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lunedì 11 aprile 2022

La colomba non deve volare [di Sergio Garrone - 1970]

UN MIRACOLO DEGLI ANNI CINQUANTA

ROSARIO ZAPPIA
Nnuzza era molto orgogliosa della sua nuova casa alla Pietra d’Angela, nella quale si era trasferita da poco lasciando il vecchio “catoio” dell’Ariella che probabilmente l'aveva vista nascere.
Ora aveva finalmente, come raccontava a tutti con malcelato orgoglio, ”l’acqua nta casa”, il cesso, un comodo “salaru” dove poter riporre in bell’ordine la legna raccolta in estate nei boschi di “Romena” o del “Mercato”, una spaziosa camera con un balconcino da cui si dominava l’ intera “ruga”; finalmente, per la processione del Corpus Domini poteva esporre anche lei sul balcone una bella “schiavina” a fiori acquistata appositamente e conservata con cura nella “cascia” assieme alle scarpe ed alla veste “pa morti”; o accogliere adeguatamente una pronipote che da lì a qualche mese sarebbe arrivata dall’ Australia.
L’unico suo rammarico al momento di lasciare l’Ariella per la nuova “ruga”, la sconosciuta “Pietra d’ Angela”, era stato quello di doversi allontanare dai vicini di casa: dal massaro P. e dalla sua numerosa famiglia, sempre generosa e solidale con lei; da Mariuzza, assidua e disponibile; da Catuzzeia, un’adolescente cui Anna era particolarmente affezionata e che, fra i numerosi altri, aveva il merito di scriverle le lettere per una sorella emigrata in Australia, leggendole poi quelle in arrivo, anche queste scritte per interposta persona, probabilmente da una omologa Catherine australiana.
Per la verità anche nella nuova “ruga” aveva trovato degli ottimi vicini: in primo luogo Cata, compagna di tante “novene” e “vesperi”, ma anche di faticose giornate trascorse a far legna nei boschi del Mercato o a raccogliere spighe nei serri mietuti di Arghia e di Santa Varvara; poi Mastro Ciccio, persona gentile e ammodo, che - raccontava Nnuzza con un misto di invidia e di ammirazione - sapeva leggere e scrivere e poteva riscuotere la pensione senza testimoni, con la sola firma; don L. e sua moglie, che la salutavano sempre con un sorriso e che, in occasione di un’indisposizione, le avevano dato un farmaco rivelatosi decisivo, mostrando con ciò di saperne più di un medico.
Ovviamente tutte le amiche di Nnuzza erano state invitate a vedere la nuova casa. Ma il massimo della soddisfazione Nnuzza lo ebbe quando donna S., donna M. e, nientemeno donna C., di ritorno da un “lutto” si fermarono per visitare la casa ed approvarono, congratulandosi, la felice scelta. Donna M. anzi, regalò subito a Nnuzza un quadro raffigurante Cristo risorto, portato in cielo dagli angeli ed attorniato da un nugolo di bianche colombe.
Con l'aiuto di mastro Ciccio, il quadro venne collocato sulla parete meglio esposta alla luce ed intorno ad esso, tutte le sere, Nnuzza e Cata si riunivano con altre vicine per la recita del Rosario.
Era Cata, più esperta, che intonava il recitativo dei misteri, dolorosi o gloriosi, enunciando con trasporto: “si contempla come Nostro Signore Gesù Cristo fu crocifisso e fu morto in croce” o come “partorì Maria Santissima il Nostro Redentore nella citta di Betlemme fra due animali nel Presepio” o che “Santa Elisabetta era gravida”; seguivano le giaculatorie finali con il rituale “ora pro nobis” delle compartecipi, sedute a semicerchio davanti al quadro e non sempre attente, nonostante i richiami di Cata.
Una sera di ottobre, verso l'imbrunire, la recita del Rosario venne interrotta da un improvviso sbattere di ali ed una colomba bianca, del tutto identica a quelle raffigurate nel quadro, attraverso velocemente la stanza, svanendo poi nel nulla, come inghiottita dal quadro stesso.
