"Sono come un ontano del fiume, le mie radici sono fisse e profonde" Mikio Naruse, 1958
martedì 19 ottobre 2021
Come quel giorno [di Mario Caserini -1916] - Un suffragio 70 anni dopo
giovedì 14 ottobre 2021
La morte cammina nella pioggia [di Carlos Hugo Christensen - 1948]
Nel 70° Anniversario
Platì 18 Ottobre 1951
l’affidamu ai posteri non m’esti mai dimenticata.
Morti e distruzioni nto paisi dassau
quandu u dilluviu universali di jà passau.
Ciancio, ntantu a valle s’ingrossava.
D’arretu da Rocca fici breccia
trasiu nto paisi comun na freccia.
pe casi e pa li strati passau la morti….
Urla disperate! ... Mani avvinghiate! …
19 vite,
dalla furia dell’acqua, trascinate.
disturbando il sonno di chi in pace riposava.
una Preghiera
per chi lottò quella notte
contro l’ingrata morte.
Silvana Trimboli
Caraffa del Bianco, 2021
.:.:.:.
A tutt’oggi l’elenco
definitivo delle vittime è nebuloso. Il NOTIZIARIO DI MESSINA(*) in data 8
novembre 1951 riportava i 15 nominativi già citati nel video. La tradizione popolare ne
ricorda18/19. Non vengono in soccorso né i registri comunali né quelli
parrocchiali. In questi ultimi sono elencati solo:
Marando Giuseppe
di Rosario anni 13
Marando Rosario
di Domenico anni 47
Portolesi
Caterina fu Pasquale anni 77
Sergi Michele di
Pasquale anni 15.
A questi bisogna
aggiungere:
Iermanò Serafina
di Francesco di 5 mesi
Zappia Filippo di
Domenico di 8 mesi
segnati nel
registro dei morti della parrocchia in data 18 ottobre 1951
e Iermanò Saverio
di Antonio di anni 90 registrato in data 20 ottobre 1951.
Antonio
Schimizzi morto durante i lavori di sgombero delle macerie era nato il 29
giugno del 1900 da Francesco e Musitano Francesca. Il 10 febbraio del 1929 sposò
Domenica Carbone di Antonio e Martino Anna Maria di 23 anni ed ebbero 6 figli.
(*) https://iloveplati.blogspot.com/2017/05/acque-del-sud-reg-howard-hawks-1944.html
In apertura:Particolare del
monumento alle
vittime dell’alluvione del 1951 di Platì realizzato dal pittore e scultore
messinese Antonello Bonanno Conti.
Nel video: Antonio Vivaldi, Concerto per Violino op. 7 No. 12 in re maggiore RV 214, Grave Assai, Claudio Scimone dir. - To be played at maximum volume.
martedì 12 ottobre 2021
Notte di terrore [di Andrew L. Stone - 1955]
DUE
PAESI DELLA CALABRIA CANCELLATI DALLA TERRAPazzi ad Africo e Casalinovo
per il terrore dell’alluvioneIl
drammatico esodo di 2.300 persone per un sentiero esposto ai pericoli delle
frane – Centinaia di malati nella scuola di Bova
REGGIO CALABRIA
27 – Le montagne che circondano che circondano Africo cominciarono a franare
nel pomeriggio di martedì 16 ottobre e investite in pieno dai macigni le prime
case, quattro persone rimasero seppellite sotto le macerie. Pioveva
ininterrottamente già da due giorni e che da un momento all’altro la montagna
potesse franare era stato l’incubo della popolazione. Ma durante il temporale
da quanti anni aveva vissuto sotto quell’incubo? Ora il rombo pauroso delle
rocce che precipitavano e la visione del terreno che lentamente slittava a
valle davano consistenza reale al timore di intere generazioni.
Sotto la pioggia
torrenziale, annaspando nel fango, la gente si precipita fuori delle povere
case che potevano trasformarsi in tombe da un momento all’altro. La montagna
continuò a franare. Pensarono in principio di trovare salvezza andando a
Casalinovo, ma già da quella vicina frazione cominciavano ad arrivare ad Africo
i primi fuggiaschi i quali avevano anch’essi abbandonato le case minacciate
dalle frane, raccontarono che durante il tragitto sei di loro avevano trovato
la morte.
