"Sono come un ontano del fiume, le mie radici sono fisse e profonde" Mikio Naruse, 1958
domenica 16 gennaio 2022
Le cinque rose di Jennifer [di Tomaso Sherman - 1989]
Ciao … Mi chiamo
Jennifer frequento la classe 4a,
ho 10 anni e vivo a Cirella, un paesino ai piedi dell’Aspromonte. Io se mi
affaccio dalla finestra posso ammirare il fascino dell’Aspromonte ma posso
ammirare Pietra Cappa. Pietra Cappa è il monolite più alto d’Europa, è alta 140
metri e occupa 4 ettari di terreno, a pensare che tanti turisti partono da
lontano per visitare l’Aspromonte mi fa sentire fortunata. Nella montagna
Aspromonte si possono trovare diversi animali tra cui: il cinghiale, il lupo,
la volpe, invece tra i rettili la più diffusa è la vipera e tante altre specie.
Nella flora troviamo principalmente il faggio, abeti, il castagno, la quercia
mail più diffuso nelle colline Aspromontane è l’ulivo.
giovedì 13 gennaio 2022
Matrimonio in famiglia [di Rick Famuyiwa - 2010]
DIVAGAZIONI IN CASA NOSTRAIl rito nuzialenegli usi calabresiAd Africo, la cittadina dell'ultima
puntadella Penisola, il matrimonio assume la
piùvasta eccezione alla semplicità dei
popoli
Africo 19
gennaio
Ad Africo la citta più strana dell'ultima, punta dì Calabria il rito del matrimonio non poteva
che assumere la più vasta eccezione alla semplicità dei popoli rivieraschi. Nella
compagine della città chimerica, che vive appollaiata sul cocuzzolo di un
monte, come il purgatorio dantesco, distaccata quasi del tutto dalla gente, i
matrimoni avvengono solo tra parenti ed addizionano, così, i difetti — secondo una autorevole teoria fisiologica —
niella scala delle generazioni, tramandando ai nascituri tare ed infermità.
Sono i parenti a disporre delle parentele e così, in segreto che i soggetti da convogliare a nozze neppure lo
sanno. Cosi come nel Sesto di S. Martino a Firenze nel 300, gli sponsali servivano
ad integrare i rapporti di parentela, ugualmente ad Africo, le nozze non
volgono che a colmare partite vuote nei bilanci famigliari della gente più
in vista. Solo più tardi i designati
s'incontreranno nella loro qualità di fidanzati, che vale soprattutto a stabilire
in rapporti di reciproca suggestione da intensificare in un certo qual modo l’amore
attraverso gli sguardi ansiosi dei futuri fidanzati. Poi un distacco reciso,
fin tanto che i parenti non avranno sistemato le loro faccende, certamente più
serie. Quando è stabilito il giorno delle nozze la vicinanza dei parenti s'intensifica
ed i loro cori di gioia, si faranno sentire più da vicino. Viene così stabilito
da certi decreti intimi il giorno delle nozze ed in tal giorno, le donne,
completeranno nell'interno delle case agghindate a festa, l'abbigliamento della
sposa; mentre gli uomini, fuori estraggono con mossa fulminea delle tasche
castagnole ben dosate per scaraventarle con tutta forza contro le mura che
custodiscono il loro amato bene e le gravi detonazioni faranno trasalire la
verginità inquietante della sposa. I più vecchi scaricano di tanto in tanto in
aria vecchi archibugi dalle polveri antiquate ma efficienti, mentre i sumpesseri,
(i genitori dei rispettivi sposi), eseguono in aria lanci di confettini
variopinti e con la verga bastoneranno di santa ragione i monelli che non
vogliono allontanarsi.
Il corteo sfila davanti
alla Chiesa. In testa la sposa col velo bianco e le donne; dietro lo sposo con
la sempreviva al petto, e gli uomini. Al ritorno le madri spargeranno con
solerte premura il grano sulla soglia di casa, prima dell'ingresso dei nuovi
arrivati. Quindi i baci ed i convenevoli.
