Quando si dice che il film deve piacere al pubblico, si enunzia grossolanamente una verità fondamentale di ogni arte.Corrado Alvaro
PVFF
Platì Virtual
Film Festival
Second Season
Sotto gli auspici di
Enzo Ungari
CORRADO ALVARO
o
il vero spettatore cinematografico
20 film da
vedere assolutamente
Programma:
1 Altri tempi (Zibaldone n. 1),
Italia 1952; Alessandro Blasetti.
2 L'amante
del torero (The bull-fighter and the lady), USA 1951; Budd Boetticher.
3 L'Angelo
azzurro (Der blaue engel), Germania 1930; Josef von Steinberg.
4 L'asso
nella manica (The big carnival o Ace in the hole), USA 1951; Billy Wilder.
5 Atlantide
(Die herrin von Atlantis), Francia-Germania 1932; Georg W. Pabst.
6 Aurora (Sunrise), USA 1927;
Friedrich W. Murnau.
7 Bellissima, Italia 1951;
Luchino Visconti.
8 I dannati (Decision before dawn),
USA 1951; Anatole Litvak.
9 Diario di un curato di campagna
(Journal d'un curé de campagne),
Francia 1950; Robert Bresson.
10 Il dottor Caligari (Das kabinett
des Dr. Caligari), Germania 1920; Robert Wiene.
11 Germania anno zero,
Italia-Germania, 1947; Roberto Rossellini.
12 Luci della ribalta (Limelight),
USA 1952; Charles Chaplin.
13 Metropolis (id.), Germania
1926; Fritz Lang.
14 1860, Italia 1934; Alessandro
Blasetti.
15 Morte di un commesso viaggiatore
(Death of a salesman), USA 1951; Laslo Benedek.
16 Rashômon (id.), Giappone 1950;
Akira Kurasawa.
17 Risate in paradiso (Laughter in
paradise), G. Bretagna 1951; Mario Zampi.
18 Roma città aperta, Italia
1945; Roberto Rossellini.
19 Salerno
ora X (A walk in the sun), USA 1945; Lewis Milestone.
20 Sangue
blu (Kind hearts and coronets), G. Bretagna 1949; Robert Hamer e John
Dighton.
21 Telefonata a tre mogli (Phon call
from a Stranger), USA 1952; Jean Negulesco.
22 Umberto D., Italia 1952;
Vittorio De Sica.
23 Un
uomo tranquillo (The quiet man), USA 1952; John Ford.
24 Verso
la vita (Les bas-fonds), Francia 1936; Jean Renoir.
25 Viale
del tramonto (Sunset boulevard), USA 1950; Billy Wilder.
Il cinema Corrado Alvaro lo portò sempre con sé. Accanto alla sua attività di romanziere, viaggiatore, giornalista e quant'altro, il legame col cinema non lo staccò, stancò mai: dentro l'industria dapprima e come saggista e critico dopo. I film riportati sopra ne sono un esempio. Quale più, quale meno sono sempre stati visti con l'occhio dello spettatore cinematografico più accorto. Le sue critiche erano tutte derivate dalla sua esperienza di scrittore ma anche di uomo vissuto. I suoi apporti critici a film come Diario di un curato di campagna, Morte di un commesso viaggiatore, Rashômon, Umberto D., Un uomo tranquillo, tra gli altri, letti con pieno coinvolgimento emotivo e con spirito libero. Le sue esperienze basilari di vita nella Grande Guerra e nella Germania di Weimar confluite dapprima nelle opere letterarie, le ritroviamo nelle recensioni de I dannati (Decision Before Dawn) e in Salerno ora X, schifoso titolo per l’edizione italiana di A Walk in the Sun e quando parla della nascita del mito di Marlene Dietrich in L’angelo azzurro. Negli scritti sul cinema un Alvaro poco ossequioso col potere specie quello ecclesiastico, ad onta di un fratello prete che probabilmente lo capì poco, lui a dover fare i conti con le città in espansione, don Massimo a Caraffa del Bianco dove ancora tutto era legato ai cicli della terra. E qui voglio ricordare che don Massimo fu compagno in seminario di Ernesto Gliozzi il giovane e aiuto di Ernesto Gliozzi il vecchio, parroco in Casignana. Egli, per finire, fu uno dei pochi ad intuire la portata estetica e morale di un cineasta come Alessandro Blasetti - “l’amore delle idee generali, la prima dote che colpisce accostandolo; anche in chi come me, gli ha parlato per qualche istante una volta appena" (1) - e a cui il cinema italico deve molto. Alvaro intuì l'importanza e i pregi di 1860 – “mostra quali risultati si possano ottenere in Italia sia pure con una certa economia di mezzi” (2) - ben prima di Martin Scorsese.