E ora dove
fuggire? Africo e Casalinovo sono due fra i tanti paesi di Calabria non legati
da strade con il resto del mondo. C’è solo una mulattiera che porta a Bova
Superiore. Su questa mulattiera cominciò l’esodo della popolazione: 2.300
persone. Quanto terrificante sia stato il viaggio a piedi, sotto la tempesta,
per percorrere quei 2 chilometri in mezzo a burroni e precipizi, nessuno potrà
mai raccontare perché quelli che erano gli abitanti di Africo e di Casalinovo
erano soli con la loro disgrazia e con il loro terrone.
Quando finalmente
arrivarono a Bova, che è un paese privo d’acqua, di luce, di fognature,
credettero di essere giunti in paradiso. Ma fu solo una fugace illusione perché
subito cominciò l’inferno di Bova.
Ci siamo recati
ieri a Bova. Nella nostra vita di giornalisti, che pure ci ha fatto assistere a
tanta spettacolare desolazione e miseria, nulla avevamo visto fino ad oggi di
così terrificante sofferenza umana.
Siamo stati
alloggiati in un edificio scolastico, i profughi di Africo e Casalinovo,
avevano assicurato le autorità. Ma noi avevamo saputo già a Reggio Calabria che
tra essi si erano verificati, nei giorni scorsi, veri casi di pazzia. Però solo
quando siamo penetrati nell’oscuro corridoio della scuola di Bova abbiamo
potuto capire come un essere umano possa, per sofferenze fisiche, perdere la
ragione.
200
persone in un’alula.
Centinaia di
persone coperte di stracci, inzuppate, scalze, tremanti dal freddo, affamati,
stavano immobili, sedute per terra o in piedi, appoggiate alle pareti. Dovunque
volti scavati e sguardi pieni di terrore. Fuori pioveva, faceva freddo e le
finestre dovevano essere tenute chiuse. C’era un’aria irrespirabile ma non
riuscivamo a restare più di due minuti nell’inferno di quell’aula. In una di
esse ampia meno di dieci metri quadrati, vivono da martedì 16 ottobre 200
persone. E sono le più fortunate. Altre centinaia vivono in ambienti ancora più
piccoli o sono per i corridoi dove non penetra la luce ma il vento e la
pioggia.
Da dodici giorni
vivono così i profughi di Africo e Casalinovo. Non hanno materassi, non hanno
coperte, non hanno sedie, nella scuola non ci sono gabinetti, non c’è acqua
corrente, non c’è luce elettrica. 2.300 persone, in gran parte donne e bambini,
vivono da dodici giorni in questo inferno. Sulla strada non possono uscire
perché piove continuamente e fa anche più freddo. Altri sono stati ricoverati
nella sala municipale e vivono nelle stesse condizioni. Pochi sono quelli
rimasti nelle campagne intorno ad Africo sperando di poter salvare qualche capo
di bestiame che rappresenta tutta la ricchezza del paese.
Hanno
perduto tutto
Molte donne
sedute sul pavimento tenevano attaccati alle mammelle aride i figli,
nell’inutile speranza di poterli nutrire. I vecchi supini, con lo sguardo fisso
in alto, già sembravano cadaveri. In un angolo del corridoio. Presso una porta
della cui fessura penetrava furtoso il vento freddo dei monti, c’erano tredici
bambini seduti intorno alla madre, distesi su un mucchio di stracci. La donna
si lamentava sordamente, tremava, ansava e gettava intorno sguardi come per
chiedere soccorso. Stava per partorire. Ma chi poteva soccorrerla. Che cosa
potevano fare per lei le altre donne?
Un uomo ci venne
incontro con le mani tese in avanti, inciampava continuamente: ci accorgemmo
poi che era cieco. Ma quanti vecchi rasi dal tracoma non incontrammo in quel
triste edificio scolastico di Bova Superiore? L’immobilità di alcuni bambini ci
fu spiegata quando tornammo sulla strada fangosa, era paralisi infantile,
permanente.
Fuori continuava
a piovere e una nebbia densa veniva giù dai monti. Sulla strada ci fu più
facile rivolgere la parola a qualcuno. Quali soccorsi avete ricevuto? Un po' di
pastasciutta. Dove andrete? Non lo sanno, hanno perduto tutto, ad Africo non
possono più tornare. Il nome del paese può già essere cancellato dalla carta
geografica della Calabria.