Nnuzza e Cata rimasero senza parole mentre le altre due donne che quella sera erano con loro, pur non attribuendo importanza alla cosa, dovettero convenire che la colomba non poteva, come avevano subito pensato, essere uscita, dal momento che porte e finestre erano chiuse.
Il fenomeno si ripeté nei giorni successivi alla stessa ora, richiamando curiosi, sfaccendati, agnostici e credenti, oltreché i massimi rappresentanti delle “zelatrici”, che dopo le iniziali perplessità decisero di intervenire.
Donna M. non manco di ricordare, e ciò accrebbe la verosimiglianza di quanto raccontato da Nnuzza e Cata, che una sua antenata, una santa donna, le aveva raccontato che da quello stesso quadro, collocato all’epoca nella dimora gentilizia della famiglia, un garzone aveva visto uscire una colomba che, fatto il giro del palazzo, era poi rientrata misteriosamente nel quadro.
Il poveretto non fu creduto, anzi fu schernito per il resto dei suoi giorni; ma questo nuovo episodio, sosteneva donna M., doveva essere valutato con molta attenzione.
Mastro Ciccio, con l'abituale serietà, pur dando atto dell’innegabile buona fede di Nnuzza e Cata, pensò potesse trattarsi di un insetto ingigantito dalla luce e propose, ricevendone un netto quanto scandalizzato rifiuto, di dare una spruzzata di DDT.
Intanto tutte le sere una folla sempre più numerosa riempiva la casa di Nnuzza per la recita del Rosario, diretta ora, per ovvie ragioni gerarchiche, non più da Cata ma da donna Rosina in persona, capo indiscusso delle “zelatrici” del paese. Nonostante tanta autorevolezza, o forse proprio per tale motivo, la colomba non si fece più vedere.
Una sera pero M.M., un simpatico sfaccendato, che appunto perché tale l’arguto Ciccillo Marando aveva soprannominato “Michelaccio”, si procuro chissà dove, ma verosimilmente presso il mulino di mastro Micantoni, una colomba vera, proprio in carne, piume ed ossa, liberandola di nascosto tra la folla in preghiera.
Ne seguirono scene indescrivibili. Don L., che fino a quel momento aveva espresso qualche cauta riserva, cadde in ginocchia, battendosi il petto; le donne gridavano al miracolo; Nnuzza e Cata piangevano a dirotto; il professore Carrino finse uno svenimento e venne adagiato sul letto di Nnuzza dallo stesso Michelaccio e da Ciccio B., riprendendosi soltanto dopo la somministrazione di due o tre bicchierini di “ferrochina”, l’unica bevanda di cui poteva disporre la povera Nnuzza.
A tarda sera la colomba fu ritrovata, ferita ed ormai morente, in un vicino sottoscala; venne raccolta da Mastro Ciccio e portata via, ma nessuno ebbe il coraggio di dirlo a Nnuzza e Cata che, seppure a ranghi ridotti, continuarono a recitare il Rosario tutte le sere confidando in una nuova, improbabile apparizione.
La pronipote di Nnuzza, giunta qualche tempo dopo dall’ Australia, non prestò eccessivo credito ai racconti della Zia, ancora sconvolta dal “miracolo” e vieppiù dalla microscopica minigonna indossata dalla ragazza; tanto corta che, osservava Nnuzza con sgomento, lasciava intravedere i “carzunetti”.
Il fatto, riportato in cronaca da qualche giornale locale, non ebbe tuttavia la risonanza che oggi i media riservano ad episodi analoghi, si tratti di Madonne che piangono o di apparizioni più o meno miracolose.
All’epoca la televisione non c’era ed i giornali non avevano la diffusione attuale.
Peccato: perché probabilmente, anzi certamente, sarebbe emersa una comunità paesana assai diversa da quella che, molti anni dopo, cronisti disinformati avrebbero dato in pasto allo “sdegno”, di una certa Italia benpensante, rivelatasi poi peggiore di quanto si potesse ragionevolmente immaginare.
Vicenza, luglio 1996. 