(1 ) Su "Il Mondo", 15 novembre 1952 (2 ) Su "Nuova Antologia" 16 maggio 1934 Forse dopo Corrado Alvaro le critiche più originali le ritroviamo proprio in Enzo Ungari (1948 - 1985)
L’alluvione
del 1951 aveva lasciato al suo passaggio un paese devastato: detriti e fango
dappertutto e case abbandonate senza corrente. Da bere era rimasta solo l’acqua
piovana che si raccoglieva dentro le pentole e i recipienti. I bambini
correvano per le strade del paese senza controllo e i genitori dovevano pensare
a ripristinare quel poco rimasto. Era in questa atmosfera pesante che un
mattino venne a svegliarci la mamma. Io e mia sorella più piccola dormivano
nello stesso letto, abbracciate per scaldarci. Quando aprii gli occhi era tutto
buio, solo la fiammella del lume a petrolio illuminava la stanza. Non sapevamo
il motivo di quella sveglia a quell’ora. Mia sorella più grande ci lavò e ci
vestì. Mia mamma, impassibile, ci prese per mano e uscimmo nella notte umida e
buia. Ci portò davanti alla “Cresiola” da dove partivano i pullman e lì ce
n’era uno più grande e di colore diverso dalla corriera che faceva regolare
servizio. Sul quel grande pullman c’erano delle signore vestite di bianco. Ci
unimmo ad altre bambine del paese, eravamo circa una trentina e ci fecero
salire sul grande pullman. Mia sorella tenendosi per mano alla sua amichetta
Serafina cominciò a salire sul pullman mentre io mi attaccai alla saia di mia
mamma. E quando cercò di farmi salire mi nascosi dietro di lei piangendo e
gridando perché non volevo salire. Quando le porte del pullman si chiusero una
delle signore in bianco abbassò il finestrino, mia mamma con forza mi prese in
braccio e mi passò tra le braccia che sporgevano dal finestrino. Mi fecero
sedere accanto ad un’altra bambina e dopo poco mi addormentai. Quando mi
svegliai entrava la luce dai finestrini, ci fecero scendere, ci diedero
qualcosa da mangiare ed entrammo in quella che mi sembrò una stazione, non so
se di Bovalino o di Reggio Calabria. Arrivò un vecchio treno e ci fecero
salire. Era tutto in legno, sporco e brutto. I sedili duri facevano male alle nostre
fragili ossa. Un viaggio da incubo per una destinazione ignota, non si arrivava
mai. Eravamo stanchi e sporchi. Finalmente il treno si fermò e ci fecero
scendere. Un altro pullman ci portò in una piazza grandissima. Lì, secondo la
mia amica Antonietta Romeo, ci fecero entrare in un locale dove c’erano tante
scarpe, ognuna di noi poteva sceglierne un paio e calzarle. Non ricordo se fossimo
scalze o se quelle che indossavamo non fossero idonee per entrare in un grande
locale pieno di angeli e santi nelle pareti e sul tetto. Eravamo in Vaticano. Rimasi
incantata di tale e tanta bellezza, non avevo mai visto nulla del genere. Lì
c’erano uomini con i mantelli rossi e strani cappelli e monache vestite di nero
con colletti bianchi. All’improvviso tutti tacquero e si girarono con la testa
in su verso una balconata. Anche noi bambini alzammo la testa e vedemmo un
signore con un cappello a punta e un bastone che con una mano ci salutava. Non
so cosa ci disse, presumo che ci desse il benvenuto e la santa benedizione. In
seguito, attraverso le fotografie, riconobbi in lui Papa Pio XII. Dopo di che
delle suore ci distribuirono un sacchetto di carta marrone con dentro
caramelle, biscotti e cioccolatini. Uscendo sul piazzale ci aspettavano altri
pullman. Ci divisero in due gruppi, metà fummo mandati a Roma, gli altri a
Ostia Lido. Quando mi trovai sopra il pullman non vidi più mia sorella, era
stata mandata a Ostia. Mi misi a piangere e una suora mi venne vicino, le dissi:
“Aund’è me soru?” (dov’è mia sorella?). La suora non mi comprese: lei
non conosceva il dialetto e io non conoscevo l’italiano. Mi disperai tanto che
mi prese in braccio e cercò di tranquillizzarmi dicendo che presto l’avrei
rivista. Invece non fu così, la rividi dopo 24 mesi, io ero già a casa quando
lei ritornò da Ostia.
Ci
portarono in un collegio, ci diedero da mangiare e ci misero a letto. Nella
stanza dove dormivamo erano disposti in fila solo degli enormi letti, ognuno
occupato da due bambine, una che dormiva dalla parte della testa e una dalla
parte dei piedi. Il letto più vicino all’ingresso era quello della monaca che
dormiva con noi. A differenza dei nostri il suo era a baldacchino, circondato
da ampie tende bianche per evitare che qualcuna potesse vedere la monaca quando
si cambiava. Fu così che una notte vidi un qualcosa che dopo 70 anni è ancora
vivo nella mia memoria e non so se fosse sogno o realtà. Era buio e io stavo
con gli occhi sbarrati a fissare il letto a baldacchino. All’improvviso da
dietro le tende bianche vidi una luce come se fosse una candela accesa. La luce
si spostò verso di noi bambine che dormivamo. Mi sembrò che la luce avesse una
forma femminile, senza braccia e senza gambe, fatta di luce come un raggio di
sole. Fluttuando si fermò nel letto accanto al mio, abbassò la testa come un
inchino verso la bambina che dormiva e poi si rivolse verso di me. Io,
terrorizzata, mi rannicchiai sotto le coperte coprendomi completamente e da lì
non ricordai più nulla.
Il
primo giorno di scuola ci portarono in un altro edificio che era vicino al
nostro ma separato da un grande e bellissimo giardino. Lì ci aspettavano tante
signorine che parlottavano allegramente. Entrando c’era un corridoio lungo, le
aule erano disposte da una parte sola. La prima volta che entrammo c’era un
grande e giocoso parlottare, delle belle signorine ci accolsero con allegria.
Ognuna si avvicinò a noi coccolandoci, chiedendoci informazioni. Noi le guardavamo
stupite, non capivamo cosa dicessero. La vidi venire verso di me: bella, alta e
mora, i capelli ondulati cadevano sulle spalle, indossava una gonna stretta
fino al polpaccio ed un corpetto stretto in vita. Oggi potrei paragonarla a una
diva del cinema Mi abbracciò, mi prese in braccio ed io m'innamorai di lei. Nei
giorni che seguirono non vedevo l'ora di incontrarla. Ricordo solo il nome:
Margherita. Non so se fossero studentesse esterne o le nostre maestre. L'inverno
passò, venne maggio. Il giardino era fiorito.Della nostra famiglia non sapevano nulla. Quando mi prendeva la nostalgia della mamma mi
rifugiavo in un angolo e piangevo. Ci prepararono per la S. Comunione e per la
Cresima. La chiesa quel mattino era piena di fiori bianchi, noi eravamo in fila
col nostro vestitino bianco. Sembravamo tanti angioletti ad aspettarci c’erano
le nostre madrine. La mia, naturalmente Margherita, mise la sua mano sulla mia
spalla. Dopo la cerimonia ci portarono nel cortile accompagnate dalle nostre
madrine, Margherita mi diede un pacchetto. Dentro c'era una borsetta di rafia
rossa. Mi disse di aprirla. Oltre a caramelle e cioccolatini, c’erano 6 fazzolettini
bianchi con ricamo rosso e una scatoletta contenente una catenina d'argento con
3 ciondoli in filigrana: fede, speranza e carità. Margherita me la mise al
collo e lì rimase per tanti anni. Ero già a Milano quando la persi. Dopo 12
mesi, ritornammo a casa. Margherita mi aveva preparato un pacco con un
corredino di alta qualità. Così si concluse l'avventura cominciata male ma
finita bene. Un po’ di anni fa, tornando a Roma, mi venne in mente quella
bellissima ragazza che mi fece felice in quei giorni bui. Cercai il collegio
una mattina andai non era più come lo ricordavo. Bussai e mi venne ad aprire
una suora piuttosto anziana, le spiegai il motivo della mia visita, ma lei non
ricordava quel periodo. Mi disse che si erano ridotte a vivere in poco spazio
non avendo i mezzi per sostenere le spese. Quando mi fece entrare nella
cappella mi commossi perché era uguale a come la ricordavo. Rividi le bimbe
tutte vestite di bianco, tanta gente attorno a noi e quella stupenda ragazza. Lasciai
un pensierino per le suore quando le salutai. Un frammento della mia
fanciullezza se ne era andato, ma nella mente e nel cuore vive ancora.
