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mercoledì 20 ottobre 2021

Fango bollente [di Vittorio Salerno -1975] - Una rievocazione del prof. Pipicella


Ai primi del mese di ottobre c'erano state delle piogge e la fiumara in piena aveva travolto un bovino. la notizia appena diffusa, aveva colpito la popolazione, in quanto la perdita di un bovino era considerata una grossa perdita!!
Dopo una breve pausa, riprese a piovere ininterrottamente sino alla notte del 17, quando verso le due, un boato assordante fece tremare la terra e il cielo svuotò improvvisamente tutte le nuvole che l'avevano coperto per una settimana.
Le povere case, che non avevano un solo angolo asciutto, furono completamente allagate. I cittadini tutti svegli e preoccupati non riuscivano a comunicare tra di loro, perché le strade erano trasformate in ruscelli impetuosi e i tizzoni accesi con i quali solitamente squarciavano le fitte tenebre non erano utilizzabili.
Abbandonati i letti inzuppati c'eravamo portati vicino al focolare fino a quando il tuono non spense completamente la brace.
A casa mia, i quattro figli eravamo avvolti in una coperta. Mia madre pregava e piangeva, mio padre si affacciava sull'uscio e rientrava gocciolante.
Le ore che precedettero l’alba durarono un’eternità e la luce del giorno ha aperto ai nostri occhi uno scenario spettrale: a valle un’immensa distesa di acqua e fango con piante e cose semoventi; a monte frane dovunque e dai fianchi squarciati delle montagne possenti gettiti d'acqua.
La pastorizia e l’agricoltura, uniche fonti dell’economia natilese, erano state spazzate via: il patrimonio ovino e bovino era stato completamente travolto e depositato lungo la fiumara dalla montagna al mare; i campi sconvolti e ridotti pietra su pietra!
Ma di tutto questo la popolazione non ebbe percezione, in quanto subito si cercarono gli assenti e si capì che cerano stati dei morti.
In un primo momento i dispersi erano molti, ma il giorno dopo il tragico elenco fu definitivo.
I morti furono dieci: due persone anziane e otto giovani. 


Di seguito i nomi in ordine alfabetico e il loro tragico destino:

Domenico e Pietro Callipari, fratelli, si trovavano assieme al padre ed altri familiari nell’ovile posto nel bacino della sorgente della fiumara Acone. La sera del 17 ottobre, poiché nel loro ricovero era filtrata dell'acqua, avendo saputo che il capanno di un ovile vicino era asciutto e più sicuro, sono stati mandati dal padre a rifugiarsi e a tenere compagnia ai due giovani che custodivano quel gregge. Questa decisione sarà motivo di rammarico e di rimorso per il povero genitore che andava ripetendo: per mettere in salvo i figli maschi, li ho mandati a morire, mentre io e le femmine cl siamo salvati!

Bruno Cavalieri, aveva 65 anni ma per gli stenti e la fatica dimostrava molti di più. Si trovava in contrada Maddamma perché il granturco era maturo e bisognava vigilare.
Il persistere delle piogge aveva reso impraticabile il suo pagliaio, per cui il i7 aveva cercato rifugio in una struttura più solida. Si era portato infatti presso un mulino, esattamente in quello centrale rispetto ai tre esistenti. Qui ha incontrato altre persone che avevano tentato inutilmente di attraversare la fiumara per rientrare in paese quando si accorsero che la portata diventava sempre più minacciosa, tutti insieme abbandonarono il mulino per recarsi verso la montagna con la speranza di trovare qualche soluzione.
Sarà trovato raggomitolato ai piedi di un albero in contrada Lacco di torno. Si è detto che sarebbe caduto dall'albero sul quale aveva cercato scampo, come avevano fatto altri, o che sarebbe stato colpito da un macigno staccatosi dalla frana.
Riportarlo a casa su una scala di legno improvvisata è stata un'impresa difficile e straziante.

Domenico Marvelli, quasi novantenne, viveva assieme ai familiari in una casa di campagna in contrada Acone. Quando è stato invitato a cercare verso l'alto un rifugio più sicuro, ha incoraggiato gli altri a farlo, ma lui volle rimanere a casa sua. Aveva una grande fede e trascorreva parecchie ore a pregare.
Il suo corpo è stato trovato, distante da dove si trovava l'abitazione, ma ben composto e senza nemmeno un graffio.

