UN
MIRACOLO DEGLI ANNI CINQUANTA
ROSARIO ZAPPIA
Nnuzza era molto orgogliosa della sua nuova casa alla Pietra d’Angela, nella quale si era trasferita da poco lasciando il vecchio “catoio” dell’Ariella che probabilmente l'aveva vista nascere.
Ora aveva finalmente, come raccontava a tutti con malcelato orgoglio, ”l’acqua nta casa”, il cesso, un comodo “salaru” dove poter riporre in bell’ordine la legna raccolta in estate nei boschi di “Romena” o del “Mercato”, una spaziosa camera con un balconcino da cui si dominava l’ intera “ruga”; finalmente, per la processione del Corpus Domini poteva esporre anche lei sul balcone una bella “schiavina” a fiori acquistata appositamente e conservata con cura nella “cascia” assieme alle scarpe ed alla veste “pa morti”; o accogliere adeguatamente una pronipote che da lì a qualche mese sarebbe arrivata dall’ Australia.
L’unico suo rammarico al momento di lasciare l’Ariella per la nuova “ruga”, la sconosciuta “Pietra d’ Angela”, era stato quello di doversi allontanare dai vicini di casa: dal massaro P. e dalla sua numerosa famiglia, sempre generosa e solidale con lei; da Mariuzza, assidua e disponibile; da Catuzzeia, un’adolescente cui Anna era particolarmente affezionata e che, fra i numerosi altri, aveva il merito di scriverle le lettere per una sorella emigrata in Australia, leggendole poi quelle in arrivo, anche queste scritte per interposta persona, probabilmente da una omologa Catherine australiana.
Per la verità anche nella nuova “ruga” aveva trovato degli ottimi vicini: in primo luogo Cata, compagna di tante “novene” e “vesperi”, ma anche di faticose giornate trascorse a far legna nei boschi del Mercato o a raccogliere spighe nei serri mietuti di Arghia e di Santa Varvara; poi Mastro Ciccio, persona gentile e ammodo, che - raccontava Nnuzza con un misto di invidia e di ammirazione - sapeva leggere e scrivere e poteva riscuotere la pensione senza testimoni, con la sola firma; don L. e sua moglie, che la salutavano sempre con un sorriso e che, in occasione di un’indisposizione, le avevano dato un farmaco rivelatosi decisivo, mostrando con ciò di saperne più di un medico.
Ovviamente tutte le amiche di Nnuzza erano state invitate a vedere la nuova casa. Ma il massimo della soddisfazione Nnuzza lo ebbe quando donna S., donna M. e, nientemeno donna C., di ritorno da un “lutto” si fermarono per visitare la casa ed approvarono, congratulandosi, la felice scelta. Donna M. anzi, regalò subito a Nnuzza un quadro raffigurante Cristo risorto, portato in cielo dagli angeli ed attorniato da un nugolo di bianche colombe.
Con l'aiuto di mastro Ciccio, il quadro venne collocato sulla parete meglio esposta alla luce ed intorno ad esso, tutte le sere, Nnuzza e Cata si riunivano con altre vicine per la recita del Rosario.
Era Cata, più esperta, che intonava il recitativo dei misteri, dolorosi o gloriosi, enunciando con trasporto: “si contempla come Nostro Signore Gesù Cristo fu crocifisso e fu morto in croce” o come “partorì Maria Santissima il Nostro Redentore nella citta di Betlemme fra due animali nel Presepio” o che “Santa Elisabetta era gravida”; seguivano le giaculatorie finali con il rituale “ora pro nobis” delle compartecipi, sedute a semicerchio davanti al quadro e non sempre attente, nonostante i richiami di Cata.
Una sera di ottobre, verso l'imbrunire, la recita del Rosario venne interrotta da un improvviso sbattere di ali ed una colomba bianca, del tutto identica a quelle raffigurate nel quadro, attraverso velocemente la stanza, svanendo poi nel nulla, come inghiottita dal quadro stesso.