Ma, a sera, quando fa
buio tutto tace, la sposa entrerà di soppiatto nella casa del tuo uomo e li
riceverà ti bacio del primo incontro. Fuori, intanto, fervono le feste
danzanti. Una gran torcia arde nei cortili che richiama tutto il vicinato. La serata
è ad ingresso libero. La torcia, fatta di resina indiana e che l'uso popolare
chiama Leda, sprigiona nuove fiamme rischiarando i volti degli intervenuti accoccolati
intorno al fuoco, talvolta con aria stanca, se le libazioni della giornata sono
stati abbondanti. Poi intorno all'allegra fiammata si snoderà la tarantella.
ARTURO GIURLEO
Foto e testo: GAZZETTA
DEL SUD 20 gennaio 1957
Il
testo di Arturo Giurleo è un piccolo tesoro di scrittura che riporta alla luce
tradizioni ormai sepolte, anche tra i fogli di giornali di provincia, che
diventano patrimoni di cultura. Dell'autore, come di tanti altri che hanno scritto sulla locride nella Gazzetta del Sud, le tracce si perdono negli archivi dello stesso giornale.
lunedì 10 gennaio 2022
La costa del sole [di John Sayles - 2002]
SI ESTENDEVA DAL FIUME HOLEX A CAULONL'antica regione
della LocrideOggi costituisce una delle zone più
depresse della Calabria, malgradoche un tempo sia stata fiorente, piena
di vita e di intensa civiltà
La regione
della locride si estendeva dal fiume Holex (attuale Amendolea), che segnava il
confine del territorio reggino da quello locrese, al territorio di Caulon, nei
pressi dell'attuale Marina di Monasterace, occupando quasi tutta la fascia
litoranea dell'attuale provincia di Reggio Calabria bagnata dal glauco Jonio.
Una
leggenda vuole che le cicale sulla sponda sinistra dell'Holex, in territorio
locrese, fossero canore, mentre sulla sponda destra, in territorio reggino,
fossero mute. Si spiegava il curioso episodio col fatto che Ercole, giunto
esausto sulla sponda destra del fiume e non potendo prender sonno perché
disturbato dal canto delle cicale, pregò ed ottenne da Giove che divenissero
mute. Un'altra versione attribuisce alla maledizione lanciata da S. Paolo
l'afonia delle cicale del territorio reggino, perché disturbato dal loro canto
mentre predicava.
In
vicinanza dello stesso fiume era Peripoli, colonia locrese messa a guardia del
confine, non lontana dall'attuale Melito Portosalvo, cara alla storia del
Risorgimento per il leggendario sbarco di Garibaldi nel 1860 e per
quello del 1862, che ebbe per doloroso epilogo lo scontro fratricida di Aspromonte.
Vi è ancora sotto le acque della rada di Melito la carinea del piroscafo
«Torino» affondato dalle cannonate delle navi borboniche «Aquila» e «Fulminante»,
le quali inutilmente tentarono di ostacolare lo sbarco del 1860 e il
corso della nuova storia.
Nei pressi
di Melito, l'attenzione è attratta dalla caratteristica roccia di Pentidattilo,
fantasiosamente illustrata in copertina da Sìmbari, una roccia gigantesca che
si staglia nel cielo, a 400 metri di altezza, come una colossale mano dalle
dita aperte, alla base del quale sono abbarbicati i ruderi di un vecchio
castello medioevale, che ricorda le tragiche lotte tra le famiglie Alberti ed
Abenavoli.
Lungo la
linea ferroviaria Reggio-Catanzaro, che corre parallela alla statale 106 e
vicinissima al mare, si allineano numerosi i nuovi paesi, lindi e civettuoli,
scesi dalla marina alle colline retrostanti, attratti dalle nuove esigenze e
dai nuovi mezzi del progresso umano.
Il capo
Bruzzano (Zephyrlum promontonum), che si prolunga nel mare descrivendo un ampio
arco con l'altra estremità di punta Stilo, ci ricorda lo sbarco in questa
località dei primi coloni e la loro primitiva sede, prima di prendere dimora
definitiva sul monte Epopis e fondare, nel VII secolo a. C, la città di Locri.