RICCARDO
LONGONE
Testo e foto: L’UNITA’,
Domenica 28 ottobre 1951
domenica 10 ottobre 2021
Un medico, un uomo [di Randa Haines - 1991]
“E intanto la pioggia fitta e continua pesta sul tetto ... sui vetri ... sul suolo”. Ernesto Gliozzi il vecchio
A settanta anni
da quella tragica notte tra il 17 e il 18 ottobre del 1951 non c’è stato chi
raccontasse integralmente quel dramma in un’opera letteraria, solo singole
vicende, singoli episodi legati a chi ne trattiene ancora il ricordo. A questi
ultimi si aggiunge il ricordo di quei giorni per tramite di Lisa Mittiga figlia
del dottor Giuseppino, per me, che riporto quei ricordi, zio. Il dottor Giuseppe
Epifanio Mittiga aveva 64 anni quando visse sulla sua persona il dramma di un
intero paese. Egli si laureò in Medicina e Chirurgia a Napoli nel 1912 a 25
anni. Figlio di Rocco e Caterina Fera dopo la scuola elementare a Platì fu
mandato nella città partenopea per la scuola media, successivamente si trasferì
a Gerace per compiere gli studi ginnasiali. Ritornò di nuovo a Napoli dove da
tempo risiedeva lo zio Saverio Mittiga, sacerdote e docente presso la locale Università
Teologica, autore di racconti e poesie editi nella stessa città. Presso la
Regia Università di Napoli studiò con profitto con l’illustre prof. Antonio
Cardarelli (1831 – 1927) ormai in procinto di lasciare quell’ Accademia per
raggiunti limiti d’età. Era Ufficiale Sanitario presso il Comune di Platì quando
l’alluvione si infranse sul paese. Non bisogna però pensare che quel disastro fu un fenomeno
casuale. Già da diversi giorni una fitta pioggerella cadeva incessantemente
senza che il sole apparisse, anche per pochi minuti. Alle volte si rafforzava,
alle volte diminuiva. La terra, le campagne, gli orti diventavano di giorno in
giorno impraticabili, non solo per le zappe ma anche per le scarpe e gli stivali. Molti di
quelli che abitavano in campagna cercarono rifugio presso i parenti in paese;
molti, fiduciosi rimasero nelle proprie abitazioni coloniche. La notte tra il
17 e il 18 dalla montagna verso Santa Cristina, da Arcopio e a monte di Sanello
si precipitò un torrente impetuoso che andò a colpire maggiormente la contrada
Due Valloni, il cimitero e la zona tra la fiumara Ciancio, il corso Umberto e
la via San Pasquale. Per diciannove vite la mattina del diciotto ottobre 1951
non si schiarì, centinaia erano i bisognosi di pronto soccorso. La casa del medico
Mittiga era posta all’entrata del paese. Essa con altre vicine diventò un
ospedale da campo dove il dottore ebbe modo di prestare il soccorso a chi riportò
le ferite più gravi non potendo sperare in aiuti esterni. I feriti arrivavano
adagiati sulle carriole, sulle scale fatte barelle, su lenzuola o coperte imbrattate
di sangue. Bisognò amputare o ricostruire le parti lacerate, molte teste, molte
braccia, molte gambe, molti piedi. C’era anche da soccorrere i feriti meno gravi
nelle proprie abitazioni e le partorienti, e qui il medico era assistito dalla
signora "mammina" Francesca Portolesi, moglie di don Umberto. A distanza di tempo la
figura e l’opera del dottor Giuseppino Mittiga è ricordata dai più anziani, ma specialmente per chi
lo ebbe come padre amoroso o zio affettuoso.