Nelle foto di apertura Paola Violi – di Giuseppe e Domenica Virgara - a sette anni, il giorno della prima comunione. Di seguito Antonietta Romeo – di Bruno e Maria Rinaldo – di sei anni. Rosa, la sorella di Paola, quando partì aveva 5 anni Le suore che avevano ospitato le bambine erano le Bettlemite di Roma. Quel collegio dove soggiornarono oggi non esiste più.
-Lentini Giuseppe di Domenico Antonio di Alessandro, il
25.9.1848, in loco dicto licivota, tempore nocturno a fure Dominico Musolino
vulneratus est gladio et ideo in domo sororis suae, post trium Sacramentorum
susceptionem, animam Deo reddidit "Nel luogo
chiamato licivota di notte fu ferito con una spada dal ladro Domenico Musolino
e quindi rese l'anima a Dio nella dimora di sua sorella, dopo l'assunzione dei
tre Sacramenti"(Mo 25.9.1848).
-Lentini Giovanna di Dom. (Mo.13.8.1827) civitatis Oppidi.
-Lentini d. Pasquale (Mo 4.11.1824) sacerdote - vicario
foraneo.
-Trimboli d. Domenico (Mo.11.9.1829) arciprete di Cirella.
-Brizzi Maria (Mo.16.2.1849) da Ardore - vedova di Romeo
Domenico francisi
-Pezzano Maria (Mo.3.12.1849) da Ardore-vedova di Sergi
Carlo careja
-Fera m° Michele (Mo.29.7.1851) vir mf Nirta Candida, padre
dell' Arciprete di Polsid. Domenico
Fera.
-Fera d. Domenico (Mo 2.7.1856) arciprete rettore del Ven.
Santuario di Polsi, morto a 65 anni c., optimus sacerdos, egregius sator, verus
amicus, correptus podagra prope cor, et patientissime toleratis acerbissimis doloribus
per septem menses, praebens firma argumenta virtutis verae "Ottimo
sacerdote, notevole autore, vero amico, il cuore logorato dalla gotta e, sopportati
terribili dolori con grandissima pazienza per sette mesi, offrendo solide
testimonianze di autentica virtù". LIBRO DEI MORTI VOL. V°
Nota: Oscura e dispersa nel tempo e nella memoria il loco dicto licivota.
La traduzione dal latino la devo ancora una volta alla infinita cortesia della professoressa Gina Misdaris, già docente di Lettere Classiche al Liceo classico "Stellini" di Udine.
“Ti chiedo però di parlare, scriverete tornare in mezzo a noi calabresi. Scusa se la mia parola non è facile: sono un operaio”.
Ulisse – Crotone "Un giudizio netto,interamente indignato". Pier Paolo Pasolini
Pasolini e la Calabria [e Corrado Alvaro]
di Gaetanina Sicari Ruffo
Il giudizio di Pier Paolo Pasolini contenuto nel libro Le belle Bandiere - Editori Riuniti,
1991 – appare un po’ datato, ma essenziale e denso di significato, di forte e
chiara denunzia oltre che veritiero. In effetti si riferisce al 1960, anno in
cui Pasolini fece un viaggio nella regione e ricevette anche il rifiuto di
parlare in un Circolo di Reggio in Calabria che l’aveva prima invitato.
Lo scrittore risponde ad un lettore che gli chiedeva dei suoi rapporti
con la Calabria: “Tra tutte le regioni
italiane, la Calabria è forse la più povera: povera di ogni cosa: anche, in
fondo, di bellezze naturali. Per duemila anni è stata sottogovernata: ma
sottogovernata ancora peggio che la Sicilia o il Napoletano, o le Puglie, che,
in molti periodi storici sono state delle vere piccole nazioni, dei centri di
civiltà, in cui i dominatori risiedevano, almeno, ed avevano rapporti diretti
con la popolazione: gli Arabi in Sicilia, i Normanni in Puglia ecc. La Calabria
è stata sempre periferica, e quindi, oltre che bestialmente sfruttata, anche
abbandonata. Da questa vicenda storica millenaria non può che risultare una
popolazione molto complessa, o per dir meglio, con linguaggio tecnico,
«complessata››. Un millenario complesso di inferiorità, una millenaria angoscia
pesa nelle anime dei calabresi, ossessionate dalla necessità, dall'abbandono,
dalla miseria.
Nel popolo questi «complessi»
psicologici di carattere storico, possono dare, nei casi estremi, i risultati
più opposti: la più grande bontà - una bontà quasi angelica - e una furia
disperata e sanguinaria (la cronaca purtroppo ne parla ogni giorno). Una
popolazione esteriormente umile, depressa, internamente drammatica.
Tu forse sai che i «complessi››
psicologici impediscono uno sviluppo normale della personalità: così i calabresi
sono molto infantili e ingenui - e questo è del resto il loro grande fascino,
la loro più bella virtù. E quel tanto di contorto che c'è in loro è, in fondo,
infantilmente semplice.”
Fermiamoci a considerare questa prima parte del suo giudizio che in
generale riguarda il tracciato identificativo e storico della popolazione e
della terra calabrese all’epoca.
Potrebbe sorprendere l'espressione dello scrittore sul fatto che la
Calabria sia povera di bellezze naturali. Penso che intendesse che le sue bellezze,
innegabili per altro, fossero trascurare: discariche a cielo aperto, vie di
comunicazione precarie, scarsa cura del territorio, nessuna strategia per
rilanciare il turismo. Oggi dovremmo aggiungere pure il giallo dei rifiuti tossici, versati in alcune
località costiere e montane. Non è un delitto che pesa, a carico di chi
amministra, non certo della natura che non e stata generosamente protetta?
È una verità bensì che nell’aspetto dei luoghi resti la traccia profonda
di tanti secoli di abbandono e di malgogoverno. E’ una traccia che dura pure
nelle menti e ne condiziona i comportamenti.