Nnuzza e Cata rimasero senza parole mentre le altre due donne che quella sera erano con loro, pur non attribuendo importanza alla cosa, dovettero convenire che la colomba non poteva, come avevano subito pensato, essere uscita, dal momento che porte e finestre erano chiuse.
Il fenomeno si ripeté nei giorni successivi alla stessa ora, richiamando curiosi, sfaccendati, agnostici e credenti, oltreché i massimi rappresentanti delle “zelatrici”, che dopo le iniziali perplessità decisero di intervenire.
Donna M. non manco di ricordare, e ciò accrebbe la verosimiglianza di quanto raccontato da Nnuzza e Cata, che una sua antenata, una santa donna, le aveva raccontato che da quello stesso quadro, collocato all’epoca nella dimora gentilizia della famiglia, un garzone aveva visto uscire una colomba che, fatto il giro del palazzo, era poi rientrata misteriosamente nel quadro.
Il poveretto non fu creduto, anzi fu schernito per il resto dei suoi giorni; ma questo nuovo episodio, sosteneva donna M., doveva essere valutato con molta attenzione.
Mastro Ciccio, con l'abituale serietà, pur dando atto dell’innegabile buona fede di Nnuzza e Cata, pensò potesse trattarsi di un insetto ingigantito dalla luce e propose, ricevendone un netto quanto scandalizzato rifiuto, di dare una spruzzata di DDT.
Intanto tutte le sere una folla sempre più numerosa riempiva la casa di Nnuzza per la recita del Rosario, diretta ora, per ovvie ragioni gerarchiche, non più da Cata ma da donna Rosina in persona, capo indiscusso delle “zelatrici” del paese. Nonostante tanta autorevolezza, o forse proprio per tale motivo, la colomba non si fece più vedere.
Una sera pero M.M., un simpatico sfaccendato, che appunto perché tale l’arguto Ciccillo Marando aveva soprannominato “Michelaccio”, si procuro chissà dove, ma verosimilmente presso il mulino di mastro Micantoni, una colomba vera, proprio in carne, piume ed ossa, liberandola di nascosto tra la folla in preghiera.
Ne seguirono scene indescrivibili. Don L., che fino a quel momento aveva espresso qualche cauta riserva, cadde in ginocchia, battendosi il petto; le donne gridavano al miracolo; Nnuzza e Cata piangevano a dirotto; il professore Carrino finse uno svenimento e venne adagiato sul letto di Nnuzza dallo stesso Michelaccio e da Ciccio B., riprendendosi soltanto dopo la somministrazione di due o tre bicchierini di “ferrochina”, l’unica bevanda di cui poteva disporre la povera Nnuzza.
A tarda sera la colomba fu ritrovata, ferita ed ormai morente, in un vicino sottoscala; venne raccolta da Mastro Ciccio e portata via, ma nessuno ebbe il coraggio di dirlo a Nnuzza e Cata che, seppure a ranghi ridotti, continuarono a recitare il Rosario tutte le sere confidando in una nuova, improbabile apparizione.
La pronipote di Nnuzza, giunta qualche tempo dopo dall’ Australia, non prestò eccessivo credito ai racconti della Zia, ancora sconvolta dal “miracolo” e vieppiù dalla microscopica minigonna indossata dalla ragazza; tanto corta che, osservava Nnuzza con sgomento, lasciava intravedere i “carzunetti”.
Il fatto, riportato in cronaca da qualche giornale locale, non ebbe tuttavia la risonanza che oggi i media riservano ad episodi analoghi, si tratti di Madonne che piangono o di apparizioni più o meno miracolose.
All’epoca la televisione non c’era ed i giornali non avevano la diffusione attuale.
Peccato: perché probabilmente, anzi certamente, sarebbe emersa una comunità paesana assai diversa da quella che, molti anni dopo, cronisti disinformati avrebbero dato in pasto allo “sdegno”, di una certa Italia benpensante, rivelatasi poi peggiore di quanto si potesse ragionevolmente immaginare.