testo contenuto in PLATI', novembre 1996 


Rosario "Saro" Zappia è venuto meno or non è molto e qui è stato ricordato:


 

 

 

 

 

 

mercoledì 6 aprile 2022

Tornando a casa [di Hal Ashby - 1978]

Marando Domenico Antonio
"Mimmo"
di Giuseppe e Rosina Mittiga
Platì 17.04.1951 - Roma 15.09.2021
 

Caro Platì

Mai ti potrò scordare mio dolce paese
ove ho lasciato i miei ricordi
e recitato le pie preghiere.
Ritornerò sempre a calpestare le tue viuzze strette
e gli angoli dove costruivo
le mie casette di sabbia.
Ritornerò a respirare l’aria di montagna,
a bere l’acqua cristallina delle tue sorgenti
e mangiare il pane biscottato
con pomodori, cacio e olio d’uliva.
Verrò a salutare i nostri saggi vecchietti
e a discutere con i tuoi giovani
rivoluzionari-pacifisti.
Verrò a salutare la gnura Angeluzza
e vederla tessere ancora
le belle coperte di lana.
Sentirò ancora rullare il tamburo di Gianni
che lo rievocherà nei giorni di festa.
Vedrò ancora corteggiare da baldi giovanotti
le tue giovani fanciulle all’uscita della chiesa.
Domanderò sulla amministrazione comunale
e sentirò i pettegolezzi che mi erano sfuggiti.
Mimmo Marando
Roma, Gennaio 1972

L'immagine d'apertura è rubata dalla pagina fb dello stesso Mimmo Marando

domenica 3 aprile 2022

Piccole storie [di Carlos Sorin - 1975]


Ciao mi chiamo Francesco ho quasi dieci anni e frequento la quarta elementare “Istituto De Amicis” di Cirella di Platì nella mia scuola dobbiamo fare una ricerca sull’Aspromonte, su storia avvenuta tanti anni fa, nelle nostre montagne, ebbene io ho fatto tramite la mia bisnonna che ricorda tante storie che sono state tramandate in generazione in generazione, ora vi racconto qualcuna.
Panduri – 1 –
Questa è la storia di Panduri un paesino esistito nel 1908 si è abissato per il terremoto, ma ancora ci sono resti di mura.
Raccontano che c’era questo paesino e che alcuna gente è riuscita a salvare scappando, altri invece sono morti, dicono che una vecchietta era uscita di casa quando ha sentito il terremoto, però è ritornata indietro a recuperare qualche oggetto, dicono un pettine e purtroppo è morta sotto le macerie. Ma la cosa straordinaria è che dopo tanti anni un contadino platiese lavorando con l’aratro e i buoi hanno trovato un quadro sotterrato: era il quadro della Madonna delle Grazie che era nella chiesa di Panduri, si racconta che i buoi appena hanno visto l’immagine della Madonna si inginocchiarono davanti al quadro come se pregassero. Tanti anni fa, più o meno quindici anni, con la partecipazione anche del vescovo hanno detto la messa ai piedi delle mura del paesino.
La guerra del 1945 – 2 –
Mia nonna mi ha raccontato di questa guerra, lei era piccola ma ricorda quel momento perché il suo papà era uno dei soldati che ha vissuto quella guerra ed è riuscito a salvarsi, racconta che i soldati si nascondevano nelle montagne, e dentro le caverne che avevano costruito per nascondersi dai nemici. Il papà della mia nonna è riuscito a scappare, ed era salito su un treno per fuggire lontano ma è stato raggiunto dai nemici allora lui ha pensato di buttarsi dal treno e fingersi morto ma appena i soldati nemici si sono accertati che non era morto lo fecero prigioniero e lui raccontava che è stato legato e appeso ad un albero, ma è stato salvato dagli alleati, e visse fino alla età di 96 anni raccontando come un’avventura e una vittoria per lui perché si è salvato. Raccontava momenti di rara paura e sconvolta perché sentivano le brutte notizie e dei morti.
La gente era disperata perché avevano paura degli caccia aerei che buttavano le bombe in montagna.
Poi c’era un ponte pieno di mine lo chiamavano il “ponte minato” e la gente mentre andava in sella agli asini esplodevano.
Sembrano storie come i film che oggi vediamo, ma sono storie vere e vissute realmente, e chi è sopravvissuto li ha raccontato.
MARZANO FRANCESCO
CL 4° PLESSO CIRELLA
IST. COMP. DI PLATI’