In questo Pasolini rivela d’essere attento conoscitore dei moti d’animo
popolari anche quado parla del carattere dei calabresi che sono egli dice in
fondo molto infantili ed ingenui e quel
tanto di contorto che è in loro è in fondo infantilmente semplice. Ma
creduto ancora in questa semplicità se solo avesse potuto conoscere i numerosi
delitti delle famiglie di 'ndranghetista e la rovinosa diffusione del malaffare
in mezzo mondo? Non credo si possa parlare di fascino della semplicità della
gente Calabra che o era una favola malcelata o s’è definitivamente persa.
S’è detto tante volte da voci diverse dell’immobilismo meridionale, del
senso di stanchezza che sembra opprimere le popolazioni. Su queste componenti
egli ha una sua diagnosi: l’abitudine ad essere dominati ed asserviti ai tanti
dominatori che si sono susseguiti nel passato non ha certo creato stimoli ed
incoraggiato la ripresa in senso dinamico. E’ vero, ma questo retaggio non si
cancella mai? La natura spontanea o acquisita non può essere corretta e
modificata? Verrebbe da rispondere: sì, con la cultura. Ma questa non è una voce vincente e preponderante.
L'unico autore calabrese menzionato è Alvaro che tuttavia serve solo a
confermare l’arretratezza degli abitanti. Pasolini aggiunge: “La borghesia Calabrese, come tu sai, è di
formazione molto recente. Corrado Alvaro dice addirittura, con una boutade che
contiene però molta verità, che essa è nata in quest'ultima guerra, con la
«borsa nera››. E una borghesia recentissima, dunque, e quantitativamente
scarsa. Le forme più moderne di questa borghesia, mi pare si riscontrino a
Crotone: nelle altre grosse città calabresi, la borghesia è forse la peggiore
d'Italia: appunto perché in essa c'è un fondo di disperazione che la
irrigidisce, la mantiene, come per autodifesa, arroccata su posizioni
dolorosamente antidemocratiche, convenzionali, servili. Non è possibilista,
scettica, elastica come in altre regioni del Meridione, dove ciò che la salva,
è proprio la sua corruzione, cioè la sua antica esperienza. In Calabria,
ripeto, è rigida, moralistica: e perciò faziosa.
Sarà forse un caso, ma tutti i
giovani che ho incontrato casualmente o che mi sono stati presentati in Calabria
sono fascisti: dico, naturalmente, gli adolescenti di classe borghese. Questo
mi ha costernato. È un problema, quindi, che passo ai dirigenti politici: esso
mi sembra realmente grave, e da affrontarsi risolutamente. Da tutto quello che
ho detto qui sopra può risultare, infatti, storicamente chiaro che la borghesia
calabrese tende agli estremismi di destra.
Naturalmente c'è il Crotonese che
fa eccezione. Ed è per questo - per questa possibilità, per questa speranza che
il Crotonese autorizza ad avere - che io continuo ad appassionarmi a questo
problema, come se fosse mio, e non perderò certo mai occasione per parlarne: e
dire - sia essa gradevole
o no - quella che a me sembra la
verità.”
I problemi suggeriti da questa seconda parte di considerazioni di Pasolini
riguardano la borghesia, una classe che a sud ha attirato su di sé
prevalentemente le colpe del degrado e dell’arretratezza, non essendo riuscita,
dopo l’Unità, a rivelare autonomia e slancio di iniziative. Si e invece
vincolata con la prestazione dei voti, pur di essere privilegiata, ai gruppi parlamentari
che la sostenevano di volta in volta, senza avere a cuore i veri interessi dei
cittadini. Tutti sanno che l'annosa questione meridionale è cominciata da qui e
inutili sono stati i suggerimenti dei vari economisti e sociologi perché la situazione
mutasse. “La borghesia settentrionale ha
soggiogato l’Italia meridionale e le isole e le ha ridotte a colonie di sfruttamento”,
questa l'accusa di Gramsci per sottolineare l’inerzia di questa classe a sud, mentre
per Dorso la debolezza di tutto il sistema è venuta dall’assenza di una classe
media libertaria capace di risollevare le sorti compromesse dall’impasse di
tutta l’area. La classe operaia, che pure era stata protagonista di memorabili
lotte contro le prevaricazioni feudali negli anni prima e dopo il fascismo, non
ha avuto l'energia e i mezzi necessari per attuare quella rivoluzione
proletaria che era negli auspici del partito comunista.
Alle accuse di ieri si sommano quelle odierne che riguardano il
generale superamento della distinzione delle classi, ma non una pacificazione
sociale promotrice di progresso e di sviluppo. Ancor oggi l’economia è
stagnante e l’industria del turismo, che pure con successo potrebbe essere
impiantata, è solo una pia vocazione astratta. Mancano strumenti bancari adeguati e mezzi di
comunicazione rapidi ed efficienti.
Neppure i giovani che sempre lo scrittore ha considerato come promessa
del futuro spingono a ridenti speranze. Il motivo non nasce solo dalla loro
appartenenza a partiti di destra, com' è detto nella risposta pasoliniana,
quanto dalla dispersione che è intervenuta nei loro progetti, dalla
demotivazione che li caratterizza per carenza di lavoro e per necessità d’espatrio.
A ben vedere quindi il quadro prospettico calabrese, a distanza di decenni
è mutato, ma solo superficialmente. La grande utopia d’un partito comunista che
risana le piaghe e che dà vigore alla classe operaia per renderla matura e responsabile è pur
essa tramontata dopo la caduta del muro di Berlino. Si e generata una
confusione di ruoli e la nuova classe capitalistica ha fallito nelle sue mire
ed una generale grigia ed amorfa gora di sopravvivenza è subentrata. Il
privato ha avuto un gioco più libero di quello pubblico, ma non sempre schietto
e onesto. Si sono infiltrati gruppi di potere malavitoso cui si attribuisce in
maggior parte la stagnante e pericolosa deriva.
Calabria Sconosciuta n. 132
Anno XXVIVottobre - dicembre 2011.
NOTA La risposta di Pasolini al lettore che lo interrogava era apparsa
sul settimanale di attualità “Vie Nuove”, n. 49 a. XV, 10 dicembre 1960, fondato
nel 1946 da Luigi Longo, Pasolini collaborò con una sua rubrica dal 1960 al
1965.
«Cara Francesca, amata collega, per noi sei sempre stata di grande
esempio: per la tua preparazione professionale, per il tuo comportamento
signorile e per la tua distinta saggezza. Ti prodigavi in favore del prossimo
sofferente perché tu l'amavi. Ti bastava solo di renderti utile, senza mai
badare alle tue
sofferenze fisiche...»