Hanno partecipato
Lisa Mittiga di Giuseppe e Saro Mittiga di don Agostino.
giovedì 7 ottobre 2021
mercoledì 6 ottobre 2021
Vivere ancora - Gino Paoli
VIVERE
Vivere
per non morire
sconfitto
dalle illusioni
PRIGIONIERO
Prigioniero
in una stanza
con le porte
aperte
e senza guardie.
prigioniero del
dolore
lontano dalla mamma
A Mimmo "la malinconia e il dolore
dell'assenza, in un crescendo di archi morriconiani esplosivo e straordinario".
giovedì 30 settembre 2021
Un apprezzato professionista di sicuro avvenire [di Giuseppe De Santis - 1972]
mercoledì 29 settembre 2021
Il cammino della speranza [di Pietro Germi - 1956]
«Nun avemu speranza di un avvenire megghiu. Che svago ca è mezzogiorno e ancura nun haiu assaggiatu acqua?». Danilo Dolci, Banditi a Partinico
QUANDO
A NAUFRAGARE ERANO I MIGRANTI DELLA POVERA ITALIA
La fuga dalla miseria, ieri come oggi, è la causa della morte di tanti migranti in mare, ma la storia non sembra aver sradicato i pregiudizi
di Enzo Romeo
Il
25 luglio 1956, al largo di Nantucket, l’Andrea Doria (*), ammiraglia della flotta
mercantile italiana, entrò in collisione con una motonave svedese. A bordo
c’erano persone famose, come l’attrice Betsy Drake, moglie di Cary Grant, e
poveri sconosciuti che emigravano negli Stati Uniti in cerca di fortuna.
Persero la vita 46 dei 1706 passeggeri, tra cui Concettina Zappia di Platì e i
suoi quattro figli. Andavano a New York per ricongiungersi col resto della
famiglia, che aveva lasciato anni prima l’Aspromonte per guadagnarsi il pane
dall’altra parte dell’oceano.
Nessuno
ricorda più quelle vittime. In compenso, nel commentare le stragi terroristiche
di Bruxelles, qualcuno ha paragonato Platì a Molenbeek, il quartiere da cui
provenivano alcuni degli attentatori: ’ndràngheta o jihad, il radicamento
criminale è lo stesso. Nel lontano 1890 su La Cronaca di Calabria,
un periodico che si pubblicava proprio a Platì, un articolista vicino ai
proprietari terrieri scriveva che i contadini «sono invasi dalla febbre di partire
per gli Stati Uniti d’America», non per sottrarsi alla fame ma per «l’ambizione
di guadagnare molti quattrini».
Passano
i secoli e i pregiudizi rimangono, mentre ci vorrebbe un surplus educativo. Ci
sta provando padre Masino, piemontese della Consolata, che dopo 43 anni
d’Africa fa il missionario a Platì, il Comune più commissariato d’Italia, e
mette a disposizione la sala parrocchiale per i dibattiti politici. Una
maestra, Irene Càrastro Mosino, ha raccontato nel libro Felice sera (Jaca Book) l’insegnamento nelle
“pluriclassi” dei paesi aspromontani e le parole amare che uscivano dalla bocca
degli alunni: «Domani non vengo a scuola, vado a trovare mio padre in carcere»…
La maestra, con tanta pazienza, insieme all’algebra e alla grammatica, diede
lezioni di educazione civica e di speranza.
Quella
speranza che cercava Concettina per i suoi figli inghiottiti dal mare, stesso
tragico destino di tanti piccoli migranti di oggi.
Il testo originale è qui:
https://www.credere.it/n.-20-2016/ite-missa-est-di-enzo-romeo.html
martedì 28 settembre 2021
Once Upon a Time in America [by Sergio Leone - 1984]
In questi giorni sto leggendo “Vita” di
Melania G. Mazzucco che è stato Premio Strega 2003. È un libro sull’emigrazione dalla miseria di un paese nel Lazio alla
miseria di New York. Un libro spietato e crudo, affollato di una umanità con i
suoi sentimenti e con le sue crudeltà. La differenza fra le due miserie è la
speranza insita nella seconda. È anche una rivisitazione dell’autrice delle storie di famiglia nel
periodo che il proprio nonno visse da emigrante a New York e poi a Cleveland. Nella prima parte, capitolo
“L’ostinato profumo di limone” trovo questo passaggio: “Quando, nell’archivio di Ellis
Island, consultai la lista passeggeri della nave Republic, a bordo della
quale Diamante arrivò in America, scoprii il nome delle 2200 persone che
viaggiarono con lui. Ora posso dire di conoscerli uno a uno. La nave – che
dopo la sosta a Napoli fece scalo a Gibilterra – trasportava italiani e
turchi. Ma la parola “turchi”, nel 1903, ai tempi dell’Impero Ottomano,
significava molte cose: ebrei, greci, armeni, albanesi, siriani, libanesi,
slavi, berberi. A Ellis Island sbarcò per primo Athanapos Kapnistos,
sedicenne di Creta, poi Marie Kepapas, diciannovenne di Salonicco. Quindi, in
successione, gruppi di Beirut, di Rodi, della Macedonia, di Samo, Vasto,
Fano; poi decine di ragazzi da Platí e Gioiosa Jonica, Gerace, Polistena, Scilla, Agropoli,
Nicastro, Nocera, Teramo, Castellabbate.” E qui, vedendo menzionato Platì, mi incuriosisco e vado a
controllare sul sito di Ellis Island dove trovo l’elenco dei passeggeri della
nave Republic del 1906 (e non del 1903 come dice l’autrice per sue esigenze
narrative). |
These
days I am reading "Vita" by Melania G. Mazzucco which was awarded
the 2003 Strega Prize. It
is a book on emigration from the poverty of a village in Lazio region to the poverty of New York.
