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domenica 1 maggio 2022

Vivere fino in fondo [di Mark Pellington - 1997]


Si fa certo da me, sottoscritto Medico Chirurgo, che il Sig. Gliozzi Francesco fu Domenico trovasi dal 1898 in qua gravemente infermo, anzi con processo morboso assolutamente inguaribile, in seguito ad emiplegia, e, quindi, a sclerosi dei cordoni posteriori del midollo spinale, consecutivamente ad emorragia cerebrale, o come conseguenze anatomo-patologiche di essa, tanto, che l’ammalato in parola si è reso, per la paralisi quasi generalizzata, in modo affatto inabile, incapace a qualsiasi movimento degli arti posteriori.
Si rilascia il presente certificato allo stesso Gliozzi in carta informe ad uso esclusivamente di pensione.
Platì, 9 Agosto 1909 (dico 9 Agosto 1909)
                                                                                   Dottor Papalia Vincenzo


Una biografia di Francesco Gliozzi di Domenico e di Gliozzi Elisabetta è apparsa qui: https://iloveplati.blogspot.com/2012/01/correva-lanno-di-grazia-1870-reg.html
Per memoria di Luigi suo figlio la data di decesso risulta essere 14/05/1909 in contrasto con il documento sopra riportato a firma dell’istorosofo dottor Papalia Vincenzo.

giovedì 21 aprile 2022

La guerra continua [di Leopoldo Savona - 1962]



Perdimmu la guerra cu’ li nglesi
ora simu tutti disarmati;
eppuru Mussulini accussi dici
disarmau li greci e l’arbanesi
e si pigghiau puru li spiti.
Vi pregu amici mei non v’affriggiti
ca cu lu parmu chi misuramu simu misurati;
lu merlu e la marvizza chi dici?
Ora cazzi ca mi sparati:
mi mangiu ‘a livi e nenti mi faciti.
Puru lu lepru cu’ li ricchi tisi
ora li poti levari smandalati.
Oramai lu popolu borghisi
si trovanu tutti quanti disarmati
se lu ppura la gurpi apoi viditi
li gajini sunnu tutti sterminati.
La gurpi é latra, chi vui lu sapiti,
si fa patruna di li cerdinati.
Se lu ’ppura lu lupu chi diciti
si mangia li pecuri e puru li crapi.
E li pasturi vogghiu mu avvertiti
nt’e casetti nommu dorminu squatati.

Il testo riportato è conservato, senza titolo, nell’archivio personale di Ernesto Gliozzi il vecchio. Mimmo Marando sulla rivista PLATI’, gennaio ’98, lo attribuisce ad un anonimo platiese, anno 1943 e con il titolo Storia d’i scupetti (1945), un po' diverso nell’incipit e senza nessun commento. È probabile che, come molti altri testi pubblicati da Mimmo, fosse appartenuto alla famiglia di Michele Fera. Secondo un esperto di poesia calabrese a cui è stato inoltrato, il carattere cantilenante dell’opera è tipico dei primi anni del millenovecento nella poesia dialettale calabrese.

In apertura la Valle del Bonamico con sullo sfondo Pietra Cappa in uno scatto di Giuseppino, dottor, Mittiga, dei primi anni ‘20 

mercoledì 20 aprile 2022

La colomba non deve volare - Nnuzza alla Pietra d' Angela

Del resto l’ambiente nel quale viveva la ragazza era saturo di connessioni simboliche asserite con grande serietà e senza il minimo dubbio”. Ernesto De Martino, La terra del rimorso, 1961

Ritengo il racconto di Saro Zappia, qui apparso,* come il più importante sin ora pubblicati. Se non altro per il suo carattere etnoantropologico, socio-culturale, psichiatrico e psicologico. Chi ha dimestichezza con i testi di Ernesto De Martino o quelli di Sigmund Freud vi trova un’enorme quantità di informazioni che spiegano il carattere, il comportamento e il subconscio di Nnuzza, la protagonista. Tutto questo è confermato da una conversazione con Filippo Zappia, fratello di Saro. Nnuzza di cognome andava Catanzariti ed in casa del Surrosariu era tata e collaboratrice domestica. La casa dove abitava alla Pietra d’Angela l’aveva acquistata da Domenico «u giarruni» Catanzariti, e là trascorse il resto della propria esistenza. Quella dove era nata sul finire del XIX° secolo, all’Ariella, catoiu nel testo citato, era un mono locale di quattro metri per quattro circa, con alle spalle l’aperta campagna. L’episodio, drammatizzato da Saro Zappia, come molti possono ricordare, è realmente accaduto. Se Rosario Zappia si fosse dedicato alla vita letteraria più che a quella forense, forse avrebbe eguagliato Pasqualino Perri se non superato, e noi avremmo avuto un altro generoso letterato a cui far riferimento.