(Sig.na Zemira, a nome delle Ostetriche della Zona di Locri)
«... Siete stata per tutto il popolo di Platì la maestra di
vita, l'amica, la sorella, la mamma. E oggi, sono proprio le mamme di Platì a
sentire maggiormente il vuoto che avete lasciato. Ma resterà sempre vivo il
ricordo della vostra abnegazione, del profondo attaccamento al lavoro che ha
minato la vostra salute e vi ha improvvisamente stroncata»
(Prof, Pasqualino Violi)
«Amici, l'incontro che noi facciamo in questi luoghi sono incontri
di pianto di dolore e di amarezze ... Oggi questo calice di amarezza lo sente
l'intero paese perché ha perso colei che con il suo sorriso sapeva portare la
sua parola di conforto a qualsiasi creatura umana colpita da sciagura o anche
umiliata dall'ingiustizia umana. Sembrava che il Redentore che ha creato l'universo
avesse mandato Lei come angelo consolatore del nostro paese.
Cara Donna Ciccina camminavate nel paese di Platì meravigliosamente
bella e amata da tutti. I vostri comportamenti e la vostra educazione facevano
crescere l'amore e il rispetto nell'intera comunità. E proprio per questo, cara
Donna Ciccina, se potevate risorgere per un momento e dare uno sguardo
intorno, allora sì che vedevate la grande realtà di un
popolo compatto che con le proprie lacrime bagna questo feretro dove giace il
corpo della nostra grande dottoressa...»
(Sig. Rocco Zappia)
(dai discorsi tenuti durante le esequie) Donna Ciccina Portolesi, meglio nota come "a mammina", era la moglie di don Bertinu, mamma di Nino e Tota già ricordati in queste pagine.
Nella primavera del 1957 si costituì un Comitato per elevare Locri a capoluogo di una provincia con 42 Comuni che aveva i confini a nord con Monasterace ed a sud con Palizzi, il mar Jonio e l'Aspromonte i restanti limiti. Platì e la sua area rientravano di buon diritto nella vagheggiata provincia.
-Lentini Raffaele Pietro Paolo (Mo. 14.7.1872/25) di d. Pasquale
e d. Marianna Brancatisano.
-Scruci Maria (Mo. 23.4.1872/14) da Cirella- ved. di Trimboli
Antonio.
-Taliano Francesco (Mo. 1/134/9)(+2.9.1782) lasciò per l'
anima sua ducati 10 a sua moglie tutrice delle figlie e due vacche; la roba
vendè di dote; una vacca a suo figlio Nicola; come pure spiegò per sua volontà
che sua moglie dimorasse in casa padrona finché vive = che tiene due pupille
figlie. Testimoni d. Giulio Chirico - Domenico Trimboli.
-Antonina Romeo (Mo. 1/80/3) figlia del mf Carlo, il 22.4.1.1751
lasciò pro malis oblatis quinque Carolenos (a causa del male offrì cinque
Carlini).- d. Tolentino Oliva parroco.
-Lentini d. Pasquale: sacerdote e vicario foraneo (Mo.
4.1.1824)
-Verduci mf Caterina; vedova di Lentini Candido
(Mo. 24.12.1834)
-Rinaldo Dom. Antonio animam Deo reddidit in imbrica die et gelida, in loco dicto "petra librorum" (l’anima rese
a Dio in un giorno piovoso e gelido, in luogo detto “pietra dei libri”.
-Oliva Vincenzo di Michele
e Speziale Francesca- acolytus
(accolito).
-Oliva Michele di Saverio e di Macrì Serafina pugione
sauciati (ferito da pugnale) (Mo. 7.3.1832)
-Barbaro Domenico- vir
di Morabito Anna- pecoraro (Mo. 1.8.1834)
-Giorgi Rosa ved. di Milardi Giuseppe sarto (Mo. 8.4.1834)
-Oliva d. Giuseppe sacerdote (Mo. 4.1.1827)
LIBRO DEI MORTI VOL. V°
Faccio presente ancora una volta che quanto riportato è un regalo di Ernesto Gliozzi il giovane.
Il ricordino funebre riporta la zia Teresina Mittiga, sorella del nonno Rosario nata a Platì l'8 luglio del 1887 da Francesco e Rachele Riganò e deceduta in Pittsburg PA il 15 ottobre del 1969. A Platì il 2 dicembre del 1911 sposò Giuseppe Gliozzi di Ferdinando e Pangallo Teresa. Erano i genitori di Giuseppe Gliozzi recentemente scomparso e su queste già ricordato assieme alla sua consorte Michelina Perri.
(F.C.) -- Il torrente
Careri sembra voler ripagare, sia pure in piccola parte, i natilesi del male
loro arrecato in ogni tempo. Ed infatti recentemente, tre cittadini di Natile
Nuovo hanno abbondantemente pescato sulle sue sponde una eccezionale qualità di
anguille.
Dopo aver eseguito «la stagliata» che consiste nel rendere asciutto
una parte di letto del fiume, essi si sono accinti alla pesca che ha fruttato
in una sola stagliata, ben 10 chilogrammi di fresche anguille. Ciò considerato,
giovani del paese ed anche forestieri invadono giornalmente il greto del
torrente .e si dedicano alla pesca con amore e con passione.
-Furore d. Francesco (Mo. 19,12.1886/56) di d. Giosofatto e
d. Elisabetta Oliva; sacerdote.
-Romeo Domenico (Mo.29.1.1887/6) di Bruno e Pisto Rosa;
ruris Cirella.
-Sansalone Angela (Mo.2.5.1887/31) di Antonio e Murdaca
Caterina, ved. di Larosa Vincenzo; da Siderno.
-Marrapodi mf Filomena (Mo.21.5.1887/36) di Giov. Batt. e
Morabito Francesca, ved. di Rosario Mittiga.
-Raffaele Isabella (Mo.2.7.1887/40) di Giuseppe e Taliano
Serafina: morì a 3 mesi.
-Fera mf Concetta (Mo.4.8.1887/46) di Dom. Ant. e Portulesi
Caterina; ux di Domenico Portulesi.
-Mottareale d. Concetta(Mo.1.11.1887/68) dalla città di
Reggio; moglie di d. Carlo Flesca.
-Fera d. Francesco (Mo.25.8.1872/44) farmacista, di Michele
e mf Candida Nirta, marito di d. Giuseppa Taliano.
