica. Per essere più preciso annoto anche l’esistenza della fonte Catanzaro sulla strada che collegava Platì ai paesi della Piana di Gioia Tauro, da cui si diparte anche il vallone Catanzaro. Abbiate pazienza e al seguito ci tornerò sopra.
A questo proposito chiedo a Francesco: non può essere che la colonizzazione del territorio sia arrivata dalla montagna e non dal mare come comunemente si pensa? Certamente c’è del vero, perché i principi, dagli Spinelli ai Cordopati, in quelle contrade avevano la residenza principale.
Consentitemi una digressione a proposito di filatura e tessitura della ginestra e della seta.
Sebbene la coltura serica sia giunta nel mondo greco ed arabo dalla Cina, la lavorazione della ginestra è un procedimento tutto ellenico che emigrò con i primi coloni greci.
Questi coloni che per i soliti motivi di sovraffollamento, mancanza di lavoro, all’epoca era mancanza di terre da coltivare, misero piede dapprima in Calabria segando in linea retta il mar Ionio dalla ellenica Locride alla nuova Locride della futura Magna Grecia.
Vi ricordate Enea? Quando già con un piede sulla Marina di Noto, per una forte venticata – vabbé, fu provocata dalla perfida Giunone! - si ritrovò nel letto di Didone? Con Jarba che lo aspettava fuori per rifargli la carta di identità? A quest’ora se prestiamo ascolto a quanto dicono alcuni siculi, i quali asseriscono invece che i greci posero piede dapprima nella Trinacria, verso Selinunte provenendo dal Canale, per le forti correnti ed i venti contrari avrebbero posto piede in America, ben prima di Colombo, non il tenente, e colà fondata la New Grecia e noi eravamo ancora all’età della pietra.
La lavorazione della ginestra appartiene alla Grecia Classica, al mondo di Pitagora; invece, la coltura serica appartiene ai Bisanzio.
continua...
lunedì 22 aprile 2013
Corpo celeste pt.2
I. M. I.
DINANZI LA SALMA
de L’ Arciprete SAVERIO OLIVA
SIGNORI,
Oggi la grande festa de lì Immacolata, in questo piccolo paesello, si è convertita in lutto popolare per la morte dell’Arciprete. L’importante corteo mi dice che scende ne la tomba un uomo dabbene.
Veramente, ai giorni nostri, gli sguardi delle masse si fermano meglio sopra i cuori che amano, anziché sulle teste che passano.
Un uomo che possegga tutte le lingue, un dotto, e arcigno, un uomo insomma, per così dire , di lettere – sena la carità, - non è altro se non un cembalo, un campanello squillante … e ce lo dice San Paolo.
La carità è tutto: è il sole che illumina, rianima e riscalda tutte le creature vive; è l’astro maggiore de l’universo: cieco chi nol vede!
Quando un uomo, da cui emana questo sole di carità, si oscura o si eclissa, si sente come un sintomo di freddo nelle ossa, si vedono grandi ombre proiettarsi sui vicini e sui lontani, un sentimento di malinconia e di malessere invade tutti. – Ecco, dicono i superstiti – era pur buono! e piangono.
Il pianto che fu dato a l’uomo per distinguerlo dai bruti; il pianto, che esalta le creature umane sino a renderle divine; il pianto non è l’esponente dei cuori deboli e fiacchi, ma dei cuori nobili e forti.
Voi piangete: voi siete grandi e civili.
Ma perché piangete? – Perché un uomo ottuagenario scende nella tomba, munito di tutti i conforti della Religione ed assistito da una siepe di parenti?
Perché quest’uomo era il vostro arciprete di cui ricordate la magnifica voce, lo zelo ed il nobile portamento?
Non per questo, mi dite.
Ah, qualche cosa dunque ci viene a mancare, qualche cosa a cui ci eravamo abituati per lunga teoria di anni, che ci arrecava un sollievo, senza che ci accorgessimo.
Questa esistenza che s’inabissò, o meglio, che passa da le tenebre per camminare ne la perpetua luce – quest’esistenza era come un faro che rispendeva d luce propria.
Chi si avvicinava a lui, scorgeva in quell’anima come una lampada quieta, serena ardente e questa lampada era la sua bontà.
Quella bontà non negativa, ma fattiva, bontà fatta di disinteresse, di amore vero per tutti, di beneficenza occulta, di compiacimento per il bene degli altri – una bontà schietta senza infingimenti, senza sottintesi, senza ombre … ecco quello che brillava in lui e faceva del nostro amico, un uomo buono: val quanto dire, un uomo santo.
Ma vale proprio la pena – mi dirà qualcuno – tenerci qua per dire che Don Saverio era un uomo buono … sia pure un uomo santo … quasi ché la bontà, la santità non dovesse formare per un sacerdote che si rispetta la parte integrale del suo ministero?
Si - rispondo io - basta, quando la bontà è tutta d’un pezzo, la santità a tutta prova ed una vita intemerata sia coronata da una morte edificante.
Voi sapete bene la sua vita, io conosco meglio la sua morte.