*https://iloveplati.blogspot.com/2022/04/la-colomba-non-deve-volare-di-sergio.html

Questa volta anonimo è il fotografo. 


lunedì 18 aprile 2022

Il fiore delle mille e una notte [di Pier Paolo Pasolini - 1974]



IN PROSSIMITÀ DELLA STATALE 106
La raccolta dei gelsomini
nella Valle di Bruzzano Zeffirio
È un lavoro veloce e delicato che dev'essere svolto con calma
Tra un coro e l'altro le belle giovani sognano ad occhi aperti
 
Bruzzano Zeffirio, 2 dicembre
II viandante notturno che da Reggio Cal.., percorrendo la statale 106 che guarda gli incanti dello Ionio, si sposti verso Catanzaro e voglia fermarsi nel tratto di strada che tra i paesi di Brancaleone e di Ferruzzano costeggia contrada Manzo appartenente al comune di Bruzzano Zeffirio, vedrà una vallata di alberi ed arbusti appena chiazzata dalle diafane luci delle stelle, maliziosamente accarezzata dal murmure delle onde che fomitano sulla soffice sabbia il tormento di antichi eroi Omerici che ancora gli irati Dei costringono ad errare di scogliera in scogliera per l'eternità.
Udrà un canto aleggiare fra gli arbusti, sperdersi in dolce armonia con un profumo meraviglioso verso le stelle, ed avrà l'impressione di sognare. Crederà per un attimo che le sirene, stanche di attirare sulle scogliere gli incauti naviganti, dopo avere abbandonato i dolci lidi, si siano trasferite a cantare la loro fatalità sulla terraferma, all'ombra di alberi ed arbusti. In quel grandioso giardino dove a migliaia crescono i gelsomini, questi strani minuscoli fiorellini bianchi dal suadente profumo.
Ma chi, verso l'alba e quando il sole dopo essere filtrato attraverso il rosso candore che in lunghe strisce si adagia al di sopra del mare in quell'ora maliosa, voglia sostare a lungo perché stanco del cammino o perché attratto da qualcosa d'insolito, vedrà una sterminata pianura di verdeggianti, filari cosparsi di bianchi fiorellini e tante donne, piccole e grandi, dai lunghi stivali e dai fazzoletti variopinti come vuole la tradizione più antica della Calabria, allungare vorticosamente le mani in un carosello che ha del miracoloso, strappare due, cento, mille fiorellini, riporli con cura nel sacchetto che ognuna tiene appeso alla cintola.
In quel luogo, per tutto il periodo estivo e sino all'ottobre inoltrato, si svolge la raccolta dei gelsomini, è un lavoro veloce e delicato perché  si deve pensare a raccogliere quanti fiorellini è più possibile e nello stesso tempo badare a non rovinare le piante che sono di una delicatezza estrema.
Le principianti dopo un lavoro di sei e sette ore riescono appena a raccogliere tre chili; ma le anziane, forti dell'elasticità acquisita in anni di esperienza, raccolgono anche sette e più chili.
Il lavoro viene svolto con calma e con gioia, e tra un coro e l'altro, le belle fioraie hanno tutto il tempo di sognare, là che il murmure del mare e la suadente bellezza del cielo cosparso di stelle invitano ai sogni, il loro principe azzurro.
Il maggior contributo di donne alla raccolta viene dato dal paese di Bruzzano che si trova a pochi km. di distanza, nell'interno, e precisamente nella tremenda vallata che guarda il grigio Scapperrone, i monti di Bova e le rosse timpe di Ferruzzano.
A Bruzzano, ogni notte, quando l'orologio della torre Civica tuona fortemente il rintocco delle ore piccole, deboli lumi si accendono nelle case e il silenzio delle vie viene rotto dal tonfo misurato degli stivali e dalle voci delle amiche che invitano alla sveglia le più pigre.
All'uscita del paese attende un rombante camion, e come ogni notte, come sempre e da anni ormai, non appena l'ultima donna è salita, parte ver so il luogo del lavoro.
Naturalmente non si marcia in silenzio perché il fatale mistero della Calabria, questa terra antica e favolosa che ama fomitare tutt'intorno da ogni albero, da ogni zolla e da ogni creatura, la sua pietà e la sua forte malinconia, spinge tutte le donne al canto; ed un sol coro si eleva allora verso il cielo in un'ansiosa ricerca di felicità e di bene, svolge lentamente, pacatamente, l'antico dramma di questa terra.
Sul luogo del lavoro, intanto, con altri mezzi sono giunte le donne di Brancaleone, civettuole e vanitose di quella vanità che è propria di chi vive nella marina; quelle di Razzà, serie e composte; quelle di Platì, silenziose ed austere; ed allora, tutte insieme, si dà inizio alla raccolta.
Compostamente, due per filare, incominciano a spogliare gli arbusti, alti qualche metro, dei bianchi leggerissimi fiori.
Cosi, per ore, immerse nel chiarore vellutato di queste notti d'estate piene dì stelle e di lucciole, raccolgono la loro vita, il pane quotidiano; e cantano canzoni vecchie quanto i tempi che i padri hanno ereditato dai padri e tramandato ai figli in questa fuga verso l'eterno che la Calabria nemmeno avverte, immersa com'è nel suo fatale lento cammino sulle stesse zolle di ieri e di sempre.
Quando la raccolta è finita e soltanto il verde dei filari chiazza la vallata, le donne ridendo e scherzando si recano nello stabilimento per la lavorazione per consegnare, dopo averlo pesato e fatto registrare, il bianco raccolto.
Il giorno più bello è quello del pagamento: allora la dolce fioraia che ha finalmente vinta la riluttanza dei familiari, riunitisi per l'occasione in serie e dignitosa assemblea, magari con la complice parola del fratello che andato a fare il soldato in regioni evolute ha visto e conosce il mondo, potrà finalmente tagliarsi i capelli ed affidarli alla corrente elettrica per una meravigliosa ricciolatura.
Per il vestito da indossare in occasione della prossima festa c'è tempo per l'altro pagamento.
Le anziane pensano alle scarpe da comperare alla figlia maggiore che va a sarta e deve figurare ed al problema del vettovagliamento che impone la sua ferrea legge specialmente quando lo sposo per mancanza di lavoro riscalda i marciapiedi del paese.
Ed ogni notte ritornano al lavoro, felici in quella pianura piena di fiori, di stelle e di lucciole, e cantano la profumata canzone della loro quotidiana fatica.
BILL MODAFFERI
GAZZETTA DEL SUD, 3 settembre 1956