Antonio Mirto, di anni 27, una settimana dopo sarebbe dovuto partire per l'Australia. Si trovava nell'ovile della Costa Dabate, dov'erano andati a rifugiarsi i fratelli Callipari.
Unico figlio maschio, era lui che badava alla famiglia costituita dall'anziana madre e dalle sorelle.
Del suo corpo e di quello degli altri tre, nonostante le lunghe e amorevoli ricerche, non si è vista traccia. 

Francesco Pangallo, di anni 18, la sera del 17 era partito assieme al padre dall'ovile per rientrare a casa. Ad un certo punto poiché il padre, attraversando un ruscello in piena stava per essere travolto, ha consigliato Francesco di non rischiare e di ritornare a tenere compagnia ad Antonio Mirto. Rifacendo la strada è passato dall'ovile dei Callipari ed è stato lui a riferire che nel suo ovile tutto era tranquillo e la “casetta” era asciutta e riscaldata. Fu la quarta vittima inghiottita da quella frana.

Antonio Pipicella, di anni 20, assieme al fratello Domenico ed al padre si trovavano nell'ovile di contrada Lacco di torno.
Aveva fatto la visita di leva ed era in attesa di partire per il servizio militare. Di lui è stato reperito un arto superiore ed uno inferiore, a diversi chilometri di distanza cercando e scavando tra le carcasse dei suoi animali.

Domenico Pipicella, di anni 16, è stato trovato in un posto impensato dopo un certo periodo di tempo.
Infatti lo zio ha sognato il ragazzo (ma la moglie ha sempre sostenuto che non dormiva) che lo rimproverava di averlo lasciato morire mentre l'avrebbe potuto salvare.
Egli, infatti, era stato mandato dal padre ad avvertire i due pastori dell'ovile vicino che dovevano allontanarsi perché a rimanervi si correvano grossi rischi. Ma i due pastori erano già andati via, egli non era potuto ritornare dai suoi ed era rimasto bloccato dal crollo della struttura dell'ovile. La persona che aveva avuto questo sogno o visione, anziché continuare a cercare lungo la fiumara, decise di tentarne il riscontro. Scavando tra le macerie di quell'ovile, in una intercapedine, apparve il corpo senza vita di Domenico.
Molti dei presenti ricordarono che il giorno del primo sopralluogo avevano sentito dei lamenti, ma avendo saputo che i pastori che si trovavano in quell'ovile erano sani e salvi, hanno pensato si trattasse di qualche bovino.

Paolo Pipicella, di anni 13, era affetto da una leggera balbuzie, ma era loquacissimo ed aveva una memoria eccezionale; ripeteva quasi integralmente i panegirici e le prediche della settimana santa, salendo sugli alberi o dal balcone dell'arciprete Filippo Ietto, che lo ascoltava entusiasta.
Queste sue qualità lo rendevano particolarmente simpatico zio Sebastiano, il quale aveva pensato di fargli prendere il posto del figlio Antonio che sarebbe andato a fare il servizio militare.
Alla sua prima settimana di lavoro, la frana e la fiumara non hanno consentito ai genitori di reperire qualcosa che gli appartenesse. Nonostante le ricerche si fossero protratte per anni.

Sebastiano Pipicella, di anni 46, era una delle persone che godeva di grande prestigio in seno alla comunità natilese.
Perso il padre in tenera età, aveva assunto la guida della famiglia ed era riuscito a costruire, assieme al fratello, un discreto patrimonio di capi di bestiame, circa 300.
Era sempre pronto ad intervenire quando qualcuno subiva un torto, e i casi più frequenti erano gli abigeati.
Il carattere gioviale e il senso dell’umorismo non sminuivano ma accentuavano il carisma di uomo saggio che aveva il culto dell'amicizia, della famiglia e della parola data.
Le sue qualità le dimostrò anche come amministratore comunale: infatti era consigliere in carica.
Di lui rimase proverbiale l'espressione:
na cosa sula non pozzu supportari: a farsitutini" .

Testo del Prof. Pino Pipicella

Foto S. Carannante



martedì 19 ottobre 2021

Come quel giorno [di Mario Caserini -1916] - Un suffragio 70 anni dopo


Platì 18 ottobre 2021
L'Associazione Etno-Culturale SANTA PULINARA
ringrazia  Padre Santino & Domenico I. 
e  quanti hanno partecipato al Rito
per essersi presi cura delle vittime del
18 ottobre 1951

 

giovedì 14 ottobre 2021

La morte cammina nella pioggia [di Carlos Hugo Christensen - 1948]


Nel 70° Anniversario

Platì 18 Ottobre 1951


Na data tristi chi veni sempri ricordata
l’affidamu ai posteri non m’esti mai dimenticata.
 