-Oliva d. Stefano (Mo.25.7.1872/28), doctor legis aetatis
suae an. 49 cr., filius q. m d. Michaelis et d.ae Franciscae Speziali, affectus
morbo dicto "spleniti subacuta" con infiammo alla milza e tubo
intestinale, rurem S. Ilarii petiit obaëris mutationem, patientissime toleratis
diri morbi gravissimis doloribus per tres menses, singulari devotione receptis
Sacramentis Poenit.,Euch. Et extemae Unct., Divinae Voluntati plene submissus,
die 25 m.Julii Divo Jacobo apostolo dicato, inter singultos et amplexus suorum
consanguineorum, a semetipso animam suam Deo commendans, dulciter expiravit
circa horam XIV eiusdem diei. Vidt ortum solis praedicti diei sed ad eius
occasum iam non erat. Anima sua in coelum advolavit ut se coniungeret cum suis
Genitoribus, et corpus suum nunc requiescit in EcclesiaS. Ilarii insepulcro de
Familia Speziali. Subscriptus frater defuncti dolenter assistens supremis horis
vitae suae, petit humiliter et enixe a Deo pro ipso defuncto pacem et requiem
sempiternam, necon gratiam videndi eum post mortem in Paradiso, et haecpauca verba scribit ad futuram rei memoriam. In q.m fidem etc. Philippus Archipr.
Oliva
Il dott. Oliva Stefano (morto il 25/7/1872/28) dottore in
legge, 49 anni, figlio di Michele e di donna Francesca Speziale,
affetto dalla malattia detta “splenitesubacuta”, con infiammazione della milza e del dotto intestinale, cercò
un cambio dell’aria presso la campagna di Sant’Ilario, sopportati con estrema
pazienza i terribili dolori della crudele malattia per tre mesi, ricevuti con
incredibile devozione i Sacramenti della Penitenza, Comunione ed Estrema
Unzione con incredibile devozione. Completamente sottomesso alla Divina
volontà, nel giorno 25 di luglio dedicato al divino apostolo Giacomo, tra i
singhiozzi e gli abbracci dei suoi parenti, affidando da solo la sua anima a
Dio, serenamente morì all’ora quattordicesima di quel giorno. Vide il sorgere
del sole del giorno citato ma al suo tramonto già non c’era più. La sua anima
volò in cielo per congiungersi con i suoi genitori e il suo corpo ora riposa
nella chiesa di Sant’Ilario nel sepolcro della famiglia Speziale. Il
sottoscritto fratello del morto che lo assiste nel dolore nelle estreme ore
della sua vita, chiede umilmente e con forza a Dio la pace e il riposo eterno
per lo stesso defunto e la grazia di vederlo dopo la morte in Paradiso e scrive
queste poche parole a futuro ricordo della situazione. In fede Filippo Oliva
Arciprete.
La traduzione dal latino la devo alla cortesia della professoressa Gina Misdaris, già docente di Lettere Classiche al Liceo classico "Stellini" di Udine.
“Da
quando venne permesso l'impiego del DDT per usi civili, abbiamo assistito ad un
costante aumento di produzione di composti chimici sempre più tossici. E questo
è avvenuto perché gli insetti, in una trionfale rivendicazione del principio di
Darwin della sopravvivenza degli individui più atti, si sono man mano evoluti in
razze più resistenti, immuni agli insetticidi usati fino allora.”
“Dopo
molti anni di irrorazione con DDT, i pettirossi e gli storni sono praticamente
scomparsi; da due anni non vedo più cince sul mio davanzale, e quest’anno anche
i cardinali se ne sono fuggiti; in tutto il vicinato hanno fatto il nido
solamente un paio di tortore e, forse, una famiglia di mimi.”
RachelCarson,
Primavera silenziosa, 1962
Igiene a Platì
Platì, 21 giugno
(M.F.) - Molte istanze ci vengono rivolte dai lettori a proposito
della annuale disinfezione gratuita col D.D.T., che quest'anno tarda ad
arrivare. Noi siamo comprensivi, e assicuriamo che se fosse in nostro potere disinfetteremmo
il mondo col prezioso liquido. Ma a disinfettare questa minuscola parte di
mondo platiese, ci pensi finalmente l’amministrazione comunale.
A Platì si attende
la disinfezione col DDT
Nonostante le numerose istanze rivolte alle autorità sanitarie
per la disinfezione annuale delle abitazioni col D. D. T. le mosche continuano indisturbate,
a infelicitarci la esistenza. Nei vicini centri di Careri e Natile, molto più
piccoli del nostro, la disinfezione è stata effettuata.
Platì destinato a rimanere senza D.D.T.
Platì, 22 luglio
(M.F.) - Sono passati ieri dal nostro centro alcune squadre
degli operai addetti alla disinfezione delle campagne col DD.T..
Nonostante le preghiere e le implorazioni dei cittadini
assetati del prezioso liquido, le squadre inesorabilmente sono passate oltre.
Pare che il nostro centro non sia compreso tra quelli che debbono essere
disinfettati.
Attuare a Platì
la disinfestazione col DDT
(M.F.) - Con la mancata attuazione dell’annuale disinfezione
col D.D.T., le autorità a ciò preposte ci costringono a sottoporci a un
cosiddetto “camoleggiamento” di terzo grado, da parte delle mosche e delle
zanzare. Perché non provvedere?
Igiene pubblica a Platì
(M.F.) Richiamiamo l’attenzione delle autorità su un
argomento che comincia a scottare, all'unisono con l’attuale ondata di caldo.
Si tratta della disinfezione dell’abitato mediante il D.D.T., disinfezione che
a Natile e Careri pare sia stata già effettuata e che a Platì pare non si abbia
intenzione di effettuare.
Il provvedimento è della massima urgenza, giacché mai prima
d'ora s'era visto un tal nugolo di mosche, di zanzare, etc.
Platì ha bisogno di D.D.T.
Platì, 24 agosto
(M.F.) Preghiamo il medico provinciale di interessarsi
perché nel nostro centro venga, spruzzato, come ogni anno trascorso, un
centinaio di ettolitri di D.D.T. contro le mosche e le zanzare.
Tutti gli articoli apparsi nell'estate del 1957 sulla GAZZETTA DEL SUD sono di Michele Fera.
Dubito che il libro di Rachel Carson sia mai apparso a Platì
o che qualcuno lo abbia letto, e non sapremo mai quanti ebbero a patire gli effetti di quelle
nebulizzazioni continue che ricorderò sempre per l’odore che emanavano e anche perché
a tutti i bambini piaceva andare per casa con quel micidiale spruzzatore che
NON ADDORMENTA fulmina! Gli americani quando si trattava di cospargere la terra di
veleni pensavano solo al profitto, vedi l’uso del Napalm in Vietnam.