In alto, a circa 20 Km. a nord del capo
Bruzzano, quasi al centro dell'ampio golfo, si erge maestosa l'amba
conchiglifera sulla quale è ubicata Gerace, dominatrice delle ampie vallate dei
fiumi Novito e S. Paolo. Vero baluardo naturale, Gerace, difesa a monte dal
munitissimo castello, i cui resti testimoniano le vicende bizantine e normanne
della gloriosa città, deve il suo nome alla voce greca «ieròs», sacro (città
santa) o, secondo altri, a «ièrax», sparviero. Infatti, uno sparviero, o meglio
un'aquila ad ali spiegate, è lo stemma del Comune. Vuole la leggenda che i
profughi locresi, guidati dal volo di uno sparviero, si rifugiassero sulla rupe
inaccessibile per sfuggire alle continue invasioni e razzie dei Saraceni.
Quantunque in posizione ritenuta inespugnabile, venne tuttavia saccheggiata più
volte dai Saraceni che, nel 952, inflissero ai Bizantini una grave sconfitta.
La città conserva tuttora la struttura di una munita fortezza bizantina dell'alto
medioevo e vi si accede ancora attraverso le porte del Borghetto e delle Bambarde
per le strade irte e selciate, ai cui lati sono allineati vecchi palazzi,
alcuni con bifore. La Basilica-Cattedrale stessa, vista dalla parte esterna delle
tre absidi, ha il severo aspetto di una fortezza e le strette e lunghe finestre
gotiche somigliano a vere e proprie feritoie.
Questa
costruzione chiesastica - la più grande della regione - ha la forma di un vasto
rettangolo di circa metri 26x75, con l'altezza alla cupola di circa m. 25 e con
un dislivello esterno a est di circa m. 6, dove è situata l'ampia cripta. L'inizio
della costruzione si fa risalire ai primi decenni del secolo, mentre è sicura
la data della sua consacrazione, 1045, come si rileva da una targa in piombo
incastrata nella terza colonna in «corno Evangeli», esistente al tempo
del vescovo Pasqua. Tra le costruzioni coeve occupa un posto importantissimo
l'icnografia della basilica latina a tre navate, divisa da venti colonne greche
di marmo scanalate o lisce, sormontati da capitelli di vario stile e da archi falcati
in tufo; la presenza del transetto sporgente triabsidato e della cupola; la
cripta suddivisa da 24 colonne di granito, provenienti, come quelle delle
navate, dai templi della vicina Locri, sono elementi efficaci a dimostrare
l'ardita e vasta concezione architettonica dell'opera, ideata e portata a termine da esperti architetti.
L'insigne
archeologo Paolo Orsi, al quale tanto deve la nostra terra per le sue
importanti scoperte archeologiche, la definì «la più importante e grandiosa
costruzione della Calabria, il più sontuoso monumento della regione».
Nei recenti
restauri e scavi nella
cripta (1955), si è rinvenuta, tra l'altro, una primitiva sacra mensa e si è riscontrato che la
costruzione dell'XI sec. è sorta con un preesistente complesso edilizio dei
secoli VII e VIII.
Nei pressi della
Basilica-Cattedrale sorge, più in alto, il castello (m. 480), costruito sulla viva
roccia, tagliato particolarmente tutt'intorno per renderlo inaccessibile da
tutti i lati. Un profondo fossato verso il lato est lo divideva dalla città alla
quale era unito solo attraverso il ponte levatoio. Dalla sommità del castello, l'occhio
spazia sul mare da capo Bruzzano a punta Stilo, dalle ampie vallate circostanti
ai pianori della Milea, alle giogaie dell'Aspromonte.
In questo
castello, ormai in gran parte distrutto, sotto la dominazione normanna, nella sala
di Mileto, pare sia avvenuta la pacificazione tra il conte Ruggero e suo
fratello Roberto.
Altri
tesori d'arte contiene la vetusta città: la chiesa di San Francesco, in
completo abbandono e quasi distrutta, in stile romanico - gotico, del 1252 dal
bel portale ogivale a costoloni, con decorazioni di carattere arabo-normanno, e
la piccola chiesa di S. Giovannello, dalle caratteristiche forme (abside
semicircolare).
Gerace
ebbe, nel passato, grande importanza politica, militare e religiosa, e durante la
dominazione borbonica fu capoluogo del distretto e sede di tutti gli uffici.