Morti e distruzioni nto paisi dassau
quandu u dilluviu universali di jà passau.
 
S’ apriru i catarratti e l’acqua du cielu calava
Ciancio, ntantu a valle s’ingrossava.
D’arretu da Rocca fici breccia
trasiu nto paisi comun na freccia.
 
Ci fu nu pigghja pigghja chija notti
pe casi e pa li strati passau la morti….
Urla disperate! ... Mani avvinghiate! …
19 vite,
dalla furia dell’acqua, trascinate.
 
Quella notte, pure Acone nel campo entrava
disturbando il sonno di chi in pace riposava.
 
A distanza di 70 anni
una Preghiera  
per chi lottò quella notte
contro l’ingrata morte.

Silvana Trimboli
Caraffa del Bianco, 2021

.:.:.:.

A tutt’oggi l’elenco definitivo delle vittime è nebuloso. Il NOTIZIARIO DI MESSINA(*) in data 8 novembre 1951 riportava  i 15 nominativi già citati nel video. La tradizione popolare ne ricorda18/19. Non vengono in soccorso né i registri comunali né quelli parrocchiali. In questi ultimi sono elencati solo:
Marando Giuseppe di Rosario anni 13
Marando Rosario di Domenico anni 47
Portolesi Caterina fu Pasquale anni 77
Sergi Michele di Pasquale anni 15.
A questi bisogna aggiungere:
Iermanò Serafina di Francesco di 5 mesi
Zappia Filippo di Domenico di 8 mesi
segnati nel registro dei morti della parrocchia in data 18 ottobre 1951
e Iermanò Saverio di Antonio di anni 90 registrato in data 20 ottobre 1951.
Antonio Schimizzi morto durante i lavori di sgombero delle macerie era nato il 29 giugno del 1900 da Francesco e Musitano Francesca. Il 10 febbraio del 1929 sposò Domenica Carbone di Antonio e Martino Anna Maria di 23 anni ed ebbero 6 figli.

(*) https://iloveplati.blogspot.com/2017/05/acque-del-sud-reg-howard-hawks-1944.html

In apertura:
Particolare del monumento alle vittime dell’alluvione del 1951 di Platì realizzato dal pittore e scultore messinese Antonello Bonanno Conti.

Nel video: Antonio Vivaldi, Concerto per Violino op. 7 No. 12 in re maggiore RV 214, Grave Assai, Claudio Scimone dir. - To be played at maximum volume.


martedì 12 ottobre 2021

Notte di terrore [di Andrew L. Stone - 1955]


DUE PAESI DELLA CALABRIA CANCELLATI DALLA TERRA
Pazzi ad Africo e Casalinovo per il terrore dell’alluvione
Il drammatico esodo di 2.300 persone per un sentiero esposto ai pericoli
delle frane – Centinaia di malati nella scuola di Bova
 