Quell’uomo timido, buono, pacifico, galantuomo del vecchio stampo: quell’uomo che toccava le quistioni con un diversivo curioso, acquistò l’eroismo in punto di morte. Morì come morivano i primitivi cristiani! …
Quando io lo vidi con le braccia convulse stringere il Crocefissso, recitare il Confiteor con parole che salivano come un gemito giù dal profondo e come un angelo abbandonarsi volentieri a
“ Quei che volentieri perdona “
Quando, ripeto, lo vidi animato da una fede viva, ardente – più de la febbre che l’uccideva – e l’intesi mormorare le preci dei moribondi, con me che l’assistevo … non mi vergogno di asserire che mi veniva la voglia di ripetere il gesto del vescovo Myriel: inginocchiarmi ai suoi piedi e baciarglieli.
Ma tutto questo non vi commuove, lo so … era prevedibile, è vero; ma io mi commossi – scusate – Voi volete intanto qualche cosa di nuovo, qualche segreto, qualche intimità da me che l’ebbi amico in tutta l’espressione de la parola e in vita e in morte. Ebbene, ho l’onore di dirvi che Saverio Oliva amava la patria più di quanto si possa immaginare; amava il vero, il bello, il buono con tutta la passione di un’anima sensibile, tanto da fargli desiderare, pochi momenti prima de l’agonia, di sentire la musica, dell’Ave Maria del Gounod, che egli conservava nella sua stanza, dietro un quadro della Vergine.
Si, amava l’Italia.
E’ forse ampiezza, l’amore di patria nei discepoli di Colui che amò tanto sino a piangere di tenerezza?
Vi so ben dire, con quale amore seguiva le notizie in questi anni di guerra: le tappe gloriose dei nostri eroici fanti nella conquista immancabile dei naturali confini. E mentre i nostri disfattisti, i Graiano d’Asti … gioivano alle notizie funeste dopo Caporetto … “ Vinceremo lo stesso – mi diceva lui – l’Italia combatte per la giustizia e Dio la sorregge … - Vennero poi le giornate gloriose del Piave e di Vittorio Veneto; come scenari vecchi crollarono regni e imperi e la gioia di quell’uomo fu qualche cosa che non aveva confini.
“ Ora sono contento, mi diceva in quei giorni … nunc dimittis”
Ed alla mia stretta cordiale di mano – come per allontanare il presagio – egli piegò penosamente il capo e tacque.
Sentiva forse la fine ?
Ma che fine! Dico.
Se egli si preparava come ad un viaggio se mi ascoltava recitare i salmi per lui, come se non si trattasse proprio di lui, se mi face quasi intravedere la sicurezza de l’anima che va a ricevere il premio con le parole de l?Apostolo: “ Fidem servavi, cursus consumavi” ! !
E dicendo la “ Fede “ si elettrizzava – povero vecchio – come un giovane che vede delle forme ideali delinearsi dinanzi, come un cieco che riapre la pupilla, come un figlio che rivede la madre, E fissò lo sguardo vitreo, smorto ne l’ombra che si stendeva gigante; ma in quell’ombra era la luce; in quella luce egli vedeva certamente delle persone care, delle visioni celesti scendere dalle curve dolci, dalle melopee soavi del firmamento; intese melodie serene, angelici concerti … atteggiò le labbra ad un sorriso e spirò.
Ora non esiste di lui che la mortale spoglia, la parte migliore; l’anima, è volata lassù, verso il cielo, verso altri orizzonti, verso la Patria dei giusti.
Che Iddio l’ammetta nella luce eterna. Pregate.
Ma intanto dinanzi la salma di questo Arciprete buono, di questo galantuomo emerito, di questo padre affettuoso, scopriamoci riverenti, gettiamo sopra di lui tutti i fiori del nostro affetto, l’edera della nostra riconoscenza perenne ed i crisantemi pallidi del nostro dolore sincero.
Ed alla fiamma dei suoi ceri bruciamo le nostre ambizioni, i nostri rancori, le nostre piccinerie e brutture, perché in quella fiamma purificatrice egli ci sorrida come per incoraggiamento : “ Che mal si governano i popoli con la prepotenza e la forza, ma che una sola è la conquistatrice de le anime e dei cuori: la carità di Cristo, la Bontà.
Addio dunque, Arciprete Buono, indimenticabile Amico, gentiluomo perfetto, ti sorrida Iddio cui tu credesti, servisti ed amasti e ti sia premio il riposo eterno e l perpetua luce, Addio!
Platì, il giorno dell’Immacolata del 1919
Sac. E. Gliozzi
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Ernesto Gliozzi Sen,
Once upon a time in Platì
giovedì 18 aprile 2013
La montagna di luce (reg. Umberto Lenzi - 1964)
Su L’Aspromonte
“Ego sum via, veritas, vita”
Io lo vidi lassù: era un titano,
ravviluppato ne l’intatta vesta,
e, vindice, la Croce ne la mano
sorridente teneva, alto la testa.
Io lo vidi lassù. La valle il piano
Ricoperto di neve e, tutta mesta,
la natura dormia sotto lo strano
mantello funeral de la tempesta.
Tutto nel sonno e ne la morte giace!
Ei solo veglia la, da la romita
Cima del monte, su l’immensa pace.
Mi par che in alto a sollevar c’invita
I cuori affranti e, al secolo fallace
Segni – in contrasto – la sua via che è Vita.
Sac. Ernesto Ghiozzi sen.
Dalle Sacre Vette
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