Nel 1847 ebbe luogo nel suo distretto l’insurrezione liberale, coordinata con i
moti di Reggio e Messina; ma, fallito il moto, dopo sommario processo,
nella sottostante piana della città, il 2 ottobre 1847, vennero fucilati: Michele
Bello, Pietro Mazzoni, Domenico Salvatori, Gaetano Ruffo e Rocco Verduci, antesignani
del Risorgimento della patria.
Ai piedi
della rocca geracese appare, adagiata come in un sonno di secoli, la pianura,
verdeggiante di ulivi e di pampini di vite, e le colline della Mannella, Abbadessa,
Janchini e Patarriti, sulle quali sono vivi e parlanti gli avanzi di una città
dalle tradizioni gloriose e millenarie, che dette al mondo occidentale il primo
codice di leggi scritte: Locri.
Da Locri si
scorge il caratteristico castello di Roccella con torre di vedetta, armato con
artiglierie e caposaldo di resistenza nell'ultima guerra mondiale; sia la
torre, però, che il castello sono in pessime condizioni di staticità e quasi distrutti.
Il castello subì vari assedi da parte dei Saraceni, il cui capo, Dragut, invano
lo assali, rinunziando all'impresa quando ebbe colpite diverse navi dalle
colubrine del castello.
Chiude
l'ampio golfo l'estremità di Punta Stilo (il Concyntum promontorium degli antichi),
sotto il cui faro sono visibili i resti di tempio dorico.
In alto,
alle spalle del Faro, sulla vasta e brulla montagna del Consolino, sorge
abbarbicata alla roccia la storica cittadina di Stilo, della quale l’insigne
archeologo Paolo Orsi scrisse: «Stilo, annidata sulle rocciose pendici del
monte Consolino, sbarrando la pittoresca e storica vallata sottostante, che poi
si serra e sale erta e rapida alla regione centrale e appenninica, selvaggia e
ricca di selve secolari, Stilo così piena di ricordi bizantini e normanni e
patria del fiero e turbolento monaco Tommaso Campanella, che nel secolo XVII
con le sue ardite teorie politiche e sociali mise a soqquadro il Mezzogiorno, è
tutta dominata da questa piccola gemma dell'arte bizantina - la Cattolica -
incastonata su un brevissimo risalto dell'Aspromonte. Ed è oggi entro la
piccola città l'unico e prezioso avanzo superstite della bizantinìtà, che altri
e certo pregevoli monumenti sono tutti scomparsi, travolti dalle tristi vicende,
che per quasi un millennio attraversò Stilo, ultimo il sacco e l'incendio
perpetrato dai Francesi nel 1804».
La Cattolica, bellissima piccola chiesa bizantina dalle
linee caratteristiche orientali, vero gioiello d'arte pervenuto fino a noi
quasi intatto, riproduce un tipo di chiese spesso ripetute in Georgia, in
Armenia e nel Peloponneso. Costruita sopra un limitato ed angusto ripiano del
monte, domina la città di Stilo; è una costruzione quadrata sormontata da
cinque basse cupole con tre absidette volte ad oriente. L'interno, di appena sei
metri di lato, è diviso da quattro colonne in tre piccole navate o nove
quadrati uguali: le colonne, due di cipollino, una di granito ed una di marmo bianco,
provengono da templi antichi e sono dotate di capitelli diversi.
Importantissima la prima colonna a destra, sulla quale è scolpita una greca iscrizione,
che tradotta, dice: «Dio è il Signore apparso a noi».Paolo Orsi, che vivamente
si interessò per i restauri, efficacemente coadiuvato dai mezzi finanziari concessi
dalla sensibilità della Regina Margherita, la definisce «...insigne monumento bizantino,
il più bello, il più completo della Calabria; malgrado la sua piccola mole,
anzi appunto per essa in particolare, desta l'ammirazione degli studiosi».
La plaga descritta, che è tutta la costa jonica della
provincia, è una delle contrade più depresse della regione calabrese, malgrado
che nell'antichità sia stata fiorente, piena di vita e di intensa civiltà.