La lavorazione del gelsomino per anni ha costituito un importante risorsa economica per le popolazioni della locride; anche molte donne e ragazze di Platì, come nel caso già riportato delle raccoglitrici di olive, vi hanno contribuito per aiutare le famiglie onde procastinare l'esodo verso altre terre.

Il documentario di Giuseppe Lisi del 1957, in edizione integrale, ricalca, sebbene con altri toni, il testo di Bill Modafferi.

giovedì 14 aprile 2022

Il padrone di casa [di Carl Theodor Dreyer - 1925]


Oggi giovedì santo, un giorno sacrale in Platì, quando i preti nascevano e crescevano in paese. L’ultimo è stato Ernesto Gliozzi il giovane (12 aprile 1915 - 2 febbraio 2008). Lo zio Ernesto è colui che più di tutti i platiesi conosceva il segreto di Pratì e questo segreto è sepolto con lui nella cappella dove riposa. Egli riteneva Platì essere stato fondato nel 1492, l’anno stesso dell’inizio del saccheggio del continente compreso tra l’Alaska e la Terra del Fuoco. Questi due eventi hanno un tratto comune: il mandante. La Corte di Spagna. Il paese di Platì, come tutti i paesi, prima e dopo, non è fondato dall’oggi al domani, è creato nel tempo. Arriva una famiglia si installa e a sua volta attira parenti e amici. Attira nemici. A questo servono i film western. Stiamo parlando di un borgo, una Motta, perché luoghi sparsi, insediamenti casuali vi erano già da prima di Gesù e San Pietro a Pietra Cappa. Molti i cenobi. Il territorio di Platì era compreso tra la Foresta di Pandore, i Piani di Zervò e dello Zomaro. Nel 1492 padrone delle foreste era la famiglia Marullo di Messina. A questa subentrò una famiglia patrizia napoletana-pugliese, quella degli Spinelli. Quelli che interessano noi sono gli Spinelli Savelli, i Principi o Conti di Cariati. Un Carlo fu forse il primo. Alla sua morte nel 1518 seguiranno i vari Scipione e ancora Carlo. Il primo Signore certo, di Platì, fu Carlo Filippo Antonio (1641-1725), egli alla morte del padre Scipione, nel 1659, antepose al proprio nome quello del fratello primogenito andato a farsi monaco, divenne principe di Cariati, duca di Seminara, conte di Santa Cristina e signore di Oppido. A Platì aveva una Corte Principale in cui erano gestiti tutti gli affari pubblici e privati. Quello che vedete in apertura è proprio lui, Carlo Filippo Antonio raffigurato da Domenico Antonio Vaccaro (1678-1745). Di seguito un ritaglio dal Catasto Onciario del 1754.