REGGIO CALABRIA 27 – Le montagne che circondano che circondano Africo cominciarono a franare nel pomeriggio di martedì 16 ottobre e investite in pieno dai macigni le prime case, quattro persone rimasero seppellite sotto le macerie. Pioveva ininterrottamente già da due giorni e che da un momento all’altro la montagna potesse franare era stato l’incubo della popolazione. Ma durante il temporale da quanti anni aveva vissuto sotto quell’incubo? Ora il rombo pauroso delle rocce che precipitavano e la visione del terreno che lentamente slittava a valle davano consistenza reale al timore di intere generazioni.
Sotto la pioggia torrenziale, annaspando nel fango, la gente si precipita fuori delle povere case che potevano trasformarsi in tombe da un momento all’altro. La montagna continuò a franare. Pensarono in principio di trovare salvezza andando a Casalinovo, ma già da quella vicina frazione cominciavano ad arrivare ad Africo i primi fuggiaschi i quali avevano anch’essi abbandonato le case minacciate dalle frane, raccontarono che durante il tragitto sei di loro avevano trovato la morte.
E ora dove fuggire? Africo e Casalinovo sono due fra i tanti paesi di Calabria non legati da strade con il resto del mondo. C’è solo una mulattiera che porta a Bova Superiore. Su questa mulattiera cominciò l’esodo della popolazione: 2.300 persone. Quanto terrificante sia stato il viaggio a piedi, sotto la tempesta, per percorrere quei 2 chilometri in mezzo a burroni e precipizi, nessuno potrà mai raccontare perché quelli che erano gli abitanti di Africo e di Casalinovo erano soli con la loro disgrazia e con il loro terrone.
Quando finalmente arrivarono a Bova, che è un paese privo d’acqua, di luce, di fognature, credettero di essere giunti in paradiso. Ma fu solo una fugace illusione perché subito cominciò l’inferno di Bova.
Ci siamo recati ieri a Bova. Nella nostra vita di giornalisti, che pure ci ha fatto assistere a tanta spettacolare desolazione e miseria, nulla avevamo visto fino ad oggi di così terrificante sofferenza umana.
Siamo stati alloggiati in un edificio scolastico, i profughi di Africo e Casalinovo, avevano assicurato le autorità. Ma noi avevamo saputo già a Reggio Calabria che tra essi si erano verificati, nei giorni scorsi, veri casi di pazzia. Però solo quando siamo penetrati nell’oscuro corridoio della scuola di Bova abbiamo potuto capire come un essere umano possa, per sofferenze fisiche, perdere la ragione.
 200 persone in un’alula.
Centinaia di persone coperte di stracci, inzuppate, scalze, tremanti dal freddo, affamati, stavano immobili, sedute per terra o in piedi, appoggiate alle pareti. Dovunque volti scavati e sguardi pieni di terrore. Fuori pioveva, faceva freddo e le finestre dovevano essere tenute chiuse. C’era un’aria irrespirabile ma non riuscivamo a restare più di due minuti nell’inferno di quell’aula. In una di esse ampia meno di dieci metri quadrati, vivono da martedì 16 ottobre 200 persone. E sono le più fortunate. Altre centinaia vivono in ambienti ancora più piccoli o sono per i corridoi dove non penetra la luce ma il vento e la pioggia.
Da dodici giorni vivono così i profughi di Africo e Casalinovo. Non hanno materassi, non hanno coperte, non hanno sedie, nella scuola non ci sono gabinetti, non c’è acqua corrente, non c’è luce elettrica. 2.300 persone, in gran parte donne e bambini, vivono da dodici giorni in questo inferno. Sulla strada non possono uscire perché piove continuamente e fa anche più freddo. Altri sono stati ricoverati nella sala municipale e vivono nelle stesse condizioni. Pochi sono quelli rimasti nelle campagne intorno ad Africo sperando di poter salvare qualche capo di bestiame che rappresenta tutta la ricchezza del paese.
 Hanno perduto tutto
Molte donne sedute sul pavimento tenevano attaccati alle mammelle aride i figli, nell’inutile speranza di poterli nutrire. I vecchi supini, con lo sguardo fisso in alto, già sembravano cadaveri. In un angolo del corridoio. Presso una porta della cui fessura penetrava furtoso il vento freddo dei monti, c’erano tredici bambini seduti intorno alla madre, distesi su un mucchio di stracci. La donna si lamentava sordamente, tremava, ansava e gettava intorno sguardi come per chiedere soccorso. Stava per partorire. Ma chi poteva soccorrerla. Che cosa potevano fare per lei le altre donne?
Un uomo ci venne incontro con le mani tese in avanti, inciampava continuamente: ci accorgemmo poi che era cieco. Ma quanti vecchi rasi dal tracoma non incontrammo in quel triste edificio scolastico di Bova Superiore? L’immobilità di alcuni bambini ci fu spiegata quando tornammo sulla strada fangosa, era paralisi infantile, permanente.
Fuori continuava a piovere e una nebbia densa veniva giù dai monti. Sulla strada ci fu più facile rivolgere la parola a qualcuno. Quali soccorsi avete ricevuto? Un po' di pastasciutta. Dove andrete? Non lo sanno, hanno perduto tutto, ad Africo non possono più tornare. Il nome del paese può già essere cancellato dalla carta geografica della Calabria.
RICCARDO LONGONE
Testo e foto: L’UNITA’, Domenica 28 ottobre 1951
 

domenica 10 ottobre 2021

Un medico, un uomo [di Randa Haines - 1991]

Giuseppe Mittiga
Platì 03/01/1897 -  Palmi 18/01/1982

E intanto la pioggia fitta e continua pesta sul tetto ... sui vetri ... sul suolo”. Ernesto Gliozzi il vecchio