Deleteria
azione degli agenti atmosferici e tellurici, incuria di uomini, hanno
trasformato gran parte di questa terra in brulle colline argillose e in aridi terreni.
Solo nella fascia costiera, dove la tenacia dell'uomo ha conteso palmo a palmo l'humus
all'avverso destino, la terra è coltivata ad ulivi ed agrumi.
Con
l'avversità degli elementi e la incomprensione dell'uomo fanno stridente
contrasto le bellezze naturali della regione: i panorami paradisiaci, il cielo
di cobalto, i purpurei tramonti, la tradizionale ospitale cortesia del
calabrese, il profumo della zagara che si sposa a quello del gelsomino, la mitezza
del clima, rendono la nostra terra un giardino sempre fiorito.
U. Sorace Marasca
Gazzetta
del sud 17 gennaio 1956
martedì 4 gennaio 2022
Una raffica di piombo [di Paolo Heusch - 1965]
PLATI’ - In contrada «ALATI» la
neve ha raggiunto gli 80 centimetri di neve
GAZZETTA
DEL SUD 12 gennaio 1956
Incredibile
fortunadi un
cacciatore a PlatìPlatì,
16 gennaio
(M.
F.) - La caccia ai tordi ha assunto, nelle nostre zone, sviluppi imprevisti:
migliaia e migliaia di questi volatili, cadono sotto il piombo dei cacciatori.
Incredibile
successo ha avuto un metodo sperimentato ieri l'altro da un cacciatore nostro
concittadino; questi, avendo notato come
le «Marvizze » volano a stormi
compatti, ha caricato il fucile con cartucce pesanti, usate di solito per la
caccia alla volpe: sparando sugli stormi ha uccìso con cinque colpi, ben
sessantacinque bestiole.
Non
è il numero che fa impressione, perché dato l'andamento della caccia di
quest'anno, ogni cacciatore che si rispetti, non torna casa se non ha nel carniere
almeno una cinquantina di tordi; ma è impressionante il fatto che il suddetto cacciatore
abbia potuto con un sol colpo fare cadere dieci quindici tordi per volta.
A
detta dei cacciatori anziani, un fatto simile non si era ancora verificato nel
nostri paraggi; solo una volta, nel 1939, un cacciatore sparò con un sol
colpo sei beccacce; ma i maligni dicono che una sola di queste bestie fu
colpite, mentre le altre
morirono
per sincope cardiaca. provocata dalla paura ...
Riferendosi
a questo fatto, celebre negli annali della caccia platiese, non vogliamo insinuare
nulla; ciononostante, non escludiamo
che
se si facesse l'autopsia a tutte le vittime del fortunato cacciatore di questi
giorni, si scoprirebbe che almeno una di esse è morta per la paura!!...
GAZZETTA
DEL SUD 17 gennaio 1956
sabato 1 gennaio 2022
La vita semplice [di Francesco De Robertis - 1945]
giovedì 30 dicembre 2021
Un mondo a parte [di Chris Menges - 1988]
C’era
una volta Platì/C’era una volta in Platì! Dentro questi titoli rubati al Maestro
dei Maestri si può incorniciare la “Vita di Platì”. Quella che viene fuori
dalla trascrizione dei Catasti Onciari del 1746 e del successivo del 1754. In
quelle pagine Platì non è mai riconosciuto ancora come paese ma di volta in
volta come: Terra, Tenimento, Curia, Unità, Università e, molto più spesso,
Motta. Come già altrove divulgato per Mocta, Motta, si intende un rialzo di
terreno. I due Catasti non sono molto dissimili nella loro forma, sono
differenti nel contenuto finale. Per ora e per non annoiare riportiamo la “Vita di Platì” del 1754 e con
gli occhi e la penna di Don Tolentino Oliva parroco, cui fu devoluto l’incarico
di registrare lo Stato delle Anime.