 

martedì 12 aprile 2022

La vita è un sogno [di Richard Linklater - 1993]

"Somehow I got to carry on, Lordy" Van Zant, Collins


La vie est un songe: la fortune est leurre, la gloire une illusion, rien ne demeure* que le bien fait aux âmes, la paix jetée** et acquis par le sacrifice***, et le bonheur conquis à l'encontre de l'égoïsme. 
D. Anselm Moreac Benectin de Vallonheur
Professeur au college S George de Constantinopli
Gerace 13 Javier 1904
 
* "rien ne demeure" o "ici ne demeure" non siamo sicuri ma il senso non cambia.
** abbastanza sicuri ma non al 100%
*** qui proprio non si capisce cosa sia scritto ... ho ipotizzato dal senso della frase
 
La vita è un sogno: la fortuna è un'illusione, la gloria un diversivo, non resta altro che il bene fatto alle anime, la pace seminata e raccolta con il sacrificio, e la felicità conquistata contro l'egoismo (o meglio "la felicità conquistata a discapito dell'egoismo").
 
Hanno collaborato per la stesura, difficile per me, del testo:
Maria Rosaria Venezia, Loris Messina &, novissima autem non minimus, Valentina Valcic. 

Immagine e testo contenuti nell'album personale di Ernesto Gliozzi il vecchio, altrimenti publicato come Qualcosa di personale..

Rubata al film in questione:
 

lunedì 11 aprile 2022

La colomba non deve volare [di Sergio Garrone - 1970]

UN MIRACOLO DEGLI ANNI CINQUANTA

ROSARIO ZAPPIA
Nnuzza era molto orgogliosa della sua nuova casa alla Pietra d’Angela, nella quale si era trasferita da poco lasciando il vecchio “catoio” dell’Ariella che probabilmente l'aveva vista nascere.
Ora aveva finalmente, come raccontava a tutti con malcelato orgoglio, ”l’acqua nta casa”, il cesso, un comodo “salaru” dove poter riporre in bell’ordine la legna raccolta in estate nei boschi di “Romena” o del “Mercato”, una spaziosa camera con un balconcino da cui si dominava l’ intera “ruga”; finalmente, per la processione del Corpus Domini poteva esporre anche lei sul balcone una bella “schiavina” a fiori acquistata appositamente e conservata con cura nella “cascia” assieme alle scarpe ed alla veste “pa morti”; o accogliere adeguatamente una pronipote che da lì a qualche mese sarebbe arrivata dall’ Australia.
L’unico suo rammarico al momento di lasciare l’Ariella per la nuova “ruga”, la sconosciuta “Pietra d’ Angela”, era stato quello di doversi allontanare dai vicini di casa: dal massaro P. e dalla sua numerosa famiglia, sempre generosa e solidale con lei; da Mariuzza, assidua e disponibile; da Catuzzeia, un’adolescente cui Anna era particolarmente affezionata e che, fra i numerosi altri, aveva il merito di scriverle le lettere per una sorella emigrata in Australia, leggendole poi quelle in arrivo, anche queste scritte per interposta persona, probabilmente da una omologa Catherine australiana.
Per la verità anche nella nuova “ruga” aveva trovato degli ottimi vicini: in primo luogo Cata, compagna di tante “novene” e “vesperi”, ma anche di faticose giornate trascorse a far legna nei boschi del Mercato o a raccogliere spighe nei serri mietuti di Arghia e di Santa Varvara; poi Mastro Ciccio, persona gentile e ammodo, che - raccontava Nnuzza con un misto di invidia e di ammirazione - sapeva leggere e scrivere e poteva riscuotere la pensione senza testimoni, con la sola firma; don L. e sua moglie, che la salutavano sempre con un sorriso e che, in occasione di un’indisposizione, le avevano dato un farmaco rivelatosi decisivo, mostrando con ciò di saperne più di un medico.
Ovviamente tutte le amiche di Nnuzza erano state invitate a vedere la nuova casa. Ma il massimo della soddisfazione Nnuzza lo ebbe quando donna S., donna M. e, nientemeno donna C., di ritorno da un “lutto” si fermarono per visitare la casa ed approvarono, congratulandosi, la felice scelta. Donna M. anzi, regalò subito a Nnuzza un quadro raffigurante Cristo risorto, portato in cielo dagli angeli ed attorniato da un nugolo di bianche colombe.
Con l'aiuto di mastro Ciccio, il quadro venne collocato sulla parete meglio esposta alla luce ed intorno ad esso, tutte le sere, Nnuzza e Cata si riunivano con altre vicine per la recita del Rosario.
Era Cata, più esperta, che intonava il recitativo dei misteri, dolorosi o gloriosi, enunciando con trasporto: “si contempla come Nostro Signore Gesù Cristo fu crocifisso e fu morto in croce” o come “partorì Maria Santissima il Nostro Redentore nella citta di Betlemme fra due animali nel Presepio” o che “Santa Elisabetta era gravida”; seguivano le giaculatorie finali con il rituale “ora pro nobis” delle compartecipi, sedute a semicerchio davanti al quadro e non sempre attente, nonostante i richiami di Cata.
Una sera di ottobre, verso l'imbrunire, la recita del Rosario venne interrotta da un improvviso sbattere di ali ed una colomba bianca, del tutto identica a quelle raffigurate nel quadro, attraverso velocemente la stanza, svanendo poi nel nulla, come inghiottita dal quadro stesso.
Nnuzza e Cata rimasero senza parole mentre le altre due donne che quella sera erano con loro, pur non attribuendo importanza alla cosa, dovettero convenire che la colomba non poteva, come avevano subito pensato, essere uscita, dal momento che porte e finestre erano chiuse.
Il fenomeno si ripeté nei giorni successivi alla stessa ora, richiamando curiosi, sfaccendati, agnostici e credenti, oltreché i massimi rappresentanti delle “zelatrici”, che dopo le iniziali perplessità decisero di intervenire.
Donna M. non manco di ricordare, e ciò accrebbe la verosimiglianza di quanto raccontato da Nnuzza e Cata, che una sua antenata, una santa donna, le aveva raccontato che da quello stesso quadro, collocato all’epoca nella dimora gentilizia della famiglia, un garzone aveva visto uscire una colomba che, fatto il giro del palazzo, era poi rientrata misteriosamente nel quadro.
Il poveretto non fu creduto, anzi fu schernito per il resto dei suoi giorni; ma questo nuovo episodio, sosteneva donna M., doveva essere valutato con molta attenzione.
Mastro Ciccio, con l'abituale serietà, pur dando atto dell’innegabile buona fede di Nnuzza e Cata, pensò potesse trattarsi di un insetto ingigantito dalla luce e propose, ricevendone un netto quanto scandalizzato rifiuto, di dare una spruzzata di DDT.
Intanto tutte le sere una folla sempre più numerosa riempiva la casa di Nnuzza per la recita del Rosario, diretta ora, per ovvie ragioni gerarchiche, non più da Cata ma da donna Rosina in persona, capo indiscusso delle “zelatrici” del paese. Nonostante tanta autorevolezza, o forse proprio per tale motivo, la colomba non si fece più vedere.
Una sera pero M.M., un simpatico sfaccendato, che appunto perché tale l’arguto Ciccillo Marando aveva soprannominato “Michelaccio”, si procuro chissà dove, ma verosimilmente presso il mulino di mastro Micantoni, una colomba vera, proprio in carne, piume ed ossa, liberandola di nascosto tra la folla in preghiera.
Ne seguirono scene indescrivibili. Don L., che fino a quel momento aveva espresso qualche cauta riserva, cadde in ginocchia, battendosi il petto; le donne gridavano al miracolo; Nnuzza e Cata piangevano a dirotto; il professore Carrino finse uno svenimento e venne adagiato sul letto di Nnuzza dallo stesso Michelaccio e da Ciccio B., riprendendosi soltanto dopo la somministrazione di due o tre bicchierini di “ferrochina”, l’unica bevanda di cui poteva disporre la povera Nnuzza.
A tarda sera la colomba fu ritrovata, ferita ed ormai morente, in un vicino sottoscala; venne raccolta da Mastro Ciccio e portata via, ma nessuno ebbe il coraggio di dirlo a Nnuzza e Cata che, seppure a ranghi ridotti, continuarono a recitare il Rosario tutte le sere confidando in una nuova, improbabile apparizione.
La pronipote di Nnuzza, giunta qualche tempo dopo dall’ Australia, non prestò eccessivo credito ai racconti della Zia, ancora sconvolta dal “miracolo” e vieppiù dalla microscopica minigonna indossata dalla ragazza; tanto corta che, osservava Nnuzza con sgomento, lasciava intravedere i “carzunetti”.
Il fatto, riportato in cronaca da qualche giornale locale, non ebbe tuttavia la risonanza che oggi i media riservano ad episodi analoghi, si tratti di Madonne che piangono o di apparizioni più o meno miracolose.
All’epoca la televisione non c’era ed i giornali non avevano la diffusione attuale.
Peccato: perché probabilmente, anzi certamente, sarebbe emersa una comunità paesana assai diversa da quella che, molti anni dopo, cronisti disinformati avrebbero dato in pasto allo “sdegno”, di una certa Italia benpensante, rivelatasi poi peggiore di quanto si potesse ragionevolmente immaginare.
Vicenza, luglio 1996. 

testo contenuto in PLATI', novembre 1996 


Rosario "Saro" Zappia è venuto meno or non è molto e qui è stato ricordato:


 

 

 

 

 

 

mercoledì 6 aprile 2022

Tornando a casa [di Hal Ashby - 1978]

Marando Domenico Antonio
"Mimmo"
di Giuseppe e Rosina Mittiga
Platì 17.04.1951 - Roma 15.09.2021
 

Caro Platì

Mai ti potrò scordare mio dolce paese
ove ho lasciato i miei ricordi
e recitato le pie preghiere.
Ritornerò sempre a calpestare le tue viuzze strette
e gli angoli dove costruivo
le mie casette di sabbia.
Ritornerò a respirare l’aria di montagna,
a bere l’acqua cristallina delle tue sorgenti
e mangiare il pane biscottato
con pomodori, cacio e olio d’uliva.
Verrò a salutare i nostri saggi vecchietti
e a discutere con i tuoi giovani
rivoluzionari-pacifisti.
Verrò a salutare la gnura Angeluzza
e vederla tessere ancora
le belle coperte di lana.
Sentirò ancora rullare il tamburo di Gianni
che lo rievocherà nei giorni di festa.
Vedrò ancora corteggiare da baldi giovanotti
le tue giovani fanciulle all’uscita della chiesa.
Domanderò sulla amministrazione comunale
e sentirò i pettegolezzi che mi erano sfuggiti.
Mimmo Marando
Roma, Gennaio 1972

L'immagine d'apertura è rubata dalla pagina fb dello stesso Mimmo Marando

domenica 3 aprile 2022

Piccole storie [di Carlos Sorin - 1975]


Ciao mi chiamo Francesco ho quasi dieci anni e frequento la quarta elementare “Istituto De Amicis” di Cirella di Platì nella mia scuola dobbiamo fare una ricerca sull’Aspromonte, su storia avvenuta tanti anni fa, nelle nostre montagne, ebbene io ho fatto tramite la mia bisnonna che ricorda tante storie che sono state tramandate in generazione in generazione, ora vi racconto qualcuna.
Panduri – 1 –
Questa è la storia di Panduri un paesino esistito nel 1908 si è abissato per il terremoto, ma ancora ci sono resti di mura.
Raccontano che c’era questo paesino e che alcuna gente è riuscita a salvare scappando, altri invece sono morti, dicono che una vecchietta era uscita di casa quando ha sentito il terremoto, però è ritornata indietro a recuperare qualche oggetto, dicono un pettine e purtroppo è morta sotto le macerie. Ma la cosa straordinaria è che dopo tanti anni un contadino platiese lavorando con l’aratro e i buoi hanno trovato un quadro sotterrato: era il quadro della Madonna delle Grazie che era nella chiesa di Panduri, si racconta che i buoi appena hanno visto l’immagine della Madonna si inginocchiarono davanti al quadro come se pregassero. Tanti anni fa, più o meno quindici anni, con la partecipazione anche del vescovo hanno detto la messa ai piedi delle mura del paesino.
La guerra del 1945 – 2 –
Mia nonna mi ha raccontato di questa guerra, lei era piccola ma ricorda quel momento perché il suo papà era uno dei soldati che ha vissuto quella guerra ed è riuscito a salvarsi, racconta che i soldati si nascondevano nelle montagne, e dentro le caverne che avevano costruito per nascondersi dai nemici. Il papà della mia nonna è riuscito a scappare, ed era salito su un treno per fuggire lontano ma è stato raggiunto dai nemici allora lui ha pensato di buttarsi dal treno e fingersi morto ma appena i soldati nemici si sono accertati che non era morto lo fecero prigioniero e lui raccontava che è stato legato e appeso ad un albero, ma è stato salvato dagli alleati, e visse fino alla età di 96 anni raccontando come un’avventura e una vittoria per lui perché si è salvato. Raccontava momenti di rara paura e sconvolta perché sentivano le brutte notizie e dei morti.
La gente era disperata perché avevano paura degli caccia aerei che buttavano le bombe in montagna.
Poi c’era un ponte pieno di mine lo chiamavano il “ponte minato” e la gente mentre andava in sella agli asini esplodevano.
Sembrano storie come i film che oggi vediamo, ma sono storie vere e vissute realmente, e chi è sopravvissuto li ha raccontato.
MARZANO FRANCESCO
CL 4° PLESSO CIRELLA
IST. COMP. DI PLATI’

Testo partecipante al Premio "E. Gliozzi" organizzato dall'Associazione Etno- Culturale Santa Pulinara, edizione 2021. 
Le foto a Panduri sono di Ernesto Gliozzi il giovane nei giorni del suo mandato alla chiesa di Careri.

giovedì 31 marzo 2022

Addio vecchia città [di Edgar Reitz - 1975]