A settanta anni da quella tragica notte tra il 17 e il 18 ottobre del 1951 non c’è stato chi raccontasse integralmente quel dramma in un’opera letteraria, solo singole vicende, singoli episodi legati a chi ne trattiene ancora il ricordo. A questi ultimi si aggiunge il ricordo di quei giorni per tramite di Lisa Mittiga figlia del dottor Giuseppino, per me, che riporto quei ricordi, zio. Il dottor Giuseppe Epifanio Mittiga aveva 64 anni quando visse sulla sua persona il dramma di un intero paese. Egli si laureò in Medicina e Chirurgia a Napoli nel 1912 a 25 anni. Figlio di Rocco e Caterina Fera dopo la scuola elementare a Platì fu mandato nella città partenopea per la scuola media, successivamente si trasferì a Gerace per compiere gli studi ginnasiali. Ritornò di nuovo a Napoli dove da tempo risiedeva lo zio Saverio Mittiga, sacerdote e docente presso la locale Università Teologica, autore di racconti e poesie editi nella stessa città. Presso la Regia Università di Napoli studiò con profitto con l’illustre prof. Antonio Cardarelli (1831 – 1927) ormai in procinto di lasciare quell’ Accademia per raggiunti limiti d’età. Era Ufficiale Sanitario presso il Comune di Platì quando l’alluvione si infranse sul paese. Non bisogna però pensare che quel disastro fu un fenomeno casuale. Già da diversi giorni una fitta pioggerella cadeva incessantemente senza che il sole apparisse, anche per pochi minuti. Alle volte si rafforzava, alle volte diminuiva. La terra, le campagne, gli orti diventavano di giorno in giorno impraticabili, non solo per le zappe ma anche per le scarpe e gli stivali. Molti di quelli che abitavano in campagna cercarono rifugio presso i parenti in paese; molti, fiduciosi rimasero nelle proprie abitazioni coloniche. La notte tra il 17 e il 18 dalla montagna verso Santa Cristina, da Arcopio e a monte di Sanello si precipitò un torrente impetuoso che andò a colpire maggiormente la contrada Due Valloni, il cimitero e la zona tra la fiumara Ciancio, il corso Umberto e la via San Pasquale. Per diciannove vite la mattina del diciotto ottobre 1951 non si schiarì, centinaia erano i bisognosi di pronto soccorso. La casa del medico Mittiga era posta all’entrata del paese. Essa con altre vicine diventò un ospedale da campo dove il dottore ebbe modo di prestare il soccorso a chi riportò le ferite più gravi non potendo sperare in aiuti esterni. I feriti arrivavano adagiati sulle carriole, sulle scale fatte barelle, su lenzuola o coperte imbrattate di sangue. Bisognò amputare o ricostruire le parti lacerate, molte teste, molte braccia, molte gambe, molti piedi. C’era anche da soccorrere i feriti meno gravi nelle proprie abitazioni e le partorienti, e qui il medico era assistito dalla signora "mammina" Francesca Portolesi, moglie di don Umberto. A distanza di tempo la figura e l’opera del dottor Giuseppino Mittiga è ricordata dai più anziani, ma specialmente per chi lo ebbe come padre amoroso o zio affettuoso.

 

Hanno partecipato Lisa Mittiga di Giuseppe e Saro Mittiga di don Agostino.


giovedì 7 ottobre 2021

Come quel giorno [di Mario Caserini -1916]


L'evento è reso possibile grazie alla partecipazione di Padre Santino e Padre Peppe.

 

mercoledì 6 ottobre 2021

Vivere ancora - Gino Paoli

"Vivere ancora
Soltanto per un ora"
Gino Paoli


VIVERE


Vivere
per non morire
sconfitto
dalle illusioni


PRIGIONIERO
 
Prigioniero
in una stanza
con le porte aperte
e senza guardie.
prigioniero del dolore
lontano dalla mamma


A Mimmo "la malinconia e il dolore dell'assenza, in un crescendo di archi morriconiani esplosivo e straordinario".

giovedì 30 settembre 2021

Un apprezzato professionista di sicuro avvenire [di Giuseppe De Santis - 1972]