Erano 220 Fuochi. Per Fuoco o focatico si intendevano le singole unità
familiari comprendenti le persone soggette al pagamento delle imposte. I 220
fuochi erano comprensivi di 901 Anime: 462 donne, 439 maschi, 5 adolescenti
erano chierici, 7 i sacerdoti. Tra le donne vi erano 34 vedove e due in capillis. Con “virgines in capillis” si definivano le giovani nubili
che “per segno di illibatezza dovevano portare i capelli raccolti e non
scioglierli che il giorno delle nozze”. Altri Tempi! La vita media in Platì si
aggirava intorno ai 50 anni di età: Nicola Barbaro 90 e Filippo Cusenza 95
erano i più longevi. I ceppi più numerosi erano Agresta, Barbaro, Carbone, Cusenza,
Catanzariti, Italiano/Taliano, Perri/e, Portulisi, Sergi, Trimboli, Virgara, il
cognome più insolito è Zinnamusca. L’oligarchia che dominava era quella degli
Oliva ma c’erano anche Zappia al timone di comando. “Magnifico” era l’appellativo
che precedeva quegli Oliva e Zappia. “Magnifico” era Marzio Perre/i ed anche Francesco
Musitano il Cancelliere che siglava gli atti. Tra le donne i nomi più diffusi erano quelli di Domenica ed Elisabetta/Lisabetta, tra gli uomini Antonio, Domenico,
Francesco e Giuseppe. Lo Stato delle Anime del 1754 era comprensivo dei soli
nativi, mentre in quello del 1746 erano stati inclusi anche i forastieri. Quella
che ne esce è una ripresa grandangolare, il campo verrà ristretto solo zoomando
le “rileve” fatte dai singoli cittadini e non ci sarà distinzione tra nativi e
forastieri.
Nella foto d'apertura il dottor Giuseppino Mittiga
venerdì 24 dicembre 2021
Oratorio di Natale [di Kjell-Åke Andersson - 1997]
mercoledì 22 dicembre 2021
Never Ending Story [di Wolfgang Petersen - 1984]
La
storia di Platì è ancora tutta da scrivere.
Etimologicamente
il nome Platì, sarebbe da far risalire al termine prata (prati). Altri, invece, lo ritengono riconducibile alla voce
greca-bizantina platus (ampio). Il
riferimento, in questo secondo caso, va alle
frequentazioni dei monaci basiliani che tanta importanza ebbero in questa parte dell’Aspromonte. Altri ancora ritengono che il toponimo andasse collegato al
termine pratos, ossia “venduto”
(alludendo ai passaggi feudali), e alle successive alterazioni in protì e, poi, pratì.
La
nascita dell’abitato di Platì si crede collocabile nel XVI secolo, in
concomitanza dello spostamento di uomini dai centri più arroccati, con scarsa
possibilità di espansione, verso valle. Concausa di questo esodo pare fosse la
pratica, invisa al popolo, del fiscalismo senza scrupoli che danneggiava
proprio i ceti più deboli spingendoli lontano dall’influenza dei
feudatari.
Si ha
notizia di alcune foreste date, nel 1496, dal re Federico d’Arag0na a Tommaso
Marullo, barone di Bianco e conte di Condojanni. Quelle terre furono rivendute,
nel 1507, allo stesso conte Marullo da Ferdinando il Cattolico.
Tra
quei possedimenti ricadevano, però, alcune terre “nominatum de Plati at de Sancta Barbara” che erano state vendute
precedentemente (nel 1505) a Carlo Spinelli sempre dal re. Iniziò a questo punto
una complicata controversia sulle spettanze territoriali che durò per anni. A
derimere la lite tra gli Spinelli e i Marullo ci pensò un intervento regio che
assegnò la proprietà di Platì agli Spinelli i quali decisero di farne un centro
agricolo. Il feudo rimase nelle loro disponibilità fino all’eversione della
feudalità (1806).
Il terremoto
del 1783 colpi duramente Platì, cosi come molti altri paesi della Calabria,
provocando 25 vittime e danni ingenti.
Con l’ordinamento amministrativo del generale
Championet, nel 1799 Platì divenne autonoma rientrando nel cantone di Roccella.
I Francesi, nel 1807, ne fecero un’università compresa nel governo di Ardore.
Elevata
a comune, le vennero in seguito assegnate le frazioni di Cirella e Natile
(quest’ultima oggi è frazione di Careri). Nella prima metà dell’Ottocento venne
chiamata Mottaplati e soltanto alla fine di quel
secolo riconquistò l’antico nome.