(M. F.) - Negli ultimi giorni è scoppiata in alcune zone del nostro
centro la peste suina. La notizia è stata data dal sanitario competente.
La malattia non ha ancora mietuto che poche vittime.
Igiene
a Platì
(M.F.) -- Il nostro centro è abbandonato in balia delle mosche e di
tutti gli altri insetti più scoccianti (ortotteri, afanitteri, ditteri atteri,
lepidotteri ecc.), perché le autorità non intervengono?
Epidemia
a Platì
di
colera aviare
Sì è sviluppata rapidamente nel nostro centro una epidemia di colera,
aviare, che ha colpito indistintamente, galline, oche, tacchini, ecc.
In questi giorni epidemici infettanti infetti ecco gli eventi
pestiferi accaduti nel secolo scorso a Platì, allora
i nemici erano ortotteri, afanitteri,
ditteri atteri, lepidotteri ecc e i media sociali inesistenti.
-Floccari Saverio (Mo.12.2.1883/8) di Dom. e di Furore
Maria, mutus a nativitate (muto dalla nascita).
-Ciampa mf Giuseppa (Mo.16.2.1883/9) di Giosof. e Gregoria
Mittiga, ux. Violi Pasquale.
-Marando mf Maria (Mo.6.3.1883/17) di Rosario e Ciampa
Caterina, ux. Violi Rocco.
-Buccafurni mf Rosa (Mo.25.5.1883/37) di Carmelo e Noto
Elisabetta.
-Mittiga Domenico (Mo.16.7.1883/45) di Agostino e Catanziti Elisabetta,
vir mf AngelaMorabito.
-Mittiga Rosario (Mo.31.8.1883/47) di Dom. e mf Angela
Morabito, vir mf Filomena Marrapodi, sutor (calzolaio).
-Oliva d. Francesco Anselmo (Mo.23.9.1883/63) di d. Michele e
di d. Gaetana Empoli.
-Oliva d. Mariantonia (Mo.15.3.1883/68) di d. Michele e d. Gaetana
Empoli.
-Gliozzi Rocco Diego (Mo.2.11.1883/73) di d. Ferdinando e mf
Elisabetta Pangallo, morì all' età di 20 giorni.
-Carbone Anna (Mo.5.12.1883/80) di d. Domenico, ved. di
Giuseppe Puzzo.
-Furore d. Giosofatto (Mo.5.7.1884/29) di d. Fortunato e d. Paola
Portulesi, dottore.
-Oliva d. Giuseppa (Mo.5.8.1884/36) di d. Stefano e d. Elisabetta
Speziali, nubilis et optimis praedita moribus (nubile e dotata di buoni
costumi).
-Violi Rocco (Mo.8.10.1884/44) di Antonio e Teresa Floccari,
loco dicto S.Nicola, fulgure correptus, statim clausit diem supremum (colpito
da un fulmine in località detta San Nicola, all’istante andò incontro al giorno
supremo).
-Strangio Antonio (Mo.8.10.1884/45) di Giuseppe e Trimboli
Francesca, virdi Sergi Caterina, loco
dicto S.Nicola, fulgure correptus eodem quo Violi Rocco, statim obiit (colpito
da fulmine come Violi Rocco in località San Nicola è morto).
-Forgione Rosario (Mo.27.11.1884/51) di Giuseppe e Francesca
Mosca, vir di Romeo Anna.
-Mittiga d. Teresa (Mo.28.12.1884/56) di Rocco e mf Giuseppa
Perre, ved.di d. Domenico Zappia. Morì a 93 anni.
-Bellè Maria (Mo.10.2.1885/11) di Pasq. e Musolino
Elisabetta, ved. di Bartone Giuseppe.
-Oliva d. Pasquale (Mo.13.4.1885/18) di d. Giuseppe e d. Teresa
Barletta.
-Oliva d. Maria Francesca (Mo.11.9.1885/36) di d. Giuseppe e
d. Teresa Barletta.
-Gliozzi Maria Francesca (Mo.5.11.1886/45) di d. Luigi e d. Assunta
Lopez; morì ad 1 mese di età.
-Zappia mf Francesco (Mo.22.11.1886/51) di Pasquale e Rosa
Sergi, vir d. Domenica Zampogna.
-Papalia d. Rosario (Mo.11.12.1886/54) del dott. fisico d. Vincenzo
e d. Filomena Cufari; morì all'età di 3 mesi.
I latitanti dell'Aspromonte sarebbero duecento, a detta di Bartolomei, ex procuratore generale del1a Corte di Catanzaro; per venirne a capo non occorrerebbe meno della forza dell'esercito repubblicano. I carabinieri, stando così le cose, non ce la farebbero. L’ipotesi suscitò, qualche tempo fa, ondate di indignazione. Si è voluto riconoscere in essa un indizio di propositi antidemocratici o un segno di sfiducia nei riguardi dei carabinieri e della popolazione. Si sarebbe dovuta vedere invece una constatazione di fatto.
Ma perché si è |arrivati a tal punto? Perché i carabinieri non incutono più timore ai malviventi? Il timore nasceva dal rispetto. Perché il rispetto è venuto meno?
C'è una bella novella di Alvaro, «Il canto di Cosima» nell'«Amata alla finestra», in cui un latitante, il Timpa, alla ricerca di Cosima, la sua infelice amante, anche nei momenti più gravi manifesta il rispetto per chi ha l'impegno di catturarlo, il carabiniere Delfino. Dice l'Alvaro: «Il Timpa pensava che un giorno le sarebbe rimasto accanto a curarla, e nella sua fantasia arrivava a patti col Delfino, sentendo alla fine di volerlo bene perfino a lui che lo cercava per ammanettarlo, come succede talvolta tra nemici aperti».
Erano tempi, quelli, in cui la fantasia di uno scrittore austero, come l'Alvaro, poteva trovare senza romanticherie segni di umanità tanto nel latitante che nel suo persecutore. Oggi le tensioni sociali sono esplose; la perversità he raggiunto estremi raccapriccianti. L’audacia dei malviventi non conosce limiti al suo operare.
Ma non è detto che i malviventi, di allora - mi riferisco al primo quarto di questo secolo - fossero degli agnellini che non sapessero uccidere. Non è detto che per varie ragioni sociali non trovassero nella popolazione soccorsi più o meno volontari. E’ un fatto però che era possibile tenerli a freno forze limitate di polizia.