Vicenza, luglio 1996.
Nnuzza era molto orgogliosa della sua nuova casa alla Pietra d’Angela, nella quale si era trasferita da poco lasciando il vecchio “catoio” dell’Ariella che probabilmente l'aveva vista nascere.
Ora aveva finalmente, come raccontava a tutti con malcelato orgoglio, ”l’acqua nta casa”, il cesso, un comodo “salaru” dove poter riporre in bell’ordine la legna raccolta in estate nei boschi di “Romena” o del “Mercato”, una spaziosa camera con un balconcino da cui si dominava l’ intera “ruga”; finalmente, per la processione del Corpus Domini poteva esporre anche lei sul balcone una bella “schiavina” a fiori acquistata appositamente e conservata con cura nella “cascia” assieme alle scarpe ed alla veste “pa morti”; o accogliere adeguatamente una pronipote che da lì a qualche mese sarebbe arrivata dall’ Australia.
L’unico suo rammarico al momento di lasciare l’Ariella per la nuova “ruga”, la sconosciuta “Pietra d’ Angela”, era stato quello di doversi allontanare dai vicini di casa: dal massaro P. e dalla sua numerosa famiglia, sempre generosa e solidale con lei; da Mariuzza, assidua e disponibile; da Catuzzeia, un’adolescente cui Anna era particolarmente affezionata e che, fra i numerosi altri, aveva il merito di scriverle le lettere per una sorella emigrata in Australia, leggendole poi quelle in arrivo, anche queste scritte per interposta persona, probabilmente da una omologa Catherine australiana.
Per la verità anche nella nuova “ruga” aveva trovato degli ottimi vicini: in primo luogo Cata, compagna di tante “novene” e “vesperi”, ma anche di faticose giornate trascorse a far legna nei boschi del Mercato o a raccogliere spighe nei serri mietuti di Arghia e di Santa Varvara; poi Mastro Ciccio, persona gentile e ammodo, che - raccontava Nnuzza con un misto di invidia e di ammirazione - sapeva leggere e scrivere e poteva riscuotere la pensione senza testimoni, con la sola firma; don L. e sua moglie, che la salutavano sempre con un sorriso e che, in occasione di un’indisposizione, le avevano dato un farmaco rivelatosi decisivo, mostrando con ciò di saperne più di un medico.
Ovviamente tutte le amiche di Nnuzza erano state invitate a vedere la nuova casa. Ma il massimo della soddisfazione Nnuzza lo ebbe quando donna S., donna M. e, nientemeno donna C., di ritorno da un “lutto” si fermarono per visitare la casa ed approvarono, congratulandosi, la felice scelta. Donna M. anzi, regalò subito a Nnuzza un quadro raffigurante Cristo risorto, portato in cielo dagli angeli ed attorniato da un nugolo di bianche colombe.
Con l'aiuto di mastro Ciccio, il quadro venne collocato sulla parete meglio esposta alla luce ed intorno ad esso, tutte le sere, Nnuzza e Cata si riunivano con altre vicine per la recita del Rosario.
Era Cata, più esperta, che intonava il recitativo dei misteri, dolorosi o gloriosi, enunciando con trasporto: “si contempla come Nostro Signore Gesù Cristo fu crocifisso e fu morto in croce” o come “partorì Maria Santissima il Nostro Redentore nella citta di Betlemme fra due animali nel Presepio” o che “Santa Elisabetta era gravida”; seguivano le giaculatorie finali con il rituale “ora pro nobis” delle compartecipi, sedute a semicerchio davanti al quadro e non sempre attente, nonostante i richiami di Cata.
Una sera di ottobre, verso l'imbrunire, la recita del Rosario venne interrotta da un improvviso sbattere di ali ed una colomba bianca, del tutto identica a quelle raffigurate nel quadro, attraverso velocemente la stanza, svanendo poi nel nulla, come inghiottita dal quadro stesso.