 Stimato ed elogiato professionista, Saro Zappia non rinnegò mai le sue origini platiesi. Quando egli si affacciò alla vita, in quel lontano 3 settembre del 1939, i genitori, al nome già mariano, vollero aggiungere Maria di Polsi, Vergine Calabrese per eccellenza, festeggiata il giorno prima. E dire che il padre, il mitico Su Rrosariu, in quella data aveva già compiuto i settanta anni e la madre Cristina Mercurio molti di meno, ventisette. E in quel matrimonio, oggi impensabile, tra un settantenne ed una donzella, chi scrive non può fare a meno di notare lo zampino e la scaltrezza dell’avvocato Alberto Mercurio, ma questo è un altro film che varrà la pena raccontare in altre occasioni. Saro Zappia più che ragazzo partì per Napoli ed in un collegio dei Padri Gesuiti compì i suoi studi, dalle elementari a quelli ginnasiali. Dopo la laurea in giurisprudenza e prima di stabilirsi a Vicenza vinse il concorso alle Poste come ispettore. Successivamente, nei primi anni sessanta, nella città veneta contrasse matrimonio ed avviò uno studio legale in cui più tardi si assocerà la figlia Cristina. Il legame con Platì l’avvocato Zappia l’ha voluto sugellare disponendo che le sue ceneri fossero tumulate assieme alla famiglia d’origine nel cimitero platiese.

mercoledì 29 settembre 2021

Il cammino della speranza [di Pietro Germi - 1956]

 «Nun avemu speranza di un avvenire megghiu. Che svago ca è mezzogiorno e ancura nun haiu assaggiatu acqua?». Danilo Dolci, Banditi a Partinico


QUANDO A NAUFRAGARE ERANO I MIGRANTI DELLA POVERA ITALIA

La fuga dalla miseria, ieri come oggi, è la causa della morte di tanti migranti in mare, ma la storia non sembra aver sradicato i pregiudizi

di Enzo Romeo

Il 25 luglio 1956, al largo di Nantucket, l’Andrea Doria (*), ammiraglia della flotta mercantile italiana, entrò in collisione con una motonave svedese. A bordo c’erano persone famose, come l’attrice Betsy Drake, moglie di Cary Grant, e poveri sconosciuti che emigravano negli Stati Uniti in cerca di fortuna. Persero la vita 46 dei 1706 passeggeri, tra cui Concettina Zappia di Platì e i suoi quattro figli. Andavano a New York per ricongiungersi col resto della famiglia, che aveva lasciato anni prima l’Aspromonte per guadagnarsi il pane dall’altra parte dell’oceano.
Nessuno ricorda più quelle vittime. In compenso, nel commentare le stragi terroristiche di Bruxelles, qualcuno ha paragonato Platì a Molenbeek, il quartiere da cui provenivano alcuni degli attentatori: ’ndràngheta o jihad, il radicamento criminale è lo stesso. Nel lontano 1890 su La Cronaca di Calabria, un periodico che si pubblicava proprio a Platì, un articolista vicino ai proprietari terrieri scriveva che i contadini «sono invasi dalla febbre di partire per gli Stati Uniti d’America», non per sottrarsi alla fame ma per «l’ambizione di guadagnare molti quattrini».
Passano i secoli e i pregiudizi rimangono, mentre ci vorrebbe un surplus educativo. Ci sta provando padre Masino, piemontese della Consolata, che dopo 43 anni d’Africa fa il missionario a Platì, il Comune più commissariato d’Italia, e mette a disposizione la sala parrocchiale per i dibattiti politici. Una maestra, Irene Càrastro Mosino, ha raccontato nel libro Felice sera (Jaca Book) l’insegnamento nelle “pluriclassi” dei paesi aspromontani e le parole amare che uscivano dalla bocca degli alunni: «Domani non vengo a scuola, vado a trovare mio padre in carcere»… La maestra, con tanta pazienza, insieme all’algebra e alla grammatica, diede lezioni di educazione civica e di speranza.
Quella speranza che cercava Concettina per i suoi figli inghiottiti dal mare, stesso tragico destino di tanti piccoli migranti di oggi.


Il testo originale è qui:
https://www.credere.it/n.-20-2016/ite-missa-est-di-enzo-romeo.html

(*)  Anche l'Andrea Doria naviga ora nel web. 

martedì 28 settembre 2021

Once Upon a Time in America [by Sergio Leone - 1984]

SPERANZA / HOPE
di ROSALBA PERRI
 

In questi giorni sto leggendo “Vita” di Melania G. Mazzucco che è stato Premio Strega 2003.

È un libro sull’emigrazione dalla miseria di un paese nel Lazio alla miseria di New York. Un libro spietato e crudo, affollato di una umanità con i suoi sentimenti e con le sue crudeltà.  La differenza fra le due miserie è la speranza insita nella seconda.

È anche una rivisitazione dell’autrice delle storie di famiglia nel periodo che il proprio nonno visse da emigrante a New York e poi a Cleveland.