Non è il passato che ci domina, sono le immagini del passato. George Steiner

 BOZZETTO CALABRESE
POTAMIA LA CITTA' FRA I DUE FIUMI
rivive nelle vecchie leggende calabresi
 
Platì, 30 dicembre.
Poco lontano da San Luca, su un’altura, si trovano i pochi ruderi rimasti dell’antica città di Potamia, il luogo e solitario, di tanto in tanto frequentato da qualche pastore che vi porta il gregge.
Potamia derivò il suo strano nome dall’Essere posta tra due fiumi; ma non per questo bisogna confonderla con la Mesopotamia. Questa infelice posizione determinò la sua immatura fine. Immatura, certo, perché stando alle testimonianze degli storici, Potamia ebbe solo dieci secoli di vita: pochini per una città.
Ma in Calabria non bisogna lamentarsi; i paesi calabresi, infatti, sono destinati a fare prima o poi, la medesima fine di Potamia, grazie alle azioni coordinate delle alluvioni e della incuria dei governi. Eppoi, Pandore, l’altra antica città calabrese, non visse soltanto tre secoli e mezzo!
La tecnica che i due fiumi seguirono per levare di mezzo Potamìa fu semplice e tradizionale: scavare lentamente alla base il monte su cui era posata la città; le frane, a poco a poco, ridussero questa un mucchio di pittoresche rovine.
Un tentativo di estremo salvataggio i Potamioti lo fecero, prima di abbandonare le proprie case: cercarono di tirarsele altrove per mezzo di corde; ma le corde erano di lana e si rompevano prima che la casa si muovesse dalla sua posizione.
Questo, naturalmente, lo dice la leggenda. Potamia era una graziosa cittadina, fornita di sindaco e di assessori municipali. Il sindaco era, a detta di tutti, una gran testa; ma neanche gli assessori scherzavano.
Un bel giorno di aprile dell'anno 1543 (ma può darsi che sia stato anche l'anno 1654, o l’anno 1948) il sindaco e gli assessori si riunirono nel palazzo del Comune, per prendere gravi decisioni. Fu una seduta laboriosa; noi lo abbiamo appurato attraverso un nostro conterraneo che aveva il nonno del nonno di suo nonno che esercitava a quei tempi la professione di Testimone Oculare.
Tra gli altri provvedimenti presi, fu in particolare stabilito: di nominare un vice-sindaco che sapesse fare la firma con lo svolazzo, giacché quello in carica riusciva a malapena a disegnare le “o”- col bicchiere.
Di dimezzare lo stipendio allo spazzino comunale, poiché aveva preso moglie ed era pertanto diventato “la metà” di questa.
- Di costringere gli abitanti a trovare amici presso le città vicine, in modo da rinsanguare l’erario (si sapeva anche allora che chi trova un amico trova un tesoro).
- Di sovvenzionare un viaggio del sindaco e degli assessori, che dovevano andare in missione segretissima presso la vicina città di X. E con quest’ultima conclusione, la seduta si sciolse.
Il giorno dopo, il sindaco e gli assessori partirono per la loro missione segretissima;
la popolazione pianse un po' di commozione, e qualcuno fece un breve elogio funebre, giacché, si sa, “partire è un poco morire”.
Ma i nostri eroi, inforcarono fieramente gli scalpitanti ronzini, e si avviarono giù per la vallata.
Sulle montagne c’era un metro e mezzo di neve; ma gli amici si erano premuniti e avevano lasciato a casa i mantelli e i maglioni, dopo aver bene ascoltato le previsioni del tempo, alla radio. Non si venga ad obiettare che a quei tempi radio non ne esistevano; abbiamo detto, infatti che la vicenda si poté svolgere anche nel 1948.
Durante il viaggio, ognuno taceva e badava a battere i denti dal freddo (si intende, che ognuno batteva i propri).
A un tratto, il più piccolo di tutti, Levantino, ruppe il silenzio per chiedere a Donizò, assessore anziano:
- “Comparuccio, mi spiegate un pò le ragioni di questa missione?”
- Non l’avesse mai mai detto; gli rispose un tale coro di zittii, che l’asino, imbizzarrito, per poco non lo scaraventò a terra.
- “Scemo” - gli urlò sottovoce Donizò - “se noi sapessimo le ragioni di questa missione, essa non sarebbe più segreta e potremmo tomarcene a casa. Tu vorresti tomare a casa, dì?”
-  Ma nemmeno per sogno, compare” - si affrettò a chiarire il malcapitato - “se tomo a casa perdo l'indennità di trasferta!
E la comitiva riprese in silenzio il suo cammino.
Dopo alcune ore di marcia, i potamioti sentirono un urlo di dolore, lacerare l’aria: era caduta la sera. Tentarono premurosamente di rialzarla, ma non ci riuscirono e stabilirono di trovare un luogo dove passare la notte.