Testo partecipante al Premio "E. Gliozzi" organizzato dall'Associazione Etno- Culturale Santa Pulinara, edizione 2021. 
Le foto a Panduri sono di Ernesto Gliozzi il giovane nei giorni del suo mandato alla chiesa di Careri.

giovedì 31 marzo 2022

Addio vecchia città [di Edgar Reitz - 1975]

Non è il passato che ci domina, sono le immagini del passato. George Steiner

 BOZZETTO CALABRESE
POTAMIA LA CITTA' FRA I DUE FIUMI
rivive nelle vecchie leggende calabresi
 
Platì, 30 dicembre.
Poco lontano da San Luca, su un’altura, si trovano i pochi ruderi rimasti dell’antica città di Potamia, il luogo e solitario, di tanto in tanto frequentato da qualche pastore che vi porta il gregge.
Potamia derivò il suo strano nome dall’Essere posta tra due fiumi; ma non per questo bisogna confonderla con la Mesopotamia. Questa infelice posizione determinò la sua immatura fine. Immatura, certo, perché stando alle testimonianze degli storici, Potamia ebbe solo dieci secoli di vita: pochini per una città.
Ma in Calabria non bisogna lamentarsi; i paesi calabresi, infatti, sono destinati a fare prima o poi, la medesima fine di Potamia, grazie alle azioni coordinate delle alluvioni e della incuria dei governi. Eppoi, Pandore, l’altra antica città calabrese, non visse soltanto tre secoli e mezzo!
La tecnica che i due fiumi seguirono per levare di mezzo Potamìa fu semplice e tradizionale: scavare lentamente alla base il monte su cui era posata la città; le frane, a poco a poco, ridussero questa un mucchio di pittoresche rovine.
Un tentativo di estremo salvataggio i Potamioti lo fecero, prima di abbandonare le proprie case: cercarono di tirarsele altrove per mezzo di corde; ma le corde erano di lana e si rompevano prima che la casa si muovesse dalla sua posizione.
Questo, naturalmente, lo dice la leggenda. Potamia era una graziosa cittadina, fornita di sindaco e di assessori municipali. Il sindaco era, a detta di tutti, una gran testa; ma neanche gli assessori scherzavano.
Un bel giorno di aprile dell'anno 1543 (ma può darsi che sia stato anche l'anno 1654, o l’anno 1948) il sindaco e gli assessori si riunirono nel palazzo del Comune, per prendere gravi decisioni. Fu una seduta laboriosa; noi lo abbiamo appurato attraverso un nostro conterraneo che aveva il nonno del nonno di suo nonno che esercitava a quei tempi la professione di Testimone Oculare.
Tra gli altri provvedimenti presi, fu in particolare stabilito: di nominare un vice-sindaco che sapesse fare la firma con lo svolazzo, giacché quello in carica riusciva a malapena a disegnare le “o”- col bicchiere.
Di dimezzare lo stipendio allo spazzino comunale, poiché aveva preso moglie ed era pertanto diventato “la metà” di questa.
- Di costringere gli abitanti a trovare amici presso le città vicine, in modo da rinsanguare l’erario (si sapeva anche allora che chi trova un amico trova un tesoro).
- Di sovvenzionare un viaggio del sindaco e degli assessori, che dovevano andare in missione segretissima presso la vicina città di X. E con quest’ultima conclusione, la seduta si sciolse.