A ruthless and raw book, crowded with a humanity with its feelings and its
cruelties., the difference between the two poverties being hope. It
is also a reinterpretation by the author of the family stories in the period
that her grandfather lived as an emigrant in New York and then in Cleveland. In
the first part, chapter "A persistent lemon scent", I find this
piece: "When,
in the Ellis Island archive, I consulted the passenger list of the ship
Republic, aboard which Diamante arrived in America, I discovered the names of
the 2,200 people who travelled with him. Now I can say that I know them one
by one. The ship - which after the stop in Naples made a stop in Gibraltar -
carried Italians and Turks. But the word "Turks", in 1903, at the
time of the Ottoman Empire, meant many things: Jews, Greeks, Armenians,
Albanians, Syrians, Lebanese, Slavs, Berbers. The first to land at Ellis
Island was Athanapos Kapnistos, sixteen from Crete, then Marie Kepapas,
nineteen from Thessaloniki. Then, in succession, groups from Beirut, Rhodes,
Macedonia, Samo, Vasto, Fano; then dozens of boys from Platí and Gioiosa
Jonica, Gerace, Polistena, Scilla, Agropoli, Nicastro, Nocera, Teramo,
Castellabbate. " At
the mention of Platì, I get curious and go to check the Ellis Island website
where I find the passenger list of the Republic ship from 1906 (and not from
1903 as the author says for her narrative needs). |
Provenienti da Platì e Natile, imbarcati a Napoli, sbarcano
a Ellis Island: Pasquale Rinaldo, n. 1871, 35 anni, celibe (Platì) Antonio Zappia,
n.1889, 17 anni, celibe (Platì) Antonio Callofan, n. 1882,24 anni, celibe (Natile) Pasquale Jermani (Jermanò), n. 1888,18 anni, celibe (Platì) Giuseppe Perri, n. 1865, 41 anni, celibe (Platì) Pietra (Pietro?) Stansio (Strangio?), n. 1887, 19 anni, celibe
(Natile) Michele Strangio,
n. 1877, 29 anni, sposato (Platì) Guiseppe (Giuseppe) Calabina (Calabria),
n. 1887, 19 anni, celibe(Platì) Rosario Portolese , n. 1865, 41
anni, vedovo (Platì) |
Coming
from Platì e Natile, embarked in Neaples, desembark at Ellis Island: Pasquale Rinaldo, n. 1871, 35 yrs, single (Platì) Antonio Zappia,
b.1889, 17 yrs, single (Platì) Antonio Callofan, b. 1882,24 yrs, single (Natile) Pasquale Jermani (Jermanò), b. 1888,18 yrs, single (Platì) Giuseppe Perri, b. 1865, 41 yrs, single (Platì) Pietra (Pietro?) Stansio (Strangio?), b. 1887, 19 yrs, single
(Natile) Michele Strangio,
b. 1877, 29 yrs, married (Platì) Guiseppe (Giuseppe) Calabina
(Calabria), b. 1887, 19 yrs, single(Platì) Rosario Portolese ,
b. 1865, 41 yrs, widower (Platì) |
L’autrice continua con una
riflessione sui passeggeri: “La maggior parte aveva meno di
vent’anni. I passeggeri ragazzi di quella nave – e di tutte le altri navi di
quegli anni – non corrispondono all’immagine che mi è stata tramandata. Alle
fotografie che ho visto nelle mostre e nei musei, e che si sono impresse cosí
profondamente nella mia memoria da condizionare la mia immaginazione. Figure
dolenti e incomprensibili, comunque lontane, distanti. Ho negli occhi i volti
tristi dei contadini, le loro mogli tristi, vestite di nero, i loro bambini
tristi, ho negli occhi i loro tristi fagotti, che contengono tutto il loro
niente. Forse ho negli occhi uno stereotipo. Possibile che tutti questi
ragazzi senza bagaglio – S, single, nella casella relativa allo stato
coniugale – siano partiti per non tornare? Scorro l’elenco interminabile di
quei nomi – Saverio Ricci da Brodolone, 17 anni, Aniceto Ricco da