Nella prima parte, capitolo “L’ostinato profumo di limone” trovo questo passaggio:

Quando, nell’archivio di Ellis Island, consultai la lista passeggeri della nave Republic, a bordo della quale Diamante arrivò in America, scoprii il nome delle 2200 persone che viaggiarono con lui. Ora posso dire di conoscerli uno a uno. La nave – che dopo la sosta a Napoli fece scalo a Gibilterra – trasportava italiani e turchi. Ma la parola “turchi”, nel 1903, ai tempi dell’Impero Ottomano, significava molte cose: ebrei, greci, armeni, albanesi, siriani, libanesi, slavi, berberi. A Ellis Island sbarcò per primo Athanapos Kapnistos, sedicenne di Creta, poi Marie Kepapas, diciannovenne di Salonicco. Quindi, in successione, gruppi di Beirut, di Rodi, della Macedonia, di Samo, Vasto, Fano; poi decine di ragazzi da Platí e Gioiosa Jonica, Gerace, Polistena, Scilla, Agropoli, Nicastro, Nocera, Teramo, Castellabbate.”

E qui, vedendo menzionato Platì, mi incuriosisco e vado a controllare sul sito di Ellis Island dove trovo l’elenco dei passeggeri della nave Republic del 1906 (e non del 1903 come dice l’autrice per sue esigenze narrative).

 

These days I am reading "Vita" by Melania G. Mazzucco which was awarded the 2003 Strega Prize.

It is a book on emigration from the poverty of a village  in Lazio region to the poverty of New York. A ruthless and raw book, crowded with a humanity with its feelings and its cruelties., the difference between the two poverties being hope.

It is also a reinterpretation by the author of the family stories in the period that her grandfather lived as an emigrant in New York and then in Cleveland.

In the first part, chapter "A persistent lemon scent", I find this piece:

"When, in the Ellis Island archive, I consulted the passenger list of the ship Republic, aboard which Diamante arrived in America, I discovered the names of the 2,200 people who travelled with him. Now I can say that I know them one by one. The ship - which after the stop in Naples made a stop in Gibraltar - carried Italians and Turks. But the word "Turks", in 1903, at the time of the Ottoman Empire, meant many things: Jews, Greeks, Armenians, Albanians, Syrians, Lebanese, Slavs, Berbers. The first to land at Ellis Island was Athanapos Kapnistos, sixteen from Crete, then Marie Kepapas, nineteen from Thessaloniki. Then, in succession, groups from Beirut, Rhodes, Macedonia, Samo, Vasto, Fano; then dozens of boys from Platí and Gioiosa Jonica, Gerace, Polistena, Scilla, Agropoli, Nicastro, Nocera, Teramo, Castellabbate. "

At the mention of Platì, I get curious and go to check the Ellis Island website where I find the passenger list of the Republic ship from 1906 (and not from 1903 as the author says for her narrative needs).

Provenienti da  Platì e Natile, imbarcati a Napoli, sbarcano a Ellis Island:

Pasquale  Rinaldo, n. 1871, 35 anni, celibe (Platì)

Antonio   Zappia, n.1889, 17 anni, celibe (Platì)

Antonio    Callofan, n. 1882,24 anni, celibe (Natile)

Pasquale  Jermani (Jermanò), n. 1888,18 anni, celibe (Platì)

Giuseppe Perri, n. 1865, 41 anni, celibe (Platì)

Pietra (Pietro?) Stansio  (Strangio?), n. 1887, 19 anni, celibe (Natile)

Michele   Strangio, n. 1877, 29 anni, sposato (Platì)

Guiseppe (Giuseppe) Calabina (Calabria), n. 1887, 19 anni, celibe(Platì)

Rosario    Portolese , n. 1865,  41 anni, vedovo (Platì)

Coming from  Platì e Natile, embarked  in Neaples, desembark at Ellis Island:

Pasquale  Rinaldo, n. 1871, 35 yrs, single (Platì)

Antonio   Zappia, b.1889, 17 yrs, single (Platì)

Antonio    Callofan, b. 1882,24 yrs, single (Natile)

Pasquale  Jermani (Jermanò), b. 1888,18 yrs, single (Platì)

Giuseppe Perri, b. 1865, 41 yrs, single (Platì)

Pietra (Pietro?) Stansio  (Strangio?), b. 1887, 19 yrs, single (Natile)

Michele   Strangio, b. 1877, 29 yrs, married (Platì)