Il giorno dopo, il sindaco e gli assessori partirono per la loro missione segretissima;
la popolazione pianse un po' di commozione, e qualcuno fece un breve elogio funebre, giacché, si sa, “partire è un poco morire”.
Ma i nostri eroi, inforcarono fieramente gli scalpitanti ronzini, e si avviarono giù per la vallata.
Sulle montagne c’era un metro e mezzo di neve; ma gli amici si erano premuniti e avevano lasciato a casa i mantelli e i maglioni, dopo aver bene ascoltato le previsioni del tempo, alla radio. Non si venga ad obiettare che a quei tempi radio non ne esistevano; abbiamo detto, infatti che la vicenda si poté svolgere anche nel 1948.
Durante il viaggio, ognuno taceva e badava a battere i denti dal freddo (si intende, che ognuno batteva i propri).
A un tratto, il più piccolo di tutti, Levantino, ruppe il silenzio per chiedere a Donizò, assessore anziano:
- “Comparuccio, mi spiegate un pò le ragioni di questa missione?”
- Non l’avesse mai mai detto; gli rispose un tale coro di zittii, che l’asino, imbizzarrito, per poco non lo scaraventò a terra.
- “Scemo” - gli urlò sottovoce Donizò - “se noi sapessimo le ragioni di questa missione, essa non sarebbe più segreta e potremmo tomarcene a casa. Tu vorresti tomare a casa, dì?”
-  Ma nemmeno per sogno, compare” - si affrettò a chiarire il malcapitato - “se tomo a casa perdo l'indennità di trasferta!
E la comitiva riprese in silenzio il suo cammino.
Dopo alcune ore di marcia, i potamioti sentirono un urlo di dolore, lacerare l’aria: era caduta la sera. Tentarono premurosamente di rialzarla, ma non ci riuscirono e stabilirono di trovare un luogo dove passare la notte.
Per fortuna erano arrivati davanti alla porta della città X.
Qui il sindaco si fece anzitutto un dovere d'informare gli assessori che la missione era troppo segreta, perché si potesse sapere la ragione della sua fine. Levantino tacque pienamente convinto.
Ora bisognava accamparsi per trascorrere la notte; ma dove?
Entrare nella città non si poteva perché la grande porta era stata chiusa; gli assessori si rivolsero al sindaco per avere il suo parere; il sindaco non li deluse. Stabilì infatti, che stare da una parte o dall`altra della porta della città era la medesima cosa; bastava solo immaginare che l'esterno fosse dalla parte opposta.
Gli assessori seguirono il consiglio e, coricatisi ai piedi della porta della città di X, immaginarono che l'interno fosse dalla loro parte, e l'esterno dall’altra.
I nostri assessori, dunque, stavano saporitamente dormendo, quando si accostò a loro un bello spirito che, dopo averli osservati un pò, si divertì a rifare loro i connotati con l’aiuto di un pezzo di carbone. Figurarsi quando, la mattina, i nostri amici si svegliarono!
- “Tu non sembri più tu; devi essere qualche altro”, - disse il sindaco a ciascun assessore. E ognuno di questi a sua volta, fu concorde nell'affermare che il sindaco non doveva essere lui.
Ebbero un bel consultare le rispettive carte d'identità; non ci si raccapezzarono più.
Come fare per sapere se erano ancora loro, o non fossero diventate altre persone?
C’era un solo modo: chiederlo ai Potamioti. E così decisero di fare. Tomarono sui propri passi, finché  arrivarono ad una collina donde si scorgeva il paese e li si misero a urlare con quanto fiato avevano in gola:
- “Oh gente di Potamia!” -
I Potamioti udirono il richiamo e si affacciarono sulla piazzetta del paese:
- “Che volete? Che volete? “  - risposero.
- “Il sindaco e gli assessori sono costà?” - urlarono di rimando i nostri eroi.
- “Gnura no, gnura no! !”
Fu la risposta, (signornò, signornò).
- “Ah, Formaggio! (era il protettore del paese) - Allora siamo noi!” esclamarono rinfrancati il sindaco e gli  assessori; e se ne tomarono a zonzo per il mondo.
Quando la sera cadde di nuovo, si rifugiarono in una caverna per dormire. In questa caverna ebbero la ventura di trovare un sacco; tutti vi infilarono le gambe e si addormentarono beati.
Quando la mattina dopo si svegliarono, in mezzo a tutto quel groviglio di gambe, ognuno stentava a riconoscere le sue; e stava per succedere un parapiglia quando, per fortuna, passò di lì un boscaiolo. Avvicinatosi e saputa la ragione della disputa, si fece da parte e tirò sul sacco una gran bastonata.
- “Ah!” - urlò uno della comitiva. E tirò subito fuori le proprie gambe.
Il boscaiolo continuò a tirare bastonate sul sacco; e, a mano a mano, ognuno ritirava le proprie gambe. A poco a poco con si efficace metodo, fu appianata la controversia. E gli amici ringraziarono di cuore il boscaiolo prima di rimettersi in cammino.
Mentre camminavano, (o, per meglio dire, mentre i poveri ronzini camminavano e loro stavano a cavallo), smarrirono la strada.
I Potamioti non si scoraggiarono. Abbordarono una donna che passava. 
- “Ehi, buona donna, sapete indicarci la strada?”
- “Dove dovete andare?” - chiese di rimando l’interrogata.
- “Dobbiamo andare a Zonzo” - la informò il sindaco. 
La donna si strinse nelle spalle e confesso di non conoscere tale città. La stessa risposta, gli amici, l’ebbero da decine e decine di persone. Infine decisero di trarsi d'impaccio, affidandosi all'esperienza e alla accortezza dei loro ronzini.
Si accomodarono quindi in sella e abbandonarono le briglia. 
I ronzini capirono l'antifona e scattarono come frecce verso le stalle di Potamia; vi arrivarono in men che non si dica, che la fame gli spingeva e li faceva camminare come refoli. Fu così che il sindaco e gli assessori del Comune di Potamia poterono rivedere la loro patria; e se ne allontanarono di nuovo solo quando le frane lo resero necessario. 
Questa è la leggenda che racconta le gesta della gente di Potamia. 
Michele Fera
GAZZETTA DEL SUD - 30 dicembre 1955
e successivamente, PLATI’, rivista di Mimmo Marando, nov. 1996
Le foto in apertura sono una cortesia di Rosa Cusenza che ringrazio.

 

lunedì 28 marzo 2022

L' amico amercano [di Wim Wenders - 1977]




Platì 17 febbraio 1938 XVI

Carissimo Saverino,
visto che da tanto tempo che non ricevo più tue lettere, mi son deciso a scriverti. E ti domando. Come mai ti sei dimenticato di me? Eppure ti volevo e ti voglio tutt’ora sempre bene come un fratello. Forse l’aria d’America ti ha fatto dimenticare di tutti e di tutto? Io non posso credere mai questo! Quindi ti esorto a volermi bene e non dimenticarmi, scrivendomi spesso. Io ricevo le tue lettere con tanto piacere.
Ti mando una figurina ricordo della I° Messa di mio fratello Ernesto e una fotografia fatta assieme a lui e ad Emilio Zappia, sicuro che lo accetterai con piacere e gradirai il mio pensiero.
Lo sai che mio zio medico si è fidanzato con la figlia di d. Rosario Zappia?
Io qui conduco sempre la solita vita. Forse mi arruolerò nella R. Aereonautica.
Aspetto una tua fotografia per vedere come ti sei fatto grande.
Niente altro per ora. Ti abbraccio fraternamente e credimi
Tuo sempre
Peppe Gliozzi
 
In quel 17 febbraio del ’38, XVI° dell'era in fez e camicia neri, lo zio Pepè stava per compiere il suo diciottesimo anno di vita. Era già “u satturi”. Mentre nutriva speranze aviatorie perdeva la sicurezza riposta negli affetti giovanili, seppur indelebili. Il suo è un tono strettamente confidenziale, aperto e intimo nello stesso tempo, che ricorrerà sempre nelle corrispondenze, specie quelle coi familiari. Le sue missive erano sempre piene di notizie dell’ultima ora, come in questa: un fratello prende messa, lo zio medico si fidanza, la guerra che si approssima. Nella foto sulla terrazza della casa che fu dello zio Michele e dello Giuseppino - nati Mittiga - con lui ed Ernesto c’è Emilio Zappia fratello della futura sposa come anche di Don Ferdinando Zappia, colui che illuminò le notti di Platì. Difficile è stato rintracciare Saverio Saverino Violi, forse era figlio di Antonio e Marianna Barbaro, classe 1919, gennaio 24.



 

martedì 22 marzo 2022

Il signor Bachmann e la sua classe [di Maria Speth - 2021]


Ho resistito per un bel po' di tempo perché la scuola come istituzione mi ha alienato fin dall'inizio. Dieter Bachman


Il signor Bachmann e la sua classe  (Herr Bachmann und seine klasse) non è altro che gli ultimi mesi di vita accademica di un maestro fuori dal comune, come lo era Bruno Cirino nello sceneggiato televisivo Diario di un maestro di Vittorio De Seta del 1973. Dieter Bachmann ha raggiunto i sessantacinque anni di età e alla fine dell’anno scolastico, dopo aver consegnato ai suoi alunni le pagelle che per lui non significano niente, verrà messo a riposo. Il film della regista tedesca Maria Speth ha lo stesso incedere di un documentario di Frederick Wiseman ma contiene di più: è il testamento audiovisivo della maieutica di Danilo Dolci, la lezione musicale di The School of Rock (2003) di Richard Linklater, l’amore pe l’insegnamento del maestro Lopez in Essere e avere (Être et avoir, 2002) di Nicolas Philibert, è, infine, per andare più a noi, il film di Michele D’Ignazio Mare lento*con molti più soldi e mezzi tecnici, il professor Fabio Cuzzola quando avrà sessantasette anni e non sarà per niente disilluso. È la scuola fatta da chi la sa fare e il cinema a fargli da compare.

https://iloveplati.blogspot.com/2021/12/mare-lento-di-michele-dignazio-2009.html



sabato 19 marzo 2022

Qualcosa di personale - Canonico Giuseppe Branciforti Quaresimabita

L’amicizia è l’amore senza ali. Nella gioia è cosa buona avere un amico … nel dolore … è un bisogno.
L’ideale accanto al reale svanisce come nebbia al sole …
L’impressioni della prima età sono d’influenza decisiva … e gli anni non potranno cancellarle del tutto …
La culla e la tomba … ecco le due stazioni della vita.
Platì 19 Marzo 1907
Canonico Giuseppe Branciforti Quaresimabita
 da Caltagirone

Immagine e testo contenuti nell'album personale di Ernesto Gliozzi il vecchio

mercoledì 16 marzo 2022

L'asina capricciosa [di Alf Thunder - 1973]

23 – 8 – 945 Carissimi
Sono giunto bene e immacolato di sole. Non posso mandare più grano, perché Rosario protesta che l’asina è ammalata.
Anche per il vino disdetta …
Non mi resta che il pettine di Roca.
State tranquilli per me. Andando a Polsi, Ernesto ricordati del cambio del fagiolo col grano. Mi scriva pure per l’affare
Baci per tutti
Aff zio
Ernesto