Può essere interessante risalire dalle notazioni di Alvaro sul carabiniere Delfino, alla figura di lui, ch’era nella realtà il maresciallo Delfino, la cui vita strenua spiega tanto i suoi successi strepitosi nella cattura dei malviventi quanto, la fama di chiaroveggenza e di invulnerabilità che lo distingueva.
Nacque a Bova, in provincia di Reggio Calabria, nel 1888, e si arruolò carabiniere a vent’anni nel 1908, in risposta al furto di bestiame che la sua famiglia contadina aveva subito. Giurò che l’avrebbe fatta pagare cara ai malviventi; e per tutta la sua vita mantenne l'impegno. Si distinse per la sua opera di soccorso nel terremoto di Reggio e Messina. Sapeva appena leggere, aveva fatto la terza elementare, ma imparò subito il gergo dei mafiosi e le loro norme in un codice trovato per caso a Platì tra le foglie di granoturco di un giaciglio. Armato di quella cultura, si introdusse nelle fila dei malviventi.
Nel Nicastrese. sulle montagne della Sila Piccola, camuffandosi da ladro, sgominò una banda che, guidata da un disertore, imperversava. Una volta fece da palo alle loro imprese. Quando gli fu possibile, comunico ai carabinieri il posto della cattura.
Venne a capo di associazioni mafiose nel 1927 e nel 1936, nei paesi dell'Aspromonte orientale, con centinaia di arresti ben motivati, che determinarono sempre condanne esemplari. Il maresciallo Delfino non si ingannava sulla sua clientela.
Era collegato con una ditta di Napoli che gli forniva barbe finte, sai di monaco questuante, abiti da pastore, da carrettiere, cenci di mendicante. Una volta si vesti da accattone, girando per il paese di Cirella. Trovava ospitalità nei fienili. Di giorno concentrava la sua cerca nei pressi dell'ufficio postale. Sapeva che un ergastolano evaso - aveva commesso diversi omicidi - intendeva ritirare i risparmi depositati, per emigrare in America, e lo aspettava.
Comparve infatti l’ergastolano su una mula, col fucile a tracolla, davanti all’ufficio postale. Delfino tirò la pistola e impose le mani in alto. L'ergastolano sorpreso si lascia ammanettare. Delfino lo porta, solo, a Platì, attraverso le montagne, delle quali nessun latitante osava contrastargli il passo. La signora soltanto dell'ufficio postale pretese la restituzione dei soldi che gli aveva dato in elemosina.
Venne a capo di un’associazione a delinquere a Platì, lusingando un vecchio «'ndranghetista» che si era messo in testa di cambiare mestiere per fare il carabiniere. Il maresciallo Delfino gli fece intendere che la cosa era possibile e una sera, invitatolo in caserma, gli lesse un telegramma falso del Comando che lo nominava carabiniere ausiliario. Bisognava festeggiare l'avvenimento e il maresciallo Delfino organizzò il banchetto nella stessa caserma. Gli fece indossare la divisa e lo portò davanti allo specchio perché si mirasse. Qui accadde un colpo di scena pirandelliano perché il vecchio «'ndranghetista» sentendosi un altro, rivelò tutti i segreti che aveva, gli abigeati che da lui e dagli altri erano stati commessi, sicuro che ormai in quello stato, non avesse avuto più nulla da temere. Arrestato per primo, fu riconosciuto colpevole e condannato. Ma quando uscì dal carcere, un colpo di lupara alla schiena lo stroncò come traditore, mentre accudiva ad alcune pecore in un ovile.
Del suo fiuto poliziesco si racconta il seguente episodio. C'era il medico Fera a Platì che aveva accanto alla sua casa un pollaio con ottanta galline. Una notte sparirono. Il medico non aveva alcun sospetto; ma il maresciallo Delfino domanda: «Mi volete dire che cure avete prescritto ai vostri ammalati nei giorni precedenti?». Il medico Fera si sforza di ricordare e infine assicura che a un tale aveva ordinato pastina con brodo di pollo.
«Basta così», gli risponde il maresciallo Delfino; va nella casa del presunto ammalato e in una stalla contigua scopre settantanove galline; l’ottantesima era stata mangiata.
Scriveva bene i rapporti ai suoi superiori; ma non era forte in grammatica; e della punteggiatura conosceva solo, come certi matematici, il punto. Un tenente novellino gli contesta, nella caserma di Bianco, gli errori. Il maresciallo Delfino cercò di farsi aiutare da un carabiniere che gli pareva più istruito di lui. Ma questi non trovava nessuna virgola da aggiungere. «Sai come facciamo?», gli propose il maresciallo, «Facciamo così!». Intinse il pennino nel calamaio e, battendo la cannuccia, spruzzo il foglio con puntini d'inchiostro. «Non potranno dire che non ce li ho messi!».
Ma si rivolse al padre di Corrado Alvaro, ch’era maestro a San Luca, e prese lezioni di grammatica come uno scolaro. Divenne suo amico le gli offriva i suoi servigi quando andava a Catanzaro, dove il giovane Alvaro era studente al Liceo Galluppi.
Si incontravano sulla piazza di San Luca e il padre di Alvaro domandava: «Maresciallo, novità per Catanzaro?».
«Preparate il pane per domani».
La madre di Alvaro faceva il pane in casa per il figlio; tagliava il pane in due e metteva dentro la frittata. Quella era la colazione che veniva portata al figlio studente.
Nacque così la fiducia di Alvaro per l'umanità di lui, della quale notò poi alcuni tratti nel «Canto di Cosima».
Ma io, scrivendo ancora del maresciallo per suggestione delle parole di Alvaro, posso ricordare altri aspetti della sua umanità: che rifiutò di prendere la tessera fascista, pagando con la mancata promozione a maresciallo maggiore: egli che era stato insignito di medaglia d'argento o di bronzo, nonché di altri riconoscimenti al valore.
Non. so se avesse idee chiare di politica. Probabilmente il buon senso gli avrà fatto le veci della cultura che non aveva. Avvertiva in anticipo gli antifascisti delle perquisizioni che doveva fare. Per delicatezza si rifiutava di controllare la corrispondenza. dei confinati politici. Apriva per dovere di ufficio le lettere arrivate e senza leggerle le consegnava ai destinatari perseguitati.
Mario La Cava
Gazzetta del Popolo, Mercoledì 30 marzo 1977 e ripubblicato su: calabria sconosciuta rivista trimestrale di cultura e turismo anno XI - n. 40 gennaio-marzo 1988