Per fortuna erano arrivati davanti alla porta della città X.
Qui il sindaco si fece anzitutto un dovere d'informare gli assessori che la missione era troppo segreta, perché si potesse sapere la ragione della sua fine. Levantino tacque pienamente convinto.
Ora bisognava accamparsi per trascorrere la notte; ma dove?
Entrare nella città non si poteva perché la grande porta era stata chiusa; gli assessori si rivolsero al sindaco per avere il suo parere; il sindaco non li deluse. Stabilì infatti, che stare da una parte o dall`altra della porta della città era la medesima cosa; bastava solo immaginare che l'esterno fosse dalla parte opposta.
Gli assessori seguirono il consiglio e, coricatisi ai piedi della porta della città di X, immaginarono che l'interno fosse dalla loro parte, e l'esterno dall’altra.
I nostri assessori, dunque, stavano saporitamente dormendo, quando si accostò a loro un bello spirito che, dopo averli osservati un pò, si divertì a rifare loro i connotati con l’aiuto di un pezzo di carbone. Figurarsi quando, la mattina, i nostri amici si svegliarono!
- “Tu non sembri più tu; devi essere qualche altro”, - disse il sindaco a ciascun assessore. E ognuno di questi a sua volta, fu concorde nell'affermare che il sindaco non doveva essere lui.
Ebbero un bel consultare le rispettive carte d'identità; non ci si raccapezzarono più.
Come fare per sapere se erano ancora loro, o non fossero diventate altre persone?
C’era un solo modo: chiederlo ai Potamioti. E così decisero di fare. Tomarono sui propri passi, finché  arrivarono ad una collina donde si scorgeva il paese e li si misero a urlare con quanto fiato avevano in gola:
- “Oh gente di Potamia!” -
I Potamioti udirono il richiamo e si affacciarono sulla piazzetta del paese:
- “Che volete? Che volete? “  - risposero.
- “Il sindaco e gli assessori sono costà?” - urlarono di rimando i nostri eroi.
- “Gnura no, gnura no! !”
Fu la risposta, (signornò, signornò).
- “Ah, Formaggio! (era il protettore del paese) - Allora siamo noi!” esclamarono rinfrancati il sindaco e gli  assessori; e se ne tomarono a zonzo per il mondo.
Quando la sera cadde di nuovo, si rifugiarono in una caverna per dormire. In questa caverna ebbero la ventura di trovare un sacco; tutti vi infilarono le gambe e si addormentarono beati.
Quando la mattina dopo si svegliarono, in mezzo a tutto quel groviglio di gambe, ognuno stentava a riconoscere le sue; e stava per succedere un parapiglia quando, per fortuna, passò di lì un boscaiolo. Avvicinatosi e saputa la ragione della disputa, si fece da parte e tirò sul sacco una gran bastonata.
- “Ah!” - urlò uno della comitiva. E tirò subito fuori le proprie gambe.
Il boscaiolo continuò a tirare bastonate sul sacco; e, a mano a mano, ognuno ritirava le proprie gambe. A poco a poco con si efficace metodo, fu appianata la controversia. E gli amici ringraziarono di cuore il boscaiolo prima di rimettersi in cammino.
Mentre camminavano, (o, per meglio dire, mentre i poveri ronzini camminavano e loro stavano a cavallo), smarrirono la strada.
I Potamioti non si scoraggiarono. Abbordarono una donna che passava. 
- “Ehi, buona donna, sapete indicarci la strada?”
- “Dove dovete andare?” - chiese di rimando l’interrogata.
- “Dobbiamo andare a Zonzo” - la informò il sindaco. 
La donna si strinse nelle spalle e confesso di non conoscere tale città. La stessa risposta, gli amici, l’ebbero da decine e decine di persone. Infine decisero di trarsi d'impaccio, affidandosi all'esperienza e alla accortezza dei loro ronzini.
Si accomodarono quindi in sella e abbandonarono le briglia. 
I ronzini capirono l'antifona e scattarono come frecce verso le stalle di Potamia; vi arrivarono in men che non si dica, che la fame gli spingeva e li faceva camminare come refoli. Fu così che il sindaco e gli assessori del Comune di Potamia poterono rivedere la loro patria; e se ne allontanarono di nuovo solo quando le frane lo resero necessario. 
Questa è la leggenda che racconta le gesta della gente di Potamia. 
Michele Fera
GAZZETTA DEL SUD - 30 dicembre 1955
e successivamente, PLATI’, rivista di Mimmo Marando, nov. 1996
Le foto in apertura sono una cortesia di Rosa Cusenza che ringrazio.