 

domenica 13 marzo 2022

Stati di alterazione progressiva [di Alan Rudoph - 1985]

Si fa certo da me, sottoscritto Medico Chirurgo, che Caterina Zappia nata Ielasi è da parecchi mesi che soffre di prosopalgia, nevralgia del quinto, tale da renderla in uno stato deplorevoli primo, in cui l’inferma, nell’attualità, trovasi, poiché tal processo morboso, ribelle a qualsiasi metodo curativo, ha avuto per effetto alterazione dei nervi ottici onde l’ammalata è divenuta cieca, e come tale, è impossibile ella sia abile al lavoro.
In fede, si rilascia il presente a richiesta della stessa Zappia in carta informe per uso militare.
Platì, 10 Dicembre 1916
Dottor Papalia Vincenzo
 
Per una biografia sul dottor Papalia Vincenzo:
https://iloveplati.blogspot.com/2014/09/dottore-nei-guai-reg-ralph-thomas-1963.html
https://iloveplati.blogspot.com/2019/11/dottore-nei-guai-teresita-annita.html

 

 




 

mercoledì 9 marzo 2022

Ninfa plebea [di Lina Wertmüller - 1996]



BOZZETTO CALABRESE

La ninfa del bosco Acone


Platì, 21 maggio
Mico si accese la pipa e aperse la bocca in atto di parlare. L'uditorio divenne attentissimo, ma Mico, imperterrito apri la bocca ancora un pò, poi la spalancò del tutto e infine la rinchiuse, tacendo. Aveva semplicemente fatto uno sbadiglio. Ciccio Donarom si stizzì e mise subito in atto il suo metodo infallibile per far parlare il vecchio. Gli diede una martellata su un ginocchio, e, in atteggiamento michelangiolesco, gli gridò- «E perché non parli?»
- «Va al diavolo!» — ribatté Mico, ma incominciò subito il suo racconto (Inutile dire che l'aveva appreso dai libri della Saggia Sibilla, di cui si vanta d'essere stato, l'ultimo
segretario).
— «La più bella ninfa del bosco di Acone era Anna. Il suo sorriso si comunicava a tutta la natura. Nella zona non si trovava più un salice piangente: quei pochi che c'erano s'erano riconfortati alla sua vista e non facevano che ridere e cantare. Fu in quel periodo che nacquero gli Ippocastani, quei bellissimi alberi s'erano fino allora chiamati «Ippobiondi», ma decisero di cambiar nome per intonarlo al colore dei capelli della ninfa. Avevano un bel da fare gli astronomi di quel tempo, per osservare le comete che navigavano nello spazio: alla vista di Anna, quegli astri si mettevano ad agitare la propria coda in segno di saluto, proprio come cagnolini affezionati..»
Qui ci parve che Mico cominciasse ad esagerare; cercammo allora di interromperlo, perché, se il racconto prendeva quella piega, chissà dove si sarebbe andati a finire.
— «Alle corte » — gli chiese a bruciapelo Ciccio Donarom, agitando il martello, — « qual è il fatto che volevi narrarre?»
Mico parve imbarazzato. Con voce più cauta ci confidò: «Quando le ninfe sparirono dai boschi, Anna promise alla natura, sua amica, che sarebbe tornata. Ebbene, voi non ci crederete, ma la ninfa, dopo tanti secoli, ha mantenuto la promessa. Me ne sono accorto iersera, quando ho visto la cometa
«H» muovere la coda in segno di saluto...»
Decisamente Mico non era in vena che di raccontar balle. Lo mandammo a quel paese in termini più che poveri, e uscimmo all'aperto.
Fuori c'era un'inondazione di sole. Guardammo instintivamente il vecchio salice piangente, in un angolo del giardino: l'albero era scosso dalla brezza e tra le sue foglie fremeva una interminabile risata d'argento.
MICHELE FERA

GAZZETTA DEL SUD, 22 maggio 1957