Nnuzza e Cata rimasero senza parole mentre le altre due donne che quella sera erano con loro, pur non attribuendo importanza alla cosa, dovettero convenire che la colomba non poteva, come avevano subito pensato, essere uscita, dal momento che porte e finestre erano chiuse.
Il fenomeno si ripeté nei giorni successivi alla stessa ora, richiamando curiosi, sfaccendati, agnostici e credenti, oltreché i massimi rappresentanti delle “zelatrici”, che dopo le iniziali perplessità decisero di intervenire.
Donna M. non manco di ricordare, e ciò accrebbe la verosimiglianza di quanto raccontato da Nnuzza e Cata, che una sua antenata, una santa donna, le aveva raccontato che da quello stesso quadro, collocato all’epoca nella dimora gentilizia della famiglia, un garzone aveva visto uscire una colomba che, fatto il giro del palazzo, era poi rientrata misteriosamente nel quadro.
Il poveretto non fu creduto, anzi fu schernito per il resto dei suoi giorni; ma questo nuovo episodio, sosteneva donna M., doveva essere valutato con molta attenzione.
Mastro Ciccio, con l'abituale serietà, pur dando atto dell’innegabile buona fede di Nnuzza e Cata, pensò potesse trattarsi di un insetto ingigantito dalla luce e propose, ricevendone un netto quanto scandalizzato rifiuto, di dare una spruzzata di DDT.
Intanto tutte le sere una folla sempre più numerosa riempiva la casa di Nnuzza per la recita del Rosario, diretta ora, per ovvie ragioni gerarchiche, non più da Cata ma da donna Rosina in persona, capo indiscusso delle “zelatrici” del paese. Nonostante tanta autorevolezza, o forse proprio per tale motivo, la colomba non si fece più vedere.
Una sera pero M.M., un simpatico sfaccendato, che appunto perché tale l’arguto Ciccillo Marando aveva soprannominato “Michelaccio”, si procuro chissà dove, ma verosimilmente presso il mulino di mastro Micantoni, una colomba vera, proprio in carne, piume ed ossa, liberandola di nascosto tra la folla in preghiera.
Ne seguirono scene indescrivibili. Don L., che fino a quel momento aveva espresso qualche cauta riserva, cadde in ginocchia, battendosi il petto; le donne gridavano al miracolo; Nnuzza e Cata piangevano a dirotto; il professore Carrino finse uno svenimento e venne adagiato sul letto di Nnuzza dallo stesso Michelaccio e da Ciccio B., riprendendosi soltanto dopo la somministrazione di due o tre bicchierini di “ferrochina”, l’unica bevanda di cui poteva disporre la povera Nnuzza.
A tarda sera la colomba fu ritrovata, ferita ed ormai morente, in un vicino sottoscala; venne raccolta da Mastro Ciccio e portata via, ma nessuno ebbe il coraggio di dirlo a Nnuzza e Cata che, seppure a ranghi ridotti, continuarono a recitare il Rosario tutte le sere confidando in una nuova, improbabile apparizione.
La pronipote di Nnuzza, giunta qualche tempo dopo dall’ Australia, non prestò eccessivo credito ai racconti della Zia, ancora sconvolta dal “miracolo” e vieppiù dalla microscopica minigonna indossata dalla ragazza; tanto corta che, osservava Nnuzza con sgomento, lasciava intravedere i “carzunetti”.
Il fatto, riportato in cronaca da qualche giornale locale, non ebbe tuttavia la risonanza che oggi i media riservano ad episodi analoghi, si tratti di Madonne che piangono o di apparizioni più o meno miracolose.
All’epoca la televisione non c’era ed i giornali non avevano la diffusione attuale.
Peccato: perché probabilmente, anzi certamente, sarebbe emersa una comunità paesana assai diversa da quella che, molti anni dopo, cronisti disinformati avrebbero dato in pasto allo “sdegno”, di una certa Italia benpensante, rivelatasi poi peggiore di quanto si potesse ragionevolmente immaginare.
Vicenza, luglio 1996.
testo contenuto in PLATI', novembre 1996
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