Terminata
l’occupazione francese, gli Spinelli decisero di vendere i loro cospicui
possedimenti. I nuovi proprietari terrieri arrivarono da Napoli. Questi
edificarono grandi palazzi lungo la via San Nicola sottoponendo, però, il
popolo a ogni sorta di angheria.
Dopo
l’Unità d’Italia, Platì fu al centro di un duro scontro, generato dall’insoddisfazione
del popolo continuamente vessato dai ricchi proprietari. La sollevazione fu capeggiata
da Ferdinando Mittiga, un ex sergente borbonico che si fece aiutare nell’impresa
dal generale spagnolo don Jose Borjes. Circondata Platì, la battaglia durò per
ore. Alla fine, pere, ebbero la meglio i bersaglieri e gli uomini delle Guardie
Nazionali Civiche intervenuti. La repressione fu dura e provocò molti morti.
Mittiga, rifugiatosi sui monti, fu tradito e ucciso in un mulino nei pressi di
Natile Vecchio.
Nel
1908 un altro devastante sisma colpi Platì, distruggendo gran parte del paese.
Fu l’inizio dell’emigrazione verso l’America che registrerà la sua punta
massima negli anni Cinquanta.
Nel
1951 una paurosa alluvione (ce ne saranno altre nel ’53 e nel ’58) provocò
pericolosi movimenti franosi che
portarono gravi conseguenze alla viabilità.
La
chiesa parrocchiale fu edifica verso ii 1550, ed era governata da economi,
mantenuti dall’università. Fu elevata a parrocchia nei 1704, e primo parroco fu
il Sac. Francesco Perre; il Sac. Stefano Oliva, fu nominato primo Arciprete dal
Vescovo Scappa l’8 marzo 1774 in tempo di S. Visita.
La
chiesa era situata nel primo rione abitato.
Nel 1783 fu totalmente distrutta dal terremoto
e dopo alcun tempo fu riedificata sul posto stesso dove oggi è piantata, perché
più centrale e più stabile per la natura del terreno.
La
chiesa parrocchiale, rimasta vacante ii 5 dicembre 1817 per morte dell’investito,
finalmente, eliminate le cause che avevano determinate il provvedimento, fu provveduta
nella persona del Sac. Francesco Oliva.
Per lo
stato indecente in cui, era stata
lasciata la chiesa, fu restaurata dopo il terremoto del 1894 a spese e
cooperazione del Cav. Uff. Francesco Oliva fu Arcangelo. Trenta anni dopo la
cappella della titolare fu restaurata dalla generosità del Cav. Michele Oliva, e nel 1926, dalla pia signora
Maria Lentini vedova Filippo Oliva, fu decorata la navata di S. Francesco.
In
Platì, oltre alla chiesa parrocchiale, vi è quella di S. Pasquale, che è stata
eretta dai fedeli nel 1720. Vi era inoltre la cappellania dell’Immacolata, i
cui beni, anch’essi furono aggregati alla parrocchia.
Nella
chiesa di S. Pasquale l’1 giugno 1888, fu eretta la confraternita del Santo
Rosario, il cui statuto fu approvato dal Vescovo Mangeruva nello stesso anno,
e, per volontà del popolo la chiesa pigliò il titolo di Maria SS. del Rosario.
Tale chiesa fu riparata nel 1924 e nel 1926, con l’obolo dei fedeli per
iniziativa della Confraternita.
Il
terremoto del 1908 quasi distrusse la chiesa parrocchiale.
La
costruzione del1’attuale chiesa venne iniziata nel 1944, con molto entusiasmo dell’Arciprete
Mons. Giuseppe Minniti e con la collaborazione attivissima di tutta la
popolazione.
La costruzione
andò avanti in tal modo, fino verso il 1952, quando fu emanata la Legge n. 2522
del 19-12-1952, che diede modo di avere contributo dello Stato.
Emanuele
Maggioni e Lino Tagliani, Padri Missionari della Consolata
Testo
e foto, Dedicazione
della Chiesa “Santa Maria di Loreto” in Platì, 2006
domenica 19 dicembre 2021
La festa perduta [di Piergiuseppe Murgia - 1981]
A PlatìPlatì, 25 nov.
(M. F.) In
modo particolarmente solenne si e svolta quest’anno a Platì la festa degli alberi.
Alla cerimonia svoltasi nelle ore antimeridiane, erano presenti le autorità
cittadine e gli insegnanti elementari accompagnati dalle rispettive classi. Non
mancavano rappresentanti di tutti gli strati della popolazione.
Oratore ufficiale
è stato il prof. Giuseppe Gelonesi, che in un breve, commosso discorso ha
ricordato all’uditorio quale enorme importanza rivesta per Platì il rimboschimento
delle montagne straziate dalle alluvioni.
Unica risorsa, infatti, per la sicurezza del
nostro paese sono gli alberi: che fortificano con le loro radici e arrestano il
corso delle frane ovviando in tal modo, alla incuria dimostrata finora dai vari
governi per la terra calabrese.
La coreografia
era stupenda: Su un lunghissimo tratto della statale 112, si stendevano infatti
le file composte degli scolari che alla fine del discorso riprendevano la via,
sotto l’attenta guida degli insegnanti, cantando inni patriottici, seguiti dal
numerosissimo pubblico
MICHELE FERA
GAZZETTA DEL SUD,
26 novembre 1954
giovedì 16 dicembre 2021
Mare lento [di Michele D'Ignazio - 2009]
Studiare non è un atto di consumare idee, ma di crearle e ricrearle. Paulo Freire (1921 – 1997)
… questi giovani hanno avuto occasione di pensare, di confrontarsi. Soli e insieme. Danilo Dolci (1924 – 1997)
Facendo ricerche su Danilo Dolci Mr. Google mi ha condotto verso questo video intitolato Mare Lento di Michele D’Ignazio. Il titolo è spiegato verso la fine del lavoro con una didascalia su sfondo nero: “Nel linguaggio dei nativi americani, la parola “insegnante” non esiste. È la vita che insegna: sono le circostanze, come il susseguirsi delle onde, in un unico grande mare”. Anche la citazione di Danilo Dolci è contenuta nel video in questione. Quella di Paulo Freire invece proviene da un lavoro più sostanzioso già apparso su queste pagine: La Educacion Prohibida*. Paulo Freire è stato un educatore brasiliano che molto ha in comune con il nostro Danilo Dolci. Mare Lento, del 2009, ritrae la vita e il percorso educativo di una classe del Liceo Classico “Vincenzo Gerace” di Cittanova. I ragazzi ad un anno dalla maturità erano guidati dal professor Fabio Cuzzola(1). Proprio nel lavoro del professor Cuzzola e nelle impressioni dei suoi allievi è la parte più interessante del video: “Ho scelto l’insegnamento come possibilità lavorativa per restare al sud, in Calabria, poi via via una scelta lavorativa è diventata una passione, la migliore delle esperienze attraverso la quale si può coniugare la possibilità di restare in questa terra e di poterla cambiare anche restandovi”. Da parte loro gli allievi vanno esprimendo le loro impressioni sulla scuola e sui loro docenti: “… non è questione se sono bravi o se sono capaci … sono attaccati ai punteggi, ai concorsi, alle graduatorie … alla 104”. Essi hanno anche un futuro incerto che li aspetta ed alcuni di loro già pensano di affrontarlo con l’emigrare al Nord. Nel frattempo grazie alla professionalità del professor Cuzzola, che non disdegna il teatro o le conferenze, i ragazzi sono indotti a pensare con la loro testa: Danilo Dolci usava la maieutica con i braccianti e i “banditi” di Partinico. Noi di Platì abbiamo avuto Pasqualino Perri come educatore e l’abbiamo sprecato come sprechiamo tante risorse che dal paese derivano. I docenti della locride pensano anch’essi alla 104?
E i domani verranno anche se oggi non par vero. Danilo Dolci
(1) Fabio
Cuzzola, classe 1970, è anche autore di Cinque
anarchici del Sud. Una storia negata (Città del Sole Edizioni, 2001) e REGGIO
1970: Storie e memorie della rivolta (Donzelli, 2007).
* https://iloveplati.blogspot.com/2020/12/la-educacion-prohibida-di-german-doin.html