Montefegato, 17 anni, Annibale Spasiani da Sgurgola, 16 anni, Giuseppe
Vecchio da S. Coseno, 14 anni… – e comincio a pensare che per un’intera generazione di ragazzi l’America
non fosse
una meta né un sogno. Era un luogo favoloso e insieme familiare – dove si
compiva, con il consenso degli adulti, un rito di passaggio, un rito di
iniziazione. Altre generazioni ebbero il servizio militare, la guerra in
trincea, le bande partigiane, la contestazione. I ragazzi nati negli ultimi
decenni dell’Ottocento ebbero l’America. A
quattordici, sedici, diciott’anni (qualcuno prima, qualcuno dopo), in gruppo,
con i cugini, i fratelli, gli amici, dovevano compiere la traversata – morire
– se volevano crescere, se volevano sopravvivere. Risorgere. Dovevano
affrontare l’America come i ragazzi delle tribú australiane, di Papua e della
Nuova Guinea affrontavano il mitico mostro che li inghiottiva per rivomitarli
uomini. Dovevano essere pianti, essere persi, essere considerati morti. E
dovevano tornare indietro. Solo una parte lo fece realmente: il protagonista
di molte favole iniziatiche, viaggiando, spingendosi al di là dei confini del
mondo noto finisce per trovare un regno preferibile a quello da cui è partito
– e per restarvi, cominciando un’altra vita.” |
The author continues with her considerations on passengers: “They were mostly under the age of twenty. The boy
passengers of that ship - and of all the other ships of those years - do not correspond
to the image that has been handed down to me; to the photographs that I have
seen in exhibitions and museums, and which have impressed themselves so
deeply in my memory as to influence my imagination. Painful and
incomprehensible figures, however far, distant. I have in my eyes the sad
faces of the peasants, their sad wives, dressed in black, their sad children,
I have in my eyes their sad bundles, which contain all their nothingness.
Maybe I have a stereotype in my eyes. Could it be that these guys without
baggage - S, single, in the box relating to marital status - have left never
to return? I scroll through the endless list of those names: Saverio Ricci from
Brodolone,17, Aniceto Ricco from Montefegato, 17, Annibale Spasiani from
Sgurgola,16, Giuseppe Vecchio from S. Coseno, 14 ... - and I begin to think that for
an entire generation of youths America was neither a destination nor a dream.
It was a fabulous and at the same time familiar place - where, with the
consent of the adults, a rite of passage, an initiation rite, was performed.
Other generations had military service, trench warfare, partisan bands,
protest. The boys born in the last decades of the nineteenth century had
America. At fourteen, sixteen, eighteen (some before, some later), in
a group, with cousins, brothers, friends, they had to make the crossing - die
- if they wanted to grow, if they wanted to survive. Resurrect. They had to
face America as the boys of the tribes of Australia, Papua and New Guinea
faced the mythical monster that swallowed them to revive them as men. They
had to be mourned, to be lost, to be considered dead. And they had to go
back. Only one part really did it: the protagonist of many initiatory tales,
travelling, pushing himself beyond the confines of the known world, ends up
finding a kingdom preferable to the one he started from - and staying there,
starting another life.” |
Mazzucco, Melania G. Vita (Super ET Vol. 1640) (Italian Edition) (pp.147-148). EINAUDI. Edizione del Kindle.