Guiseppe (Giuseppe) Calabina (Calabria), b. 1887, 19 yrs, single(Platì)

Rosario    Portolese , b. 1865,  41 yrs, widower (Platì)

 

 (*)


L’autrice continua con una riflessione sui passeggeri:

 

La maggior parte aveva meno di vent’anni. I passeggeri ragazzi di quella nave – e di tutte le altri navi di quegli anni – non corrispondono all’immagine che mi è stata tramandata. Alle fotografie che ho visto nelle mostre e nei musei, e che si sono impresse cosí profondamente nella mia memoria da condizionare la mia immaginazione. Figure dolenti e incomprensibili, comunque lontane, distanti. Ho negli occhi i volti tristi dei contadini, le loro mogli tristi, vestite di nero, i loro bambini tristi, ho negli occhi i loro tristi fagotti, che contengono tutto il loro niente. Forse ho negli occhi uno stereotipo. Possibile che tutti questi ragazzi senza bagaglio – S, single, nella casella relativa allo stato coniugale – siano partiti per non tornare? Scorro l’elenco interminabile di quei nomi – Saverio Ricci da Brodolone, 17 anni, Aniceto Ricco da Montefegato, 17 anni, Annibale Spasiani da Sgurgola, 16 anni, Giuseppe Vecchio da S. Coseno, 14 anni… – e comincio a pensare che per un’intera generazione di ragazzi l’America non fosse una meta né un sogno. Era un luogo favoloso e insieme familiare – dove si compiva, con il consenso degli adulti, un rito di passaggio, un rito di iniziazione. Altre generazioni ebbero il servizio militare, la guerra in trincea, le bande partigiane, la contestazione. I ragazzi nati negli ultimi decenni dell’Ottocento ebbero l’America. A quattordici, sedici, diciott’anni (qualcuno prima, qualcuno dopo), in gruppo, con i cugini, i fratelli, gli amici, dovevano compiere la traversata – morire – se volevano crescere, se volevano sopravvivere. Risorgere. Dovevano affrontare l’America come i ragazzi delle tribú australiane, di Papua e della Nuova Guinea affrontavano il mitico mostro che li inghiottiva per rivomitarli uomini. Dovevano essere pianti, essere persi, essere considerati morti. E dovevano tornare indietro. Solo una parte lo fece realmente: il protagonista di molte favole iniziatiche, viaggiando, spingendosi al di là dei confini del mondo noto finisce per trovare un regno preferibile a quello da cui è partito – e per restarvi, cominciando un’altra vita.

 

The author continues with her considerations on passengers:

“They were mostly under the age of twenty. The boy passengers of that ship - and of all the other ships of those years - do not correspond to the image that has been handed down to me; to the photographs that I have seen in exhibitions and museums, and which have impressed themselves so deeply in my memory as to influence my imagination. Painful and incomprehensible figures, however far, distant. I have in my eyes the sad faces of the peasants, their sad wives, dressed in black, their sad children, I have in my eyes their sad bundles, which contain all their nothingness. Maybe I have a stereotype in my eyes. Could it be that these guys without baggage - S, single, in the box relating to marital status - have left never to return? I scroll through the endless list of those names: Saverio Ricci from Brodolone,17, Aniceto Ricco from Montefegato, 17, Annibale Spasiani from Sgurgola,16, Giuseppe Vecchio from S. Coseno, 14 ... - and I begin to think that for an entire generation of youths America was neither a destination nor a dream. It was a fabulous and at the same time familiar place - where, with the consent of the adults, a rite of passage, an initiation rite, was performed. Other generations had military service, trench warfare, partisan bands, protest. The boys born in the last decades of the nineteenth century had America. At fourteen, sixteen, eighteen (some before, some later), in a group, with cousins, brothers, friends, they had to make the crossing - die - if they wanted to grow, if they wanted to survive. Resurrect. They had to face America as the boys of the tribes of Australia, Papua and New Guinea faced the mythical monster that swallowed them to revive them as men. They had to be mourned, to be lost, to be considered dead. And they had to go back. Only one part really did it: the protagonist of many initiatory tales, travelling, pushing himself beyond the confines of the known world, ends up finding a kingdom preferable to the one he started from - and staying there, starting another life.”

 

Mazzucco, Melania G. Vita (Super ET Vol. 1640) (Italian Edition) (pp.147-148). EINAUDI. Edizione del Kindle.

(*) La Republic naviga ora nel wb.
Il testo appena letto richiama da sé il titolo iniziale e